Riflessioni d’attualità

Immagine presa dall’articolo “Militarismo,” pubblicato ne “L’Adunata dei Refrattari”, n. 3, Vol. XXIII, 2 Settembre 1944

Sono passati più di ottanta anni dagli accordi di resa presi a Cassibile – località ad una decina di chilometri dalla città di Siracusa -, e dal “Proclama d’armistizio” tra il Regno d’Italia e le forze alleate (rispettivamente 3 e 8 Settembre 1943). La proclamazione dell’armistizio arrivava dopo la caduta di Mussolini (25 Luglio 1943) e l’invasione anglo-americana della Sicilia (17 Agosto 1943). Il giorno dopo la dichiarazione governativa (9 Settembre 1943), la famiglia sabauda, lo Stato Maggiore e il capo del governo Pietro Badoglio fuggirono a Brindisi, creando il cosiddetto “Regno del Sud”. Le truppe tedesche, dal canto loro, subodorando il possibile crollo e tradimento italiano (specie dopo la destituzione di Mussolini), inviarono numerose truppe nel centro-nord italiano (Operazione Achse). Dall’8 Settembre 1943 fino al 2 Maggio 1945 l’Italia si trovò spaccata a metà: da un lato i nazifascisti; dall’altro i partigiani del Comitato di Liberazione Nazionale e le truppe angloamericane. Quel che doveva essere l’annuncio della fine della guerra fu, in realtà, un proseguimento della morte e distruzione che imperversava sia in Italia che nel resto dei territori interessati alle operazioni belliche (Europa Orientale e Occidentale, Pacifico, Sud-Est Asiatico).

Varie pubblicazioni anarchiche di lingua italiana denunciarono ai tempi il carattere superficiale, criminale e ignominioso del governo Badoglio e della monarchia sabauda nel firmare l’armistizio e lasciare, al contempo, un intero paese allo sbando e nelle mani dei tedeschi e dei fascisti fedeli a Mussolini.

Tra questi giornali ve ne fu uno in particolare che, fin dallo scoppio del secondo conflitto mondiale, ebbe una lucidità nel riportare le connivenze tra le borghesie europee, specie italiane, elvetiche e tedesche: “Il Risveglio Anarchico/Le Réveil Anarchiste” di Ginevra.

L’articolo che presentiamo, “Riflessioni d’attualità”, pubblicato nel Settembre 1943, affronta le seguenti questioni: la resa italiana vista come una continuazione delle operazioni guerresche sul territorio (morti, distruzione, carestia e fame) e una palese difesa dei privilegi monarchici, militari e borghesi italiani; la liberazione di Mussolini e l’utilizzo a mo’ di pupazzo che ne fece il regime hitleriano; la previsione azzeccata sull’Italia non pesantemente punita (nonostante la sconfitta); e le azioni dei sovietici pronti ad occupare e controllare quei territori (specie dell’Est Europa) che, fino a quel momento, erano sotto l’egida hitleriana.

Francamente non comprendiamo il gran chiasso che si è fatto intorno all’evasione di Mussolini, la quale non cambia niente di niente alla situazione. Al momento in cui scriviamo non sappiamo l’uso che ne vorranno fare i tedeschi, e il Benito è già tanto usato! E’ appunto perchè diventato fuori uso che la plutocrazia italiana ha dato ordine al re di sbarazzarsene. Ora è permesso di costatare due cose : l’Inghilterra non afferma di avere reclamato l’immediata con segna del delinquente, Eisenhower neppure; in quanto al reuccio, gli doveva ripugnare di rimettere un complice, un intimo suo da più di vent’anni!

Se si tien conto che già durante l’altra guerra gli Alleati avevano promesso castighi esemplari ai responsabili della guerra o di particolari atrocità e poi nessuno venne castigato, è lecito supporre che è una commedia e nulla più l’evasione di Mussolini. E’ un peso morto di cui conveniva liberarsi senza tardare. La pretesa evasione, coincidendo con uno scacco subito in quel di Salerno dalle truppe alleate, taluni vedono già la guerra vinta dai tedeschi e il Predappiese ridiventato dittatore. Si dimentica tutta la flotta italiana rimessa agli Alleati, le rapide conquiste di Montgomery, l’impressionante avanzata dei russi, le disfatte nipponiche e i tanti segni d’un crescente indebolimento germanico. Vien quasi voglia di ripetere il « nervi a posto! » di Serrati, che, lui, li voleva a posto proprio quando urgeva di spostarli per colpire sodo.

Storia passata, ci si dirà, ma da non dimenticare, perchè non è detto che non possa ripetersi. L’armistizio intanto è per gli italiani una terribile disillusione. Non è pace, perchè tutta la penisola può diventare ormai teatro di guerra, non è sicurezza perchè in molte parti fascisti e tedeschi si danno ancora la mano, non è diminuzione ma aumento di crisi, di disoccupazione, di miseria, di carestia.

Il grido di pace immediata era naturale, ma il genio mussoliniano aveva creato la situazione paradossale di non potere né continuare la guerra né far la pace. Ormai, quali che possono ancora essere gli scacchi degli Alleati, la loro superiorità in uomini e in mezzi non può, a più o meno lunga scadenza, che dar loro la vittoria. I sogni imperialisti svaniti, la Germania oltre al raccorciare i fronti, raccorcia nella sua stampa le pretese in «spazio vitale», in Eurafrica, in drang nach Osten, ecc., ora chiede soltanto di non subire quella servitù che voleva imporre agli altri.

C’è chi vorrebbe, col lodevole fine d’abbreviare la guerra, che gl’italiani si battessero ora contro i tedeschi, ma accettata la completa sconfitta, definita dalla capitolazione senza condizioni, non si vede proprio che ragione può sussistere di rischiare la propria pelle. Se i tedeschi si trovano in Italia, è perchè Mussolini ed il suo re ve li hanno insistentemente chiamati ed è naturale preferiscano guerreggiare su territorio altrui.

L’imbecillità fascista di sognare un impero in sott’ordine, cominciando col favorire la creazione d’un impero germanico molto più potente, per non esserne più che un vassallo, appare in tutte le sue spaventose conseguenze. In quanto gli Alleati ridurranno la potenza di detto Impero, l’Italia avrà un più largo respiro. Non per nulla in certi ambienti antifascisti la parola d’ordine era: «perdere per vincere » ; ma ogni perdita trae seco massacri, spogliazioni, distruzioni, rovine, e cioè sacrifìci immensi.

Si freme così al pensare che l’Italia è lontana ancora dalla fine del suo martirio. Gloria d’armi è sempre gloria di sangue, ma che dire d’onte ancor più cruenti ! I grandi teorici della trasformazione della guerra imperialista in civile si sono semplicemente trasformati in superpatriotti da quando nel giugno 1941 Stalin, che pensava godere tranquillamente dei frutti del mal di tutti, infischiandosi della sorte di piccoli e grandi democrazie, si vide coinvolto nella guerra e costretto a farla con masse d’uomini e su fronti di gran lunga maggiori di quanto ne avesse mai visti la storia.

Si tratta proprio d’inganno tornato a casa dell’ingannatore; ma che ha servito la causa degli Alleati in misura decisiva. Non sono però escluse altre sorprese da parte bolscevica, dato il suo imperialismo che turbe di fanatici battezzeranno di conquiste socialiste ! Stalin cercherà di riprendere contro i piccoli Stati le aggressioni ed il terrorismo di Hitler, come del resto ne ha già dato più d’un esempio. L’avvenire è buio, perchè la bussola della vera emancipazione è da tempo persa dai politicanti e mestieranti del socialismo e del sindacalismo.

Nota bibliografica e storica a cura del Gruppo Anarchico Galatea

-Il “Risveglio Anarchico” fu un giornale anarchico pubblicato a Ginevra nel lontano 7 Luglio 1900 e diretto da Luigi Bertoni e altri compagni (migranti o fuoriusciti italiani). Le tematiche che venivano trattate nel giornale erano le più disparate: antimilitarismo, analisi e critica teorica e di prassi anarchica, notizie di attualità, memoria storica etc. A partire dal 6 Agosto 1940, il Consiglio Federale Svizzero fece passare delle leggi in cui si attaccavano le associazioni comuniste e anarchiche. Come riportato da Leonardo Bettini nelle “Note Conclusive” riguardanti la voce “Il Risveglio Anarchico”, dal 24 Agosto 1940 “soppresso nella sua veste ordinaria e legale, il periodico continuò, in effetti, ad apparire clandestinamente, per tutto il tempo in cui perdurò il conflitto, anche se sotto forma di «brochures» (edite con la dicitura «Quelque part en Suisse»), l’ultima delle quali, la 148a, uscì alla vigilia della morte di Bertoni, avvenuta a Ginevra il 19 Gennaio 1947.”

-“Riflessioni d’attualità” venne pubblicato ne “La Guerre continue”, n. 74, Settembre 1943, pagg. 9-10

Fonte consultata

-Bettini Leonardo, “Bibliografia dell’anarchismo. Volume 1, tomo 2. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati all’estero. 1872-1971”, CP, Firenze, 1976, pagg. 242-253

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L’urgenza di abolire la polizia e una nota sull’antirazzismo morale – Prima Parte

di Acácio Augusto1

Traduzione dall’originale “A urgência da abolição da polícia e uma nota sobre antirracismo moral

Con un’ondata di infezioni da Covid-19 che si diffondeva in tutto il pianeta, un episodio di brutalità poliziesca avvenuto il 25 Maggio 2020 negli Stati Uniti ha causato un importante cambiamento nelle lotte contro i dispositivi di sicurezza.

Un uomo di colore, George Floyd, è stato strangolato a morte da un agente di polizia bianco a Minneapolis, Minnesota. Come era accaduto negli anni precedenti, di fronte a casi come questo c’è stata una forte reazione da parte dei vari settori del movimento nero con tanto di manifestazioni dove veniva intonato lo slogan “Black Lives Matter” – creato dal movimento nel 2013. Ma il piccolo cambiamento che è emerso, nel mezzo delle proteste, è stata una richiesta molto concreta, specifica e immediata: l’abolizione della polizia.2

Se da un lato questa non era stata una richiesta maggioritaria all’interno di tutto il movimento – nella misura in cui le proposte di riforma della polizia erano predominanti -, dall’altro lato, invece, vi era una “rinascita” e supporto della proposta di abolizione della polizia, al di là delle richieste di giustizia penale sulla morte di George Floyd. Tutta questa situazione aveva scatenato delle rivolte, culminate con l’incendio di una stazione di polizia a Minneapolis e la diffusione mondiale della proposta di abolizione della polizia.

Un esempio, a livello internazionale, si era avuto con la rivista francese “Lundi Martin” (numero 248, del 26 Giugno 2020) dove era stato pubblicato il “Manifesto per la soppressione generale della polizia nazionale”. L’articolo non solo era collegato alle proteste negli Stati Uniti, ma era anche una risposta contro le violenze poliziesche sui manifestanti “Gilet Gialli”3 e sulle persone razzializzate – specie quelle residenti nelle periferie di Parigi.

Questi dibattiti di “8 To Abolition” sono arrivati qui in Brasile, dove la proposta è stata già discussa in alcuni cicli di movimenti abolizionisti penali e gruppi di ricerca universitari. La campagna dell’Iniziativa per il Diritto alla Memoria e alla Giustizia Razziale (in portoghese “Iniciativa Direito à Memória e Justiça Racial”)4), a cui è destinato questo breve testo, sottolinea l’urgenza di abolire la polizia in Brasile. Si tratta di un’urgenza inconfutabile dato che il Paese ha una delle forze dell’ordine più violente e mortifere del pianeta. Lo scopo dell’articolo è quello di proporre alcune idee su come elaborare un’analisi sulla polizia senza cadere nella trappola delle argomentazioni riformiste – le quali lasciano sempre intatte le funzioni e l’esistenza della stessa struttura poliziesca.

Partendo da un corso tenuto da Michel Foucault5, [definiamo] la polizia non tanto come una semplice istituzione ma, piuttosto, una tecnologia di governo la cui storia è legata alla formazione dello Stato moderno e ai mezzi di cura e controllo della popolazione. Ribadiamo, quindi, che è necessario mettere in discussione l’istituzione e, soprattutto, concentrarsi sulla figura del poliziotto medio (precisamente nelle sue funzioni ordinarie di professionista della violenza e di “burocrate armato”6). Se partiamo da questa analisi che inquadra la polizia come una tecnologia di governo, possiamo allargare il nostro campo d’azione fino a chiederne l’abolizione. Con questa prospettiva, [la polizia] viene percepita come un elemento delle tecnologie di controllo e costruzione soggettiva della cittadinanza contemporanea, ovvero dei modi di fare, pensare e immaginare il soggetto delle democrazie della sicurezza7 odierna: il cittadino-poliziotto.8

La polizia come tecnologia di governo

Dobbiamo guardare la polizia al di là delle istituzioni e dell’uniforme. In primo luogo perché rappresenta un’immagine di paura nelle strade e si nutre di un voluminoso discorso mediatico e del mercato dell’intrattenimento – quest’ultimo dipinge gli agenti di polizia come soggetti capaci delle imprese più improbabili e/o invischiati in drammi morali tra il dovere e la legge. Così, quando si critica la polizia, si costruisce una trappola dove ci si concentra sui suoi abusi, sulla sua eccezionalità nella vita e nella società come il capitano Nascimento del film “Elite Squad”, un personaggio pieno di dilemmi personali, violento fino all’estremo ma con una coscienza da risanare e un senso di giustizia che, anche se dubbio, gli conferisce una certa “umanità.”

Così, gli abusi di alcuni poliziotti o di un gruppo “marcio” vengono criticati perché si ricerca una polizia onesta, democratica, rispettosa dei diritti umani e non brutale. In questo modo, viene rinnovato un discorso di riforma e/o smilitarizzazione della polizia, basato su un immagine degli agenti e della polizia stessa che non esiste, è esagerato o, semplicemente, proietta un ideale di ordine riformista irraggiungibile. Questo insieme di riforme e questa immagine della polizia ignorano (o cercano di camuffare) il fatto che l’attività principale delle forze dell’ordine sia la distribuzione legittimata (asimmetrica e ineguale) della violenza in tutta la società – in particolare verso coloro che sono considerati pericolosi.

Costruire una critica della polizia che separi i poliziotti buoni da quelli cattivi, significa riprodurre gli approcci e le divisioni funzionali tipiche di questa istituzione repressiva. Queste logiche sono diffuse, in particolare, dal mercato dell’intrattenimento dove i film polizieschi rappresentano il binarismo semplicistico “poliziotto buono/poliziotto cattivo”.

Come nei film, queste immagini di buono e cattivo sono complementari per la polizia e servono per la sua stessa esistenza, continuità istituzionale e forma predominante di persuasione.

La polizia è un insieme di pratiche e tecnologie per la gestione, il controllo e la repressione della popolazione; [in parole povere,] la tecnologia più preziosa per le moderne arti governative, capace di essere allo stesso tempo individualizzante e totalizzante, generale e specifica e che riguarda tutti e le singole persone.

Se nelle fasi emergenziali [la polizia] era usata come strumento della ragione di Stato – e quindi per [difendere] la sovranità statale -, adesso, con lo Stato smembrato, le forze dell’ordine sono usate come dispositivo di sicurezza interna della governamentalità neoliberista. [Alla luce di questo,] la funzione delle forze di polizia è promuovere il buon governo delle cose e delle persone, favorendo la conservazione e l’espansione del governo statale.

È nella forma di questa seconda caratteristica che le pratiche poliziesche emergono oggi giorno come strumento di promozione della sicurezza: supporto della produzione di un ordine ineguale e asimmetrico nelle società capitalistiche e protezione della proprietà privata e/o statale.

Si tratta di un insieme molto complesso ed eterogeneo che combina modalità di promozione della salute pubblica (medicina sociale), interventi nei piani e nelle riforme urbane (urbanistica) e strumenti di regolazione della forza lavoro (modalità di controllo e cura dei lavoratori, finalizzate all’aumento della produttività).

Pertanto la storia della polizia, [all’interno della vasta] storia delle tecnologie di governo, va ben oltre le sue forme di riconoscimento (quali apparato repressivo dello Stato,figura di un uomo armato in uniforme, ostentazione di una squadra di poliziotti presente nelle strade e/o pronta a reprimere un gruppo di manifestanti). Nella sua storia, la polizia ha intrecciato i suoi saperi con la sociologia, la scienza politica e l’economia politica.

Come ci dice Michel Foucault nel suo corso 1977-1978, “dal XVIII secolo “police” comincia a designare l’insieme dei mezzi che servono a far crescere le forze dello Stato, garantendo il buon ordine dello Stato stesso. La polizia sarà cioè il calcolo e la tecnica che permetteranno di stabilire una relazione mobile, ma comunque stabile e controllabile, tra l’ordine interno dello Stato e la crescita delle sue forze.9 In sintesi: la polizia che emerge in Europa, legata al potere sovrano, ha come obiettivo primario l’utilizzo delle forze statali all’interno del suo territorio. Il fine di tutto questo è la realizzazione dello splendore statale.

La polizia è il dispositivo diretto della Ragione di Stato e ha come strumento la decifrazione statistica – ovvero la conoscenza dello Stato stesso. Ma l’emergere della forma-polizia, o delle tecniche eseguite dalla polizia sovrana, ha subito delle mutazioni a causa delle specificità e delle aggregazioni di conoscenze dei vari Paesi europei – i quali, alla fine, hanno creato le forme e le funzioni della polizia moderna o le relative forme di intervento dello Stato nelle società odierne. Oltre a queste forme, nei territori colonizzati dagli Stati nazionali europei, la specificità della polizia era legata alle frustate, alla brutalità e all’uccisione su larga scala delle persone – per lo splendore dello Stato coloniale!

Seguendo la genealogia dello Stato di Michel Foucault – dove la polizia è un elemento decisivo per il funzionamento delle moderne pratiche governative-, si nota come la formazione delle tecnologie di polizia riunisca saperi specifici e pratiche istituzionali diverse. Foucault mostra che nella Germania non ancora unificata, la polizia fosse una creazione dell’università – dove si produceva una scienza della polizia.

L’autore [francese] riporta, nei suoi scritti dedicati alle forme di governo, la parola “polizeiwissencraft, la scienza di polizia, che dalla metà o dalla fine del XVII secolo fino alla fine del XVIII rappresenterà un fenomeno specificamente tedesco e che si diffonderà in Europa esercitando un’influenza capitale.”10

Parallelamente a questa teoria della polizia prodotta dalla scienza politica tedesca, in Francia, che aveva già uno Stato amministrativo centralizzato con un territorio delimitato, la polizia sarebbe stata concepita e gestita dalla nascente burocrazia statale (attraverso decreti e regolamenti finalizzati al controllo e alla circolazione delle merci nelle città). Se in Germania la polizia era una creazione dell’università, in Francia sarebbe stata una creazione della burocrazia statale al servizio della regolamentazione dei beni, della persone e della ricchezza.

L’aspetto importante di questi riferimenti raccolti da Foucault non è la selezione di un insieme di fatti che costituirebbero una sorta di storia della polizia moderna. L’uso di questi riferimenti serve per capire, a livello genealogico, come la polizia abbia una storia di formazione all’interno dei rapporti di potere-conoscenza moderni. In sintesi: la polizia è legata all’arte del governare, cioè a quei mezzi di conoscenza e controllo, senza porsi limiti come lo strumento giudiziario o un insieme di apparati statali. Questa genealogia evidenzia la positività della forma-polizia nella formazione dello Stato moderno. Si tratta di un dispositivo con funzioni proprie, oggetti e obiettivi ben definiti, producendo un ordine, una regolamentazione del commercio, un’amministrazione delle città e una disciplina dei sudditi.

In breve, la positività della polizia, dalle origini a quella che diventerà, è la produzione del mondo borghese – nel senso storico di questo termine. Questa è la positività della polizia nascente: produrre l’ordine borghese basato sulla proprietà. Parallelamente a queste pratiche, nelle colonie europee, quest’arte di governare e produrre ordine avrebbe avuto altre funzioni quale la caccia ai non soggetti: i selvaggi della terra e le persone portate lì come schiavi.

Come sintetizza Foucault, la polizia avrà una specificità di funzioni staccate dalla legge: si occupa dell’ordinario e delle piccole cose, mentre la legge deve occuparsi delle cose importanti dello Stato. In altre parole, la polizia è la governamentalità diretta del sovrano in quanto sovrano. In questo senso, la polizia è il colpo di stato permanente, che si eserciterà in nome e in funzione dei princìpi della sua stessa razionalità, senza doversi conformare o modellare sulle regole di giustizia stabilite altrove”.11

Oggi questa definizione è importante per poter analizzare la polizia come tecnologia di governo. Anche se questa forma sovrana della polizia è cambiata nel corso dei secoli – fino a diventare quella che oggi conosciamo come polizia repressiva -, questa indipendenza o autonomia dalla legge resiste. Tale resistenza è giustificata in quanto la polizia agisce come forma di intervento immediato e affronta una serie di questioni urgenti che la legge non è in grado di prevedere. La conseguenza è che gli agenti di polizia si considerano cittadini di un’altra categoria, liberi dal rispetto della legge e sottoposti a norme e regolamenti speciali. Di fronte alla rigidità della legge, il controllo della polizia rimane elastico.

Tuttavia, questa forma di polizia sovrana era stata criticata a partire dalla fine del XVIII secolo; ciò ha prodotto delle mutazioni nella sua forma e smantellato le sue funzioni in altri campi d’azione. Questa critica era stata portata avanti da una conoscenza emergente che si opponeva all’artificiosità dell’intervento sovrano – il dispositivo di polizia – e sosteneva un “ambiente naturale” suscettibile di regolamentazione – opponendosi, quindi, ad uno Stato di polizia (Polizeistaat).

Un gruppo collegato a questa campo della conoscenza emergente avrebbe articolato questa critica – gruppo che, secondo Foucault, era quasi una setta: gli economisti. Questa conoscenza, ovvero l’Economia Politica, si rivolgeva ad un oggetto di governo che non era più un gruppo di soggetti eterogenei ma un campo comune, quasi un ambiente naturale: la società – o quella che oggi chiamiamo “società civile” -, in opposizione alla società politica (lo Stato). Questa divisione era stata resa possibile grazie a un campo di intervento misurabile, prodotto dalla conoscenza statistica dello Stato. Questo campo di intervento sarebbe stato la popolazione stessa; ciò era stato reso possibile grazie alla conoscenza statistica e all’economia politica che si occupava della società come popolazione, un “corpo-specie” capace di essere dominato dal controllo e dall’amministrazione biopolitica.

Così, l’articolazione tra i saperi dell’economia politica e le pratiche di gestione della popolazione creava una relazione dinamica nei meccanismi di sicurezza e protezione, producendo ciò che veniva inteso come libertà moderna (liberale). Questo avrebbe segnato, all’interno della genealogia della polizia, il passaggio dalla governamentalità sovrana (attraverso la polizia sovrana) a una governamentalità liberale – che darà forma alla polizia moderna.

Continua nella Seconda Parte

Note

1Professore del Dipartimento delle Relazioni Internazionali dell’UNIFESP. Coordina il LASInTec (Laboratório de Análise em Segurança Interacional de Tecnologias de Monitoramento), e il Programa de Pós Graduação em Psicologia Institucional dell’UFES. Contato acacio.augusto@unifesp.br

2Sopra questo, vedere gli otto punti per l’abolizione della polizia. Link: https://www.8toabolition.com/

3Il LASInTec ha tradotto e pubblicato, con una nota introduttrice a partire dal Brasile, questo manifesto: https://lasintec.milharal.org/files/2020/08/Boletim-AntiSeguran%C3%A7a-n1-1.pdf

5Nota del Gruppo Anarchico Galatea: in italiano è conosciuto come “Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978)”

6“Burocrate armato” è un termine coniato dall’antropologo anarchico David Graerber; indica la funzione ordinaria di un agente di polizia. Vedere David Graeber, “The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy”, New York, Melville House, 2015.

7Sulla nozione di democrazia della sicurezza, si veda Acácio Augusto e Helena Wilke. “Racionalidade neoliberal e segurança: embates entre democracia securitária e anarquia”, in Margareth Rago e Mauricio Pelegrini. “Neoliberalismo, feminismos e contracondutas. Perspectivas fouacultianas,” São Paulo, Intermeios, 2019, pp. 225-245. Disponibile all’indirizzo: https://www.academia.edu/42444431/Racionalidade_neoliberal_e_seguran%C3%A7a_embates_entre_democracia_securit%C3%A1ria_e_anarquia

8Sulla polizia associata alle tecnologie di monitoraggio e sulla costituzione del cittadino-poliziotto, si veda Acácio Augusto, “Política e polícia: cuidados, controles e penalizações de jovens”, Rio de Janeiro, Lamparina, 2013 e Edson Passetti et. ali, “Ecopolítica”, São Paulo, Hedra, 2019.

9Foucault Michel, “Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978)”, Feltrinelli, Milano, 2005, pag. 226

10Ibidem, pag. 230

11Ibidem, pag. 246

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Regione di Kharkiv, mobilitazione e controffensiva: sempre più obiettori da entrambi i lati

Traduzione dall’originale “Харьковщина, мобилизация и контрнаступ: с обеих сторон всё больше отказывающихся воевать

“Oggi gestisci la cassa di una “classe”, e domani vai in un carro armato nel Donbass” (arte popolare)

Nella regione di Kharkiv, secondo gli atti giudiziari provenienti dal Registro delle decisioni dei tribunali ucraini, il numero di persone condannate per evasione dalla mobilitazione, normata ai sensi dell’articolo 336 del codice penale (c.p.) 1, continua a crescere – ma non così velocemente come all’inizio dell’anno.

I tribunali di primo grado della regione di Kharkiv hanno emesso:

-tre condanne dall’inizio dell’inverno fino alla metà di Febbraio di quest’anno;

-sette condanne tra la seconda metà di Febbraio e la prima metà di Aprile;

-dieci condanne dalla metà di Aprile alla fine di Luglio, sentenziate nei tribunali distrettuali di Kominternovskyi (8 Aprile e 11 Luglio), Kegichevskyi (20 Aprile), Krasnohradskyi (25 e 26 Aprile), Lozova (6 Giugno), Leninskyi (6 e 8 Giugno), Moskovskyi (8 Giugno) e Chervonozavodskyi (29 Giugno).

I casi sono tutti uguali: una persona soggetta al servizio militare supera la visita medica, riceve una convocazione e non si presenta [al comando militare]. Quasi tutti sono stati condannati a 3 anni di reclusione con un periodo di prova di 1 o 2 anni. I colpevoli hanno ottenuto queste sentenze grazie al loro sincero pentimento e, soprattutto, al non avere condanne pregresse. L’unica eccezione è stato il verdetto dell’11 Luglio dove un lavoratore stradale trentaduenne della “Naftogaz Ukrainy”, originario di Andreevka, vicino a Balakleya, ha ricevuto 3 anni di carcere nonostante l’assenza di precedenti penali, mantenesse il figlio minorenne e, durante l’istruttoria processuale, si era pentito e ravveduto dell’azione commessa. A quanto pare, il giudice ha ritenuto che la famiglia non avesse sofferto abbastanza [quando] il distretto di Izjum era sotto l’occupazione [russa]; ma questa decisione non è ancora entrata in vigore e può essere impugnata.

Il 28 Giugno la Corte d’appello di Kharkiv, ai sensi dell’articolo 336 c.p., ha inflitto 3 anni di carcere con la condizionale ad una persona [precedentemente] condannata – e il 20 Luglio ha sentenziato un analogo procedimento. Nel secondo caso, il procuratore ha specificamente “osservato che il comportamento della persona [in questione], denota la sua consapevolezza nel commettere un reato, [oltre a voler] evitare una vera punizione per l’atto commesso. La posizione personale di evitare la mobilitazione nelle forze armate dell’Ucraina, rimaneva il motivo principale dei suoi futuri piani.”

Le sentenze, impugnate dall’accusa in appello, sono state emesse quest’anno dai tribunali distrettuali di Kominternovskyi (6 Aprile) e Kolomakskyi (3 Aprile).

Nello stesso periodo, in base all’articolo 408 del Codice penale (sulla diserzione), sono state emesse nella regione di Kharkiv dieci sentenze di primo grado, mentre dall’inizio dell’inverno a metà primavera erano state solo tre. Due di queste dieci sentenze (tribunale di Chuguev (15 Giugno) e tribunale distrettuale di Kharkiv (23 Maggio)) si riferivano a casi di diserzioni avvenuti nel 2015. Durante le fasi dell’attuale grande guerra vi sono state le seguenti sentenze:

– il 19 Aprile il Tribunale di Chuguev ha condannato a 2 anni di carcere un volontario 2 che aveva il grado di “soldato anziano”3 ed era autista di un plotone di ATGM;

-il 3 Maggio il Tribunale distrettuale di Kominternivsky ha inflitto 5 anni di carcere ad una personamobilitata come sergente maggiore del servizio medico. La stessa pena è stata inflitta l’8 Giugno ad un coscritto mobilitato come soldato fuciliere;

-il 24 Luglio il tribunale di Kominternovsky ha condannato un soccorritore militare mobilitato con il grado di sergente minore a 5 anni e un mese di carcere. L’imputato ha dichiarato di essere scappato dal servizio dopo che un militare era morto tra le sue braccia alla fine di Ottobre. Ha avuto un esaurimento nervoso e, mentre era in cura presso l’ospedale psichiatrico regionale di Kharkiv, ha chiesto di tornare a casa per un po’ di tempo. La domanda gli era stata rifiutata;

-il 23 Maggio il tribunale distrettuale di Dergachevsky ha emesso un’insolita sentenza nei confronti di un volontario del Servizio di frontiera statale dell’Ucraina: “[Persona_4]4 essendo un volontario, essendo un ispettore di 3a categoria del Servizio di guardia di frontiera […] la mattina del 24.02.2022, alle ore 05.00 (l’ora esatta non è stata comunicata durante le indagini preliminari), ha ricevuto l’ordine “Base”; egli doveva andare immediatamente nel luogo di servizio […] all’indirizzo: regione di Kharkiv, distretto di Dergachivskyi, villaggio Kozacha Lopan, str. Prykordonna, 4. Tuttavia, [Persona_4], riluttante a svolgere i compiti militari e avendo come obiettivo la fuga in modo illegale – nonostante avesse l’opportunità oggettiva di arrivare tempestivamente alla base […], ha realizzato il suo intento criminale non presentandosi nella struttura militare. L’imputato è stato quindi licenziato e si è nascosto nella sua abitazione a Kharkiv; lì è stato arrestato il 30 Gennaio 2023. Dovrà restare in carcere per 2 anni.

Tre persone che avevano abbandonato la mobilitazione, hanno ricevuto due anni di battaglione disciplinare5. Sono stati condannati: un soldato dal tribunale distrettuale di Kharkiv (22 Giugno); un soldato anziano dal tribunale distrettuale di Novovodolazh (18 Maggio); e un soldato che ha prestato servizio come sergente capo – comandante di mortaio, secondo il verdetto del tribunale distrettuale di Kyivskyi di Kharkiv del 26 Giugno.

Per evitare i casi penali di diserzione o evasione, non ci si deve presentare alla Commissione Medica Militare. Ma molti ci vanno perché sperano che qualcuno si occupi delle loro malattie – o riesca a curarli con successo. L’estate scorsa avevamo scritto che i medici stavano cercando di dichiarare tutti idonei al servizio militare; e la situazione diventava sempre più dura. Le fabbriche di Akhmetov 6 nel Donbass e l’attico nel territorio di Yalta del suo capo di Stato non si libereranno da soli!

La necessità [dei militari] di muoversi nelle strade cittadine – come se partecipassero ad un atto di sabotaggio dietro le linee nemiche -, cercando di catturare e scagliare i cani contro quelli che tentano di fuggire lungo le montagne e i fiumi (come gli schiavi neri delle piantagioni sul Mississippi), non contribuiscono alla propaganda guerresca.

[Nel canale telegram] “Sui mandati di comparizione di Kharkiv”, [le persone] condividevano informazioni per evitare che si incontrassero i mobilitatori nelle strade. Ma è apparso un nuovo canale Telegram, “Pulisci Kharkiv”; tra i commenti dei vari post si possono trovare [varie] rivelazioni sui mobilitatori e sulla guerra. […]7

Un nostro interlocutore [- di cui non riveleremo il nome per questioni di sicurezza e anonimato -], macchinista dei treni della metropolitana di Kharkiv, ci ha detto il 25 Giugno: “Mio fratello stava combattendo vicino a Bakhmut, con la 31ª Brigata d’assalto. La settimana scorsa avevano iniziato l’offensiva; hanno ricevuto una tale batosta che si sono ritirati più di quanto non fossero prima dell’offensiva. Il giorno dopo sono arrivati i colonnelli: [hanno iniziato a] minacciarli. [Nei punti] dove attaccare ci sono cannoni, mortai e aviazione, e [i soldati hanno solo] gli AK. L’altro ieri due battaglioni si sono rifiutati di combattere. Non hanno dato da mangiare ai ragazzi e hanno minacciato di arrestarli. Tre battaglioni hanno deposto le armi perché sono stati mandati al massacro senza supporto. Trenta uomini sono stati uccisi subito durante la battaglia. Hanno messo un nuovo comandante ma non è servito a nulla. Hanno preso a malapena qualche villaggio. Niente carri armati, niente Bradley: li tengono da parte per non turbare l’Occidente. Niente fanteria – hanno dato due fucili da cecchino polacchi e se li sono ripresi. Niente cibo, solo razioni essiccate. Hanno minacciato di metterli in prigione. E loro hanno detto: metteteci in prigione, ma chi coprirà le nostre posizioni? Adesso, in qualche modo, continuano a combattere sul posto, senza emozione. Ecco come stanno le cose. Per i soldi, rimangono [attivi] in dieci.”

Tuttavia, nessuna delle parti, all’epoca, aveva riferito che le Forze Armate avessero preso insediamenti in quella direzione; quindi lasciamo l’affidabilità delle informazioni alla coscienza della fonte.

Der Spiegel, nell’articolo del 16 Giugno, scrive che le Forze Armate Ucraine hanno dei carri armati difettosi; [a causa di questi problemi], non partecipano alla controffensiva nella regione di Azov. I giornalisti hanno parlato con l’equipaggio di un “Leopard”: nessuno di questi incolpa chi si rifiuta di combattere. “Misha sa che anche la sua fortuna potrebbe cambiare. “Se colpiscono la torretta, sei solo un mucchio di cenere”, dice. “È meglio rifiutarsi di andare in battaglia che tirarsi indietro nel bel mezzo di un combattimento”, dice Hudzik.”

Lo stesso interlocutore di prima conferma quanto scritto nell’edizione tedesca. “Sono stati fermi. Gli hanno dato un veicolo da combattimento con un cofano di plastica. Una volta sono andati da qualche parte. Sono rimasti in panne e a malapena l’hanno tirato fuori. Questi veicoli sono fermi lì, nessuno vuole guidarli. Sono una capsula della morte”, ha detto l’altro ieri (5 Agosto, ndt).

E cosa c’è dall’altra parte del fronte? Come ha informato “Assembly” alla fine dell’anno scorso, lo scantinato in cui vi erano centinaia di obiettori di coscienza russi a Zaitsevo (Ilyichovka) – regione nord-occidentale di Luhansk -, è stato smantellato sotto la pressione dell’opinione pubblica – per ritornare attivo poco dopo. ASTRA 8, che aveva riferito di questo scantinatoall’inizio dell’estate, ha trovato un campo clandestino simile a Rasypnoye, a 15 chilometri da quel villaggio, con personale militare che spesso viene trasportato da Zaitsevo a Rasypnoye e viceversa, senza dire i nomi degli insediamenti. Questo avviene anche nella linea Kupyansk-Liman, dove i russi stanno cercando di portare avanti i loro assalti.

Certo, sarebbe stato meglio se questi soldati avessero lasciato prima l’esercito; ma speriamo che restare in queste condizioni di tortura, gli insegni ad odiare il proprio Stato 9:

ASTRA pubblica il primo video di una cantina illegale per soldati russi obiettori di coscienza a Zaitsevo, nell’Oblast’ di Luhansk.

Questo campo di detenzione per i soldati russi che si rifiutavano di combattere, è stato smantellato l’anno scorso dopo le segnalazioni di ASTRA e di altri media. Ma ora lo scantinato è di nuovo in funzione. Questo è il primo video pubblicato dai media e che proviene da questo luogo. Il filmato è stato girato in inverno. L’anno scorso, circa 300 uomini russi mobilitati si erano rifiutati di combattere in Ucraina: sono stati trattenuti nella cantina di Zaitsevo. In quel luogo, gli uomini sono stati minacciati, privati del cibo, definiti “maiali”; inoltre, gli è stato impedito di andare in bagno, lavarsi e ricevere cure mediche. Siamo anche a conoscenza di atti di tortura. Al momento ci sono almeno 5 persone nel campo di Zaitsevo, la cui identità è nota soltanto ad ASTRA.

Il giorno prima, abbiamo pubblicato il primo video proveniente dalla cantina illegale di Rasypnoye. In precedenza ASTRA aveva trovato 15 luoghi dove erano detenuti i soldati russi obiettori di coscienza:

1. Zaitsevo, regione di Luhansk;

2. Zavitne Bazhannya, regione di Donetsk;

3. Dokuchayevsk, regione di Donetsk;

4. Perevalsk, ex colonia 15, oblast’ di Luhansk;

5. Rubizhne, cantina dell’ufficio del comandante, regione di Luhansk;

6. Kreminna, oblast’ di Luhansk;

7. Staromlynivka, regione di Donetsk;

8. Scantinato di Starobelsk, regione di Luhansk;

9. Case abbandonate a Golubovka, regione di Luhansk;

10. Centro a Bryanka, oblast’ di Luhansk (funzionante in estate);

11. Novotroitskoye, regione di Donetsk. Lo scantinato ha funzionato in estate;

12. Colonia estiva Berezka a Makarovo, oblast’ di Luhansk;

13. Amvrosiyivka, regione di Donetsk;

14. Borovoye, regione di Kharkiv;

15. Rasypnoye, distretto di Troitskiy, regione di Luhansk.

ASTRA sta raccogliendo qualsiasi informazione sui responsabili di queste strutture carcerarie militari illegali. […]

Ieri (6 Agosto, ndt), era stata pubblicata la storia del mobilitato Artem S., unità militare 29760, che aveva fatto perdere le tracce il 2 Agosto – giorno in cui era ritornato in servizio dopo una licenza. Quella sera aveva chiamato la moglie, dicendole: “Chiama la polizia il prima possibile. Il comandante ha ordinato a due detenuti di uccidermi”. Non ha avuto il tempo di fornire i dettagli dell’accaduto, ha raccontato la moglie Yevgenya ad ASTRA. Ha aggiunto, inoltre, che Artem e altre persone mobilitate erano state mandate in prima linea insieme ad un’unità dello “Storm Z” – unità composta da prigionieri combattenti. In seguito, la moglie di un commilitone aveva detto a Yevgenya che se non fosse stato ucciso, sarebbe stato a Zaitsevo. Secondo lei, Artem era stato mandato lì presumibilmente per tentata fuga. “Perché è ritornato al fronte dopo la licenza? Per scappare?”, chiede Yevgenya.

La donna si è rivolta all’ufficio del procuratore militare, alla polizia militare e al Comitato investigativo della Federazione russa. “Me l’hanno detto ovunque, che tutto sarebbe stato trasmesso all’ufficio del comandante militare. Non ho ricevuto alcuna risposta da lì. L’ufficio del procuratore mi ha detto che sarebbe stato comunicato tutto da Valuiki. Ma nessuno mi ha contattata da lì”, racconta Yevgeniya.

Un’altra risorsa dell’opposizione, “People of Baikal”, ha scritto il 25 Luglio che un residente di nome Alexander, mobilitato di Irkutsk, aveva prestato servizio nell’unità “Storm” della 90ª Divisione carri armati. Agli inizi di Marzo 2023, [Alexander], insieme a tre commilitoni, aveva lasciato la propria posizione e si era recato ad Aleksandrovsk. Lì avevano affittato un appartamento e bevevano alcolici. Sono stati arrestati e, immediatamente, inviati all’ufficio del comandante della “LNR”. Successivamente Alexander è stato trovato morto vicino a Chervonopopovka (sempre sul confine tra Luhansk e Kharkiv) con tracce di corda intorno al collo. “Mi sono reso conto che questa non è la guerra che avevo immaginato. Questo è uno sterminio. Siamo stati preparati come esche da lanciare. Lasciate che mi mettano in prigione, non morirò per questo”. Queste erano le parole di Alexander prima della sua morte; suo fratello Sergei le ha riportate pubblicamente. Attualmente Sergej sta cercando di chiarire, insieme alla Procura militare e al Comitato investigativo,le circostante della morte del fratello

Tutto questo appare singolarmente meraviglioso in uno sfondo dove le persone, sia di qui che di là, per 30 anni, hanno maledetto il regime stalinista e i commissari del popolo – colpevoli di mandare gli individui massacro. Ora si scopre, da ambo i lati, che in realtà si trattava di misure del tutto normali. La guerra è pace, la schiavitù della caserma è libertà -, e così via dicendo, secondo Orwell.

Nel frattempo, le date della controffensiva sono pressanti: Agosto, Settembre, e poi di nuovo freddo, fango e difesa ad oltranza della posizione. A giudicare dal forte inasprimento delle leggi russe sulla coscrizione arriverà una nuova grande mobilitazione.

Ahimè, Prigozhin e il suo cosplay della marcia di Kornilov su Pietrogrado – avvenuta senza un motivo chiaro ed evidente -, potrebbe aver spaventato ulteriormente la popolazione russa – con la minaccia di disordini e caos. Dopo una tale falsa partenza, è più probabile che le masse non si muovano contro il Cremlino – nemmeno in caso di una pesante sconfitta militare o di un collasso economico.

E se così fosse, l’unica cosa che resta a tutti è uscire fuori da questo manicomio – specie se per questi “tutti” la differenza tra Z e Ze non è così grande da valere o la morte o il diventare uno storpio di cui nessuno ha bisogno. La stessa cosa possono fare gli uomini a Kharkiv – [stracciando] il foglio della convocazione. Lasciate che i commissari militari si combattano tra loro.

Obiettori, disertori ed evasori di entrambi i Paesi, unitevi nella lotta per fermare questo massacro!

Note del Gruppo Anarchico Galatea

1Articolo 336. “Evitare la mobilitazione”. La sottrazione alla mobilitazione, è punibile con la reclusione da due a cinque anni.” L’articolo lo citiamo nel nostro scritto “Tra saccheggiatori e disertori: il volto feroce dello Stato democratico Ucraino”, 30 Marzo 2022; in esso denunciamo la repressione e l’autoritarismo dello Stato ucraino nelle prime fasi guerreggianti. Link: https://gruppoanarchicogalatea.noblogs.org/post/2022/03/30/tra-saccheggiatori-e-disertori-il-volto-feroce-dello-stato-democratico-ucraino/

2Originale: “контрактнику”. La traduzione corretta sarebbe “militare a contratto”. Secondo la giurisdizione ucraina, il “militare a contratto”, a differenza del coscritto e del mobilitato, è un individuo che si arruola volontariamente nell’esercito ed è pronto a partecipare alle ostilità. Per una questione di maggiore comprensibilità, abbiamo deciso di tradurlo come “volontario”.

3Un tempo questo grado era noto come “caporale”; oggi giorno il grado di “soldato anziano” viene usato nelle Forze Armate dell’Azerbaigian e nelle Forze Armate dell’Ucraina. È superiore al grado di soldato ordinario e inferiore al sergente minore.

4Nell’originale: “особа_4”. I nomi e cognomi, negli atti giudiziari messi online, vengono omessi con il termine di “persona”. Questo avviene per mantenere la riservatezza e la sicurezza sia degli imputati che dei giudici.

 5Originale: “Дисциплинарный батальон”. Il “Battaglione Disciplinare”, conosciuto comunemente come “disbat” (дисбат), è composto da membri dell’esercito condannati dalla giustizia militare.

6È un imprenditore ucraino, dirigente sportivo e magnate ucraino, presidente della System Capital Management, una delle imprese industriali leader nella finanza ucraina, dell’acciaieria Azovstal e della società di calcio Šachtar Donec’k.

7Per una questione di spazio e di mancata reperibilità delle fonti originarie (il canale telegram citato nel post), abbiamo deciso di non tradurre questa parte.

8È una pubblicazione gestita da giornalisti russi indipendenti che sono stati censurati o perseguitati dalle autorità della Federazione Russa.

9Nota politica: dalle fonti da cui attingiamo – Doxa e Resistenza Antimilitarista Femminista in primis -, l’obiezione di coscienza in Russia è attualmente osteggiata con vari cavilli e leggi ad hoc, specialmente quando viene notificata la convocazione militare. Vedasi l’articolo “La Duma di Stato ha adottato degli emendamenti per la notifica via elettronica delle convocazioni [militari]”. La società russa, al momento, sta vivendo una forte crisi economica e viene imbevuta quotidianamente da una retorica guerresca e patriottica martellante. Le forme di resistenza come quella degli obiettori di coscienza al fronte o la fuga all’estero delle persone mobilitate, sono atti che rompono lo stato di cose creato dal regime putiniano. Per una panoramica sulla situazione russa, rimandiamo ai seguenti articoli: Accettare l’inevitabile ; Potevamo, ripetevamo: come la guerra è diventata l’idea nazionale della Russia (diviso in due parti); Alle radici della resistenza russa

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Controlli nella fortezza Europa

dalla pagina facebook di No Borders Team

In Germania riaffiorano le proposte per ripristinare i controlli ai confini con la Polonia e la Repubblica Ceca. Questa è la richiesta dei sindacati di polizia e dei politici del partito CDU, l’Unione Cristiano Democratica.

Il Ministero degli Interni tedesco, per il momento, non ha accolto questa richiesta.

Il controllo delle frontiere nell’area Schengen dovrebbe essere una misura di ultima istanza. Così lo descrivono i regolamenti della Commissione europea:

Il codice frontiere Schengen offre agli Stati membri la capacità di ripristinare temporaneamente il controllo di frontiera alle frontiere interne in caso di grave minaccia dell’ordine pubblico o della sicurezza interna. Il ripristino del controllo di frontiera alle frontiere interne deve essere applicato come misura di ultima istanza, in situazioni eccezionali, e deve rispettare il principio di proporzionalità. La durata di tale ripristino temporaneo del controllo di frontiera alle frontiere interne è limitata nel tempo, a seconda della base giuridica invocata dallo Stato membro che introduce tale controllo di frontiera.

Lo stesso documento specifica la durata massima dei controlli di frontiera (sei mesi).

Nella maggior parte dei casi, questi controlli di frontiera vengono attivati per circa due settimane o un mese a causa di attentati [terroristici] o in occasione di grandi eventi internazionali come gare sportive, vertici sul clima, del G7 o del G20 e/o premi Nobel.

Tuttavia, questa situazione può essere prolungata di volta in volta, anche dopo sei mesi.

E così, dal 2015, la Germania ha esteso fino ad oggi (9 Agosto, ndt) i controlli alle frontiere con l’Austria – a causa del “grande afflusso di persone che cercano protezione internazionale”.

Inoltre, il 2015 è stato l’anno del ripristino dei controlli alle frontiere in Austria (con l’Italia, l’Ungheria, la Slovacchia e la Slovenia), Slovenia (con l’Ungheria), Svezia e Danimarca (verso chiunque arrivasse), Belgio e Malta.

Tutti questi controlli [avvengono] per lo stesso motivo: la presenza di persone in movimento che fuggono dalla guerra e dalla povertà e vogliono salvarsi la vita.

Attualmente i controlli alle frontiere vengono effettuati:

▪️nei porti norvegesi che fanno da collegamento via traghetto con i paesi dell’area Schengen (a causa della minaccia alle infrastrutture critiche terrestri e marittime e al pericolo dell’intelligence russa);

▪️in Danimarca, presso il confine terrestre e marittimo con la Germania. Dal 3 al 10 Agosto i controlli sono stati estesi a causa della “minaccia del terrorismo islamico, della criminalità organizzata, del contrabbando, dell’invasione russa dell’Ucraina, della migrazione illegale lungo la rotta del Mediterraneo centrale” (il periodo dei controlli è aumentato fino al 17 Agosto. Fonte, ndt);

▪️nella già menzionata Germania, precisamente al confine con l’Austria, per via dell’ “aumento dell’immigrazione clandestina proveniente dalla Turchia e che attraversa i Balcani occidentali, la pressione sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo e il contrabbando di esseri umani”;

▪️nei confini svedesi a causa della minaccia del terrorismo islamico;

▪️in Austria, presso il confine terrestre con l’Ungheria e la Slovenia. Motivo: “Pressione sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, forte pressione migratoria al confine esterno dell’UE con la Turchia e i Balcani occidentali, minaccia del traffico di armi e delle reti criminali a causa della guerra in Ucraina, contrabbando di esseri umani”.

▪️in Francia, presso i confini con Belgio, Lussemburgo, Germania, Svizzera, Italia e Spagna, a causa “delle nuove minacce terroristiche, il rischio crescente delle organizzazioni terroristiche sul territorio nazionale – che hanno come obiettivo la Coppa del Mondo di rugby che si svolgerà a Settembre e Ottobre 2023 -, l’aumento dei flussi irregolari alle frontiere esterne (dal Mediterraneo centrale e dalla costa occidentale dei Balcani occidentali).”

Come si vede, quindi, nella maggior parte dei Paesi almeno una delle tante ragioni per introdurre i controlli alle frontiere è la questione dei movimenti migratori. Per la stessa ragione i funzionari di polizia tedeschi e alcuni politici stanno insistendo su questo punto. Le persone che attraversano la rotta orientale – il confine tra Polonia e Bielorussia -, molto spesso prendono come destinazione lo Stato tedesco o, per lo meno, [viene visto da loro come] un Paese di transito, una tappa per andare più lontani.

Alcune persone migranti e rifugiate decidono di allontanarsi dalla Polonia – verso l’Europa occidentale -, solo dopo che si sono scontrate con la burocrazia polacca, l’inferno dei campi di detenzione e la mancanza di supporto sistemico.

Sulla base dei regolamenti di Dublino, queste persone vengono spesso sottoposte a misure di deportazione: una volta istituiti i controlli, avranno meno possibilità di raccontare la loro storia e di mettere insieme le loro vite. E sempre a causa di questi controlli, [le persone migranti e rifugiate] verranno semplicemente respinte o riportate nel Paese da cui provengono. Senza poter richiedere nulla. È una situazione molto comune al confine tra Spagna e Francia: chi vuole raggiungere il territorio francese, cerca ripetutamente di attraversare il confine via terra – per non rischiare di annegare nell’insidioso fiume Bidasoa.

Il controllo delle frontiere non riguarda ogni persona che attraversa il confine – tranne se si tratta di una persona non bianca.

Il profing razziale e i controlli dei documenti alle frontiere interne di Schengen stanno dando buoni risultati. Secondo un attivista di un’organizzazione di sostegno ai migranti della città di Irun (al confine tra Spagna e Francia), “Qui non ci sono confini se non sei nero o arabo.”

Sentiamo parlare di profiling anche in Svezia, Danimarca e praticamente ovunque.

Sono identificati gli studenti che attraversano le frontiere per andare a scuola ogni giorno o persone che vanno a lavorare. E, naturalmente, chi cerca di entrare in un Paese per chiedere asilo o un’altra forma di protezione, per unirsi ad una famiglia e/o iniziare una vita diversa.

Niente frontiere? Dignità umana? Solo se si è cittadini dell’Unione Europea.

Cosa sono questi valori e queste idee se si applicano solo ad un ristretto gruppo di persone?

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Panorama: Jujuy, litio ed estrattivismo da nord a sud

Originale: “Panorama: Jujuy, litio y extractivismo de norte a sur”. Tradotto da Federica e Ana per il Gruppo Anarchico Galatea

[La frase] “Più estrattivismo, meno democrazia” riassume la sensazione dei territori scossi dal modello minerario, petrolifero, forestale e agroalimentare. Proprio come Jujuy è esplosa con mobilitazioni e repressione, altre città vengono quotidianamente violate, e i gruppi progressisti — e settori dei diritti umani — guardano dall’altra parte. L’estrattivismo non cessa e viene imposto con la violenza.

Repressione per estrarre il litio dai territori del popolo Kolla e Atacama. Violenze per sfruttare Vaca Muerta in territorio mapuche. Processo per sgomberare e fumigare con pesticidi tossici, famiglie contadine e popolazioni invase dall’agrobusiness.

È il DNA dell’estrattivismo: repressione, violazione dei diritti, contaminazione, mancanza di vera democrazia.

Gli atti violenti del governo di Jujuy sono un altro capitolo di come l’estrattivismo venga imposto alle comunità indigene e ai contadini (anche se non solo in questi luoghi). Il potere economico e politico — insieme ai suoi alleati giudiziari e mediatici — cerca di impossessarsi dei territori indigeni per consegnarli alle compagnie minerarie, petrolifere, forestali e agroalimentari.

Per cercare di conservare i voti e il dominio sugli apparati statali, il peronismo al potere sostiene che gli eventi di Jujuy siano una prova tecnica di quello che sarà un prossimo governo di “Juntos por el cambio” (o con Larreta o con Bullrich). Dai territori sottoposti all’estrattivismo, e dalle città che subiscono quotidianamente la repressione, si può capire che Jujuy sia un tassello in più di quanto —con diversa intensità— sta già accadendo nei territori, sia con governi peronisti che radicali.

Un reclamo antico a chi fa sempre orecchie da mercante

Da più di dieci anni le comunità del popolo Kolla e Atacama denunciano (anche con udienza alla Corte Suprema) la violazione dei diritti di estrazione del litio a Jujuy e Salta.

Le sofferenze indigene e le loro rivendicazioni sono antiche quanto la storia del continente. Il passato di Jujuy è ricco di lotte indigene. Un evento importante, non il primo, avvenne nel 1946, durante il primo governo peronista, quando un centinaio di indigeni marciarono da Jujuy fino a Plaza de Mayo per rivendicare i propri territori. L’evento senza precedenti è passato alla storia come il “Malón de la Paz”. Furono quasi due mesi di cammino per gridare a Buenos Aires un’obbligazione taciuta: le terre degli indigeni. Non hanno mai avuto risposta.

Sessant’anni dopo, un’altra marcia, contro un altro peronismo (Cristina Fernández de Kirchner come presidente della Nazione ed Eduardo Fellner per la Provincia), ma con la stessa pretesa: 120 comunità realizzarono il “Secondo Malón de la Paz”. Camminarono per rivendicare le loro terre dai diversi dipartimenti della provincia fino a Purmamarca.

La stessa città dove si sono incontrati lo scorso sabato 17 (Giugno, ndt) e hanno subito quattro repressioni in un giorno. La stessa provincia che ha già battezzato questa lotta indigena come il “Terzo Malón de la Paz”. Dove la bandiera della lotta era “abbasso la riforma, viva la Whipala”.

Per i paladini della “sicurezza legale” è necessario ricordare che i popoli indigeni hanno un’abbondante legislazione che tutela i loro diritti e che obbliga gli Stati (nazionali, provinciali e municipali) a consultare e ottenere il consenso delle comunità colpite. Questo diritto fondamentale, che non è rispettato in Argentina, è scritto nelle leggi provinciali, nella Costituzione nazionale e nei trattati internazionali dei diritti umani – a cui il paese ha aderito.

Jujuy era Neuquén

La repressione è durata più di cinque ore. Nelle strade: insegnanti, indigeni, studenti, lavoratori. Dall’altra parte, poliziotti che sparavano a distanza ravvicinata. Repressione infinita. È quello che è successo a Jujuy nel 2023? No. Era Neuquén nel 2013. Quando la Legislatura provinciale si stava preparando, in totale sintonia con il governo nazionale, a votare una legge a scatola chiusa per consentire a Chevron e YPF di avviare il fracking a Vaca Muerta.

Il progressismo di Kirchner e i suoi media alleati non hanno alzato la voce. Al contrario, hanno giustificato la repressione.

Nel Maggio 2013 c’è stata anche la repressione a Famatina (La Rioja). Il governo di Luis Beder Herrera ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro i membri dell’assemblea che rifiutavano la mega-mineria. Una dozzina di detenuti e sette ricoverati.

Andalgalá ha accumulato una mezza dozzina di feroci repressioni da quando è arrivata la mega-mineria. Nell’Aprile 2021, tramite la Magistratura, è scattata in città una caccia all’uomo. Hanno sfondato porte, picchiato uomini e donne e arrestato senza motivo dodici membri dell’assemblea che rifiutavano attivamente l’estrattivismo e, allo stesso tempo, combattevano per proteggere le fonti d’acqua di Catamarca, provincia governata per dodici anni dal peronismo.

Nel Dicembre 2021, a Chubut, la polizia di Mariano Arcioni (alleato di Sergio Massa) ha represso per ore la manifestazione nota come “chubutazo”, che ha respinto il governatore e fermato ancora una volta la mega-mineria.

Né a Catamarca né a Chubut era presente il Segretario per i Diritti Umani, Horacio Pietragalla Corti (che era a Jujuy). Anche il ministro dell’Ambiente, Juan Cabandié, che in passato agitava la bandiera dei diritti umani, non è apparso nei luoghi dove l’estrattivismo viola i diritti. La preoccupazione maggiore di Cabandié, in un paese attraversato dall’estrattivismo, è il riciclo della plastica e la visita ai meeting internazionali.

Ma non si tratta solo dei funzionari. Il “progressismo” urbano (non solo di Buenos Aires) sceglie quale sia o meno la repressione per cui indignarsi. Sono indignati con Jujuy e guardano dall’altra parte in Catamarca, Chubut, Chaco, La Rioja e molte altre province feudali.

Feudi, democrazie e dittature

La ricerca del potere senza limiti di Gerardo Morales e il disprezzo verso le comunità indigene non sono le uniche caratteristiche del radicalismo di Jujuy. Formosa, provincia governata da Gildo Insfrán, è un emblema del potere feudale e della sottomissione dei settori popolari, in generale, e delle popolazioni indigene, in particolare. Ma, per i media ufficiali e i giornalisti, Insfrán non merita critiche.

Il litio, minerale essenziale per la falsa transizione energetica, è uno dei fattori alla base della riforma costituzionale di Jujuy e pregiato bottino per ottenere dollari.

C’è il litio anche in Catamarca. Vi opera la prima mega impresa mineraria (la multinazionale FMC Corporation, con il nome di Minera del Altiplano) che sfrutta quel minerale e quei “salar”. E, da decenni, le popolazioni indigene hanno già sofferto questo estrattivismo. La comunità di “Atacameños del Altiplano” denuncia da anni le azioni delle compagnie minerarie e dei governi locali. Ci sono prove convincenti del suo impatto ambientale: hanno prosciugato il fiume Trapiche. E ora avanzano lungo il fiume Los Patos. “Chi si prenderà la responsabilità del saccheggio, della contaminazione, dell’acqua che usano? Conosciamo le industrie minerarie da tre decenni. Per questo diciamo no all’estrazione del litio”, osserva il capo della comunità indigena Atacameños del Altiplano, Román Guitián.

Non sono gli unici colpiti. La popolazione di Fiambalá, dedita al turismo e all’agricoltura, soffre per l’avanzata del litio della multinazionale cinese Zijing Mining, incoraggiata dal governatore Raúl Jalil e dal presidente Alberto Fernández.

“Dittatura mineraria” è il termine coniato in Catamarca e San Juan per le azioni repressive quotidiane causate dal modello estrattivo, dove i governi sono i migliori lobbisti e guardiani delle compagnie.

È incomprensibile come i settori sociali, che si dicono lontani dalla destra e hanno marciato il 24 Marzo, insistano nello sviluppare ulteriormente l’estrattivismo. Un chiaro esempio è Juan Grabois, che alcuni indicano come la persona più a sinistra del Kirchnerismo. Grabois promuove ripetutamente lo sfruttamento del litio [e richiede] una maggiore partecipazione dello Stato (in linea con le dichiarazioni di Cristina Fernández de Kirchner del 25 Maggio in Plaza de Mayo). Hanno risposto [a costoro] l’organizzazione socio-ambientale Pueblos Catamarqueños en Resistencia y Autodeterminación (Pucará): “Parlano di diritti umani ma reprimono dietro le quinte. Parlano di lottare per i poveri ma vanno a braccetto con i ricchi. Parlano di sovranità ma distruggono le nazioni indigene. Per fortuna, contro tutti coloro che sostengono questo saccheggio, c’è chi resiste nei territori.

Jujuy non è, come sostiene il peronismo, un banco di prova per il futuro. Il futuro è arrivato da tempo: governi e aziende che sfruttano la natura. E le popolazioni indigene che proteggono i loro territori e la loro vita.

 

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Riforma, repressione e litio: le imprese private vanno all’arrembaggio e lo Stato non le ferma

Originale “Reforma, represión y litio: Las empresas privadas van por todo y el Estado no limita”. Tradotto da Caterina per il Gruppo Anarchico Galatea

 

Il 15 Giugno scorso, il governatore Gerardo Morales ha approvato, alle spalle della gente del Jujuy e con il sostegno dei “constituyentes radicales” e del Partido Justicialista locale, una contestata riforma della Costituzione provinciale. Gli intenti di stabilire delle “regole del gioco” favorevoli agli interessi dell’industria estrattiva – a costo di condannare le comunità indigene ad una situazione di estrema precarietà -, spiega perché si siano voluti ignorare le necessarie consultazioni preliminari, libere e informate con le popolazioni, fondate sul riconoscimento dei loro diritti come, per esempio la pre-esistenza etnica e culturale.

L’approvazione della riforma costituzionale è avvenuta quando i docenti di Jujuy si erano già mobilitati da quindici giorni. Essi esigevano migliori condizioni di lavoro, ripetendo lo slogan “alza i salari, abbasso la riforma” e dichiarandosi solidali con le rivendicazioni delle comunità indigene. I punti del conflitto che hanno scatenato le proteste popolari comprendono il divieto di manifestazione pubblica, la gestione delle risorse naturali e del territorio, i diritti e le garanzie delle comunità indigene. In particolare, con la riforma della Costituzione di Juyuy, il governatore Morales propone di tracciare un cammino giuridico-normativo nello sfruttamento e nel controllo del litio, la risorsa più importante della provincia e uno dei principali “minerali critici” al centro del confronto geopolitico scatenato dalla transizione energetica globale. Qual è l’obiettivo? Che interessi rappresenta e chi trae beneficio dalla riforma?

Il litio nella transizione energetica globale

Sulla base delle attuali conoscenze e tecnologie, il litio fa parte di quei minerali cruciali per la transizione energetica globale [- ovvero il passaggio] dagli idrocarburi alle energie rinnovabili e pulite. Gli organismi di governance globale e alcuni dei guru delle corporazioni energetiche e minerarie presentano questa congiuntura come una grande opportunità di “ringiovanimento” del capitalismo anemico – completamente finanziarizzato. Nel bel mezzo della disputa per l’egemonia, [questi apparati] cercano di trasformare la crisi climatica in un’opportunità per nuovi affari.

In tale contesto diventa ipersensibile il cosiddetto “triangolo del litio”: nella regione di Atacama, secondo lo US Geological Survey (2021), si concentra il 58% delle riserve mondiali di litio. [Questo] territorio comprende il nord del Chile, il sud-ovest del Potosì boliviano e la puna del nord-est dell’Argentina.

Per misurare l’importanza di ciò che è in gioco, diciamo che nel mese di Maggio, il litio ha rappresentato il 19% delle esportazioni minerarie nazionali e nei primi cinque mesi dell’anno ha raggiunto i 369 milioni di dollari – cifra che rappresenta l’84% delle esportazioni su base annuale (El Cronista, 17/06/23).

Secondo il rapporto “Exploración Minera en Argentina” (Giugno 2023, Ministero dell’Economia), tra gli investimenti effettivi totali argentini del 2020, spicca la preponderanza del litio, rappresentante il 45%, con un investimento di 98,63 milioni di dollari. Segue l’oro con 74,51 milioni di dollari e, al terzo posto, il rame con 28,4 milioni di dollari.

In tutto questo i Paesi vicini hanno fatto dei passi in avanti, dichiarando il minerale “risorsa strategica” e definendo dei quadri normativi e istituzionali affinché i relativi Stati nazionali dispongano della risorsa. L’Argentina, [invece], non ha raggiunto gli accordi minimi per integrare il litio come [risorsa] strategica nazionale – ovvero stabilire delle norme e leggi che non siano scandalosamente favorevoli alle imprese estrattive (in grande maggioranza straniere) e, allo stesso tempo, consentano alle istituzioni pubbliche e alle imprese locali lo sfruttamento e l’utilizzo del minerale.

La posizione reazionaria della riforma costituzionale di Morales (che enfatizza un livello di autonomia provinciale con caratteristiche separatiste) contro il governo centrale, è tipica delle operazioni corporative della destra conservatrice locale – la quale cerca di minare le possibili progettualità nazionali nei settori strategici.

Morales si propone di perpetuare lo status quo, esposto in modo chiarissimo [nel testoAll-shoring (delocalizzazione delle società, ndt) della filiera del litio nelle Americhe: Un modello strategico per la politica statunitense sui minerali critici”.] Rapporto delle analisi politiche redatto dall’Ufficio delle Risorse Energetiche (ERB) del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti” (05/2022).

Il documento stabilisce “un modello strategico per la politica degli Stati Uniti sui minerali critici” e presenta uno studio sulle “catene di fornitura del litio nel continente americano”.

L’autore, T. Andrew Sady-Kennedy, ricercatore della Kennedy School di Harvard, sostiene: “Tra i Paesi latinoamericani che possiedono le riserve di litio, l’Argentina opera in maniera più aperta sugli investimenti mercatali del settore privato. Il governo federale non ha imposto regolazione alcuna sugli investimenti stranieri del settore del litio e permette che sia il mercato a dettare lo sviluppo dell’industria.” (pag. 17) Il rapporto aggiunge: “La maggior parte dei progetti sul litio in Argentina hanno evitato di aggiungere valore alla catena di fornitura sotto forma di idrossido di litio.” (pag. 19)

Vale a dire, visto da una prospettiva nazionale, il peggiore degli scenari.

Nel contesto dell’incontro dei CEO organizzato da IDEA e dalla Camera Argentina degli Imprenditori Minerari (CAEM), Morales ha sostenuto: “Non condivido la questione del triangolo del litio, né che adottiamo le stesse politiche della Bolivia e del Cile”. E ha aggiunto: “Il Cile si sta tirando indietro. È una buona notizia perché così [avremo] maggiori investimenti in Argentina. I boliviani anche. L’Argentina ha il litio e un’industria automobilistica: potrebbe controllare la metà del business, equivalente a 35 miliardi di dollari l’anno” (EconoJournal, 23/05/23).

In contrasto alla pratica discorsiva ricorrente degli ultimi anni – ovvero nel mettere in relazione le risorse naturali con lo sventolamento di milioni di dollari astratti -, Cristina Fernández de Kirchner, alla cerimonia del 25 Maggio, rispondeva così a questo tipo di immaginario: “Possediamo risorse strategiche straordinarie […]. Dobbiamo mantenere uno sguardo strategico. Che vengano a estrarlo. Ma fratello…vogliamo, per lo meno, che una parte della batteria o tutta la batteria la fabbricate qui… se la porti via tutta! E quando sento alcuni dirigenti […] tutti contenti perché in Bolivia e in Cile hanno approvato delle leggi di controllo sul litio. Tutti contenti perché dicono: “Ah bene, visto che lì fanno tante richieste verranno tutti qui.” Ma che vocazione è essere una colonia, fratello. Che vocazione è essere il Potosí (avere una ricchezza straordinaria e, al tempo stesso, essere colonizzata. Per info maggiori vedere qui, ndt). Mettiti in testa di essere la Malesia, la Corea, ma non di nuovo il Potosí, per favore” (vedi qui).

Nel corso dello stesso evento di IDEA e CAEM, i governatori delle province del litio, Jujuy, Catamarca e Salta, si sono opposti alla creazione di una “OPEP del litio” – in quanto, a livello strategico, si potrebbe rinforzare una posizione regionale condivisa dai tre Paesi nei confronti del potere corporativo.

In sostanza: senza modificare l’articolo 124 della Costituzione del 1994 –“corrisponde alle province il controllo originale delle risorse naturali presenti sul territorio”-, c’è un enorme spazio nel far convergere gli interessi delle amministrazioni provinciali e lo Stato nazionale e, soprattutto, pensare a come ottimizzare i benefici provinciali e nazionali sulla base delle politiche dei settori strategici – come la catena del valore del litio.

Concentrazione economica: chi controlla la risorsa?

Attualmente esistono più o meno 38 progetti avanzati di estrazione del litio in Argentina, ma solo due sono operativi: uno nella provincia di Jujuy e un altro a Catamarca. Il “Salar de Olaroz”, a Jujuy, viene sfruttato da Allkem (ex Orocobre, Australia), Toyota (Giappone) e JEMSE, la società statale di Jujuy – presente con una partecipazione dell’8,5%. A Catamarca, il progetto “Fénix” del “Salar del Hombre Muerto” viene sfruttato da Livent (USA).

In tutto questo, lo scorso Maggio, le imprese Allkem e Livent hanno annunciato la fusione. Paul Graves, presidente e direttore esecutivo di Livent, ha dichiarato di “giocare un ruolo ancora più importante nell’accelerazione delle politiche di de-carbonizzazione”. E ha concluso: “Come società combinata, avremo una miglior distribuzione, gamma di prodotti, copertura geografica e capacità di esecuzione per soddisfare l’alta domanda dei nostri clienti sui prodotti chimici a base di litio.” (EconoJournal, 10/05/23).

Su questa nuova azienda nata dalla fusione – e valutata 10,6 miliardi di dollari -, non dovrebbe esistere una posizione chiara della provincia, negoziata con -e approvata da- lo Stato nazionale? A questo si riferisce la nozione di “risorsa strategica” o “bene comune strategico”.

Il litio rappresenta un caso paradigmatico del processo di concentrazione economica, controllo dei territori e appropriazione delle risorse comuni. Processo che, unito alla tendenza della valorizzazione finanziaria, al predominio straniero e al ritorno del FMI, pone lo Stato nazionale in una posizione di estrema debolezza nei confronti delle grandi imprese – alleate dei governi centrali e degli organismi di governance globale.

A mo’ di esempio: l’impresa Livent ha raccomandato al Tesoro degli Stati Uniti di includere il litio argentino nella Legge di Riduzione dell’Inflazione (IRA in inglese, ndt) in modo da ottenere un accesso diversificato del minerale cruciale – dato che “il carbonato e il cloridrato di litio che Livent produce dall’Argentina viene estratto grazie agli investimenti dei capitali statunitensi” (El Cronista, 22/06/23).

Tale scenario è in linea con il tweet minaccioso di Elon Musk verso il popolo boliviano (25 Luglio 2020): “Faremo un golpe a chi vorremo! Rassegnatevi”.

Da parte sua la responsabile del Comando Sur degli USA, Laura Richardson, ha dichiarato a Luglio 2022 – e rifacendosi al principio di “sicurezza nazionale” del suo Paese -, che è necessario “proteggere” le risorse strategiche della regione, minacciate dalla Cina o dalla Russia. Inoltre, in un’intervista rilasciata all’Atlantic Council (2023) del 19 Gennaio scorso, ha sostenuto: “Ho avuto un incontro via zoom con l’ambasciatore statunitense, gli ambasciatori di Argentina e Cile, il responsabile della strategia aziendale di Levant e il vicepresidente delle operazioni globali di Albemarle per parlare del [triangolo del] litio. [Di fronte all’influenza della Repubblica Popolare Cinese nella regione, stiamo riunendo questi gruppi in modo da fare leva su ciò che sta realmente accadendo sul campo] e su come e chi possiamo aiutare e portare al tavolo [delle trattative] per risolvere questo problema, mettendo fuori gioco i nostri avversari e i nostri concorrenti e facendo squadra tra di noi e con altri.

Sgomberi, terre demaniali, acqua

La riforma costituzionale approvata alle spalle della gente di Jujuy è funzionale alla consolidazione di tale contesto. In una breve analisi, che non pretende di essere esaustiva, si può osservare che l’articolo 36, “Diritto alla proprietà privata”, stabilisce che sarà considerata “grave violazione al diritto di proprietà l’occupazione non consentita da parte di una o più persone che impedisca al titolare della proprietà di esercitare i diritti sanciti dalla Costituzione e dalla legge”. E aggiunge: “Una legge speciale determinerà le modalità per lo sgombero”.

L’articolo 50, “Diritti e garanzie delle comunità dei popoli indigeni”, è il più controverso perché parla del “diritto alla partecipazione e alla consultazione preventiva e informata delle comunità originarie”. Ma le comunità sostengono che qualsiasi situazione è garantita dalla Costituzione provinciale pre-riforma; in questo articolo 50, invece, tutto è subordinato e il governo [decide] cosa merita di essere consultato. Lo stesso articolo sostiene inoltre che “lo Stato è incaricato di riconoscere la personalità giuridica delle comunità”, nonché “il possesso e la proprietà comunitaria delle terre che tradizionalmente occupano.”

L’articolo 74, che si riferisce alle terre demaniali, definisce la terra come bene di lavoro e di produzione – vale a dire: utilizzata per fini esclusivamente produttivi. La norma prosegue in questo senso: la legge regolerà l’amministrazione, la disposizione e la destinazione delle terre demaniali”. Ma esistono molte comunità che oggigiorno vivono in terre demaniali – il cui possesso è messo in discussione e rischiano lo sfratto.

Infine, la riforma stabilisce un regolamento sull’acqua, così come dispone sulla pace sociale e sul “divieto dei blocchi stradali e viari.”

In sintesi: una volta stabilite le condizione per sgomberare facilmente le comunità che risiedono in quei territori dove sono presenti il litio e altri minerali – come le terre rare (che non tratteremo in questo articolo) –, il resto dell’infrastruttura legale da noi esaminata favorisce scandalosamente il settore corporativo.

Questo scenario va in direzione opposta a quella concezione di transizione energetica presentata come vettore di sviluppo sostenibile in senso ambientale e sociale, guidata da uno Stato intelligente e orientata alla moltiplicazione dell’associazionismo pubblico-privato con le imprese nazionali.

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La Megaminiera ha dimostrato il fallimento in tutta l’Argentina

Originale: “La megaminería ha demostrado el fracaso en toda la Argentina”. Tradotto da Fabio per il Gruppo Anarchico Galatea

Andalgala è il caso esemplare delle megaminiera in Argentina. La “Minera Alumbrer”era stata costruita, in pieno menemismo (riferito a Carlos Saul Menem, ex presidente dell’Argentina, ndt). È stata sfruttata per più di 25 anni, senza mai mantenere le promesse di lavoro, sviluppo locale e cura dell’ambiente. Andalgalà è anche un epicentro della resistenza: da più di 20 anni si mobilitano contro l’estrattivismo. Sono ormai 696 manifestazioni (ogni sabato) che vengono effettuate in difesa dell’acqua e della vita. E sono in allerta per l’arrivo della multinazionale “Pan American Silver” (PAS) che vuole ingrandire il dubbioso progetto MARA (Minera Agua Rica-Alumbrera), a soli 17 chilometri della città – dove nascono i corsi fluviali che portano acqua alla regione.

Il cartello è enorme, bianco, con lettere nere e situato in un luogo strategico, all’angolo della plaza “9 de Julio”, in pieno centro di Andalgala: “A difesa dell’acqua e della vita. Andalgala libera dalla megaminiera.” E sotto ad una bandiera dell’Argentina, un’altra frase: “Più mortale del Covid-19 è la corruzione dei governi e delle miniere”. Ciò riassume il clima che si respira in città, la seconda in quanto a popolazione (dopo il capoluogo di provincia). Il messaggio riporta il sentimento di buona parte della popolazione che, dall’inizio dell’attività estrattiva, ha subito una decina di repressioni, processi e la modifica radicale del suo stile di vita tradizionale.

In questo contesto si è saputo che la multinazionale canadese “Pan American Silver” (la più grande impresa di argento del mondo) ha acquisito la società mineraria “Yamana Gold”, principale azionista del progetto MARA. Il comunicato aziendale informa: “Si è completata l’acquisizione della “Yamana Gold”. Ci si aspetta un aumento significativo nella produzione di argento e oro e migliori margini operativi”. Il progetto MARA (prima chiamato solo Agua Rica) era nelle mani del consorzio di “Yamana Gold”, “Glencore e Newmon”. L’incorporazione da parte della PAS proverà a darle una spinta.

Sergio Martinez, della “Asamblea El Algarrobo” – storico spazio di lotta per la difesa dell’acqua- ricorda che il progetto minerario MARA è “illegale” perché si trova in una zona protetta dalla Ley Nacional de Glaciares (n. 26.639) e specifica la validità dell’ordinanza 029 che protegge i fiumi di Andalgala. “Abbiamo sempre detto a queste imprese, che fossero PAS o Yamana, che non permetteremo lo sfruttamento di questi progetti in quanto violano i diritti umani ed è in gioco la nostra acqua e la vita delle persone,” afferma.

L’organizzazione canadese “Mining Watch” ha seguito da vicino le azioni dell’impresa e ha pubblicato un comunicato in occasione della riunione annuale degli azionisti della PAS: “Pan American Silver acquisisce attività tossiche dalla fusione con Yamana. L’impresa ha dichiarato di impegnarsi per i diritti umani. Ma questo discorso è in contrasto col suo modello di acquisizione delle attività [in quanto, a livello storico, si basa su] una serie di violazioni di diritti indigeni, violenze e forti opposizioni locali”.

Il malessere contro la megaminiera ad Andalgala raggiunse l’apice nell’Aprile del 2021, quando venne incendiata la sede di “Yamana Gold”. Ne seguì una forte repressione: una decina di residenti (per lo più membri della “Asamblea El Algarrobo”) vennero arrestati in due settimane, senza alcuna prova che li incolpasse dell’incendio. Nel Maggio 2022 ci sono state due operazioni repressive nella vicina località di Choya, dove la compagnia mineraria era stata bloccata. Il potere giudiziario ha criminalizzato i residenti: ci sono state decine di condanne. Non è un caso che [nel territorio di] Andalgalá, a causa del mancato rispetto dei diritti umani, si parli di “dittatura mineraria”.

Rosa Farias, nonna e membro dell’ “Asamblea El Algarrobo”, sottolinea che continuerà la lotta contro la megaminiera perché sanno che il progetto MARA mette a rischio tutta la popolazione di Andalgala. “L’arrivo della PAS non è una buona notizia. Sappiamo che è un’impresa enorme e che ha l’appoggio del Governo. Entrambi si comportano come se non esistessimo, non ci ascoltano, ma faremo rispettare i nostri diritti e quelli dei nostri figli e nipoti”, avverte.

“Fuori, fuori, fuori le miniere” (“Fuera, fuera, fuera las mineras”), è il grido che risuona ogni sabato pomeriggio ad Andalgalà.

Da più di 10 anni, le manifestazioni sono un rituale intorno a Plaza “9 de Julio”, con decine di striscioni e bandiere che esprimono il rifiuto dell’estrattivismo. Sergio Martínez riassume il passato e il presente: “La megaminería ha dimostrato il suo fallimento in tutta l’Argentina, non solo con Alumbrera in Andalgalá. Non possono dimostrare che non distruggano, che non inquinino e che non ci depredano. È un sistema di distruzione, inquinamento e saccheggio che non può essere considerato un modello di sviluppo per l’Andalgalá e/o per qualsiasi altro paese.”

Martínez aggiunge un’altra informazione sulle “bugie” delle aziende e dei governi, basandosi sul bilancio ufficiale: le royalties delle megaminería rappresentano solo l’1,68% del bilancio provinciale. Ricorda che il 1 Luglio, [da quando sono scoppiate le proteste], si sono compiute in tutto 700 passeggiate in Andalgalá. Sono stati sventolati ancora una volta due storici striscioni: “L’acqua vale più dell’oro” e “Andalgalá non è in vendita. L’Aconquija non è in vendita”.

“Pan American Silver” è un’azienda molto conosciuta in Argentina e in America Latina. Per 15 anni ha cercato di sfruttare nel Chubut il progetto piombo-argento chiamato “Navidad”. Ha avuto il sostegno di tutti i governi (provinciale e nazionale), ma non è riuscito ad andare avanti a causa del diffuso rifiuto della popolazione. Un evento storico si è verificato nel Dicembre 2021: dopo una mobilitazione popolare nota come “el chubutazo” e durata più di sette giorni (con tanto di incendio parziale del Palazzo del Governo), il governatore Mariano Arcioni ha dovuto fare marcia indietro e ripristinare le restrizioni alla megaminería.

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Le mobilitazioni fermano il tentativo di golpe “tecnico” in Guatemala

 

Per conoscenza pubblichiamo questa traduzione fatta da Fabio per il Gruppo Anarchico Galatea. Originale: “Movilizaciones frenan intento de golpe de Estado “técnico” en Guatemala”.

Lo scenario politico in Guatemala, dopo i sorprendenti risultati della prima tornata delle elezioni presidenziali del 25 Giugno scorso, ha acquisito derive autoritarie. Come risposta, diversi settori della popolazione e associazioni sono scesi in strada per fermare quello che viene etichettato come un colpo di Stato “tecnico”. La mattina di giovedì (13 Luglio), agenti del Ministerio Publico (MP), accompagnati da elementi incappucciati e armati della “Division de Informacion Policial”, hanno saccheggiato gli uffici del Tribunal Supremo Electoral (TSE).

L’azione è stata giustificata come un tentativo di raccogliere prove per procedere legalmente contro il partito “Movimiento Semilla” (MS), accusato di riciclaggio di denaro e di aver falsificato le firme per iscrivere i membri alla propria organizzazione politica.

Tutto ciò è successo ore dopo che il TSE ha ufficializzato il risultato della prima tornata elettorale – dalla quale sono stati confermati i candidati che si disputeranno la presidenza del Guatemala il prossimo 20 Agosto: Bernardo Arévalo del MS, e Sandra Torres, della Union Nacional de la Esperanza (UNE).

L’ingerenza del MP nel tribunale accade in un contesto di grave tensione politica. Il 30 Giugno, nove partiti politici hanno segnalato frodi elettorali e chiesto la revisione dei voti e dei verbali della prima tornata. Il 1 Luglio, la Corte de Constitucionalidad, per raccogliere i dati dei seggi elettorali, ha ordinato alle giunte elettorali di ripetere il conteggio dei voti. Il 6 Luglio la revisione a livello nazionale si è conclusa senza che venissero provati dei brogli.

Le organizzazioni sociali considerano l’irruzione del MP al tribunale elettorale come un’azione di interferenza nelle elezioni. Così la pensa José Luis Caal, membro della “Coordinacion de ONG y Cooperativas” (Congcoop), organizzazione presente nel nord del paese centroamericano.

Il Guatemala sta vivendo in questi momenti un colpo di Stato “técnico”; non avviene con l’uso della forza militare ma attraverso la magistratura che è al servizio dei gruppi criminali”, afferma Caal in un’intervista con Avispa Midia nel suo ufficio di Raxruha, Alta Verapaz.

Per Caal, la recente azione dei pubblici ministeri punta ad [estromettere] il candidato del Movimiento Semilla dalle elezioni presidenziali. “Siamo molto preoccupati perché vediamo che siamo sotto una dittatura (…), non stanno rispettando il voto dei cittadini”, ha dichiarato l’attivista durante la giornata di giovedì, mentre l’organizzazione del quale fa parte si univa alla chiamata di altri gruppi che criticavano quanto accaduto.

Caal, difensore dei diritti umani, condivide con noi il fatto che il livello di incertezza è alto di fronte agli ultimi avvenimenti della disputa elettorale. “Per noi la posta in gioco non è il Movimento Semilla: è la mancanza delle istituzioni e la debolezza della democrazia in Guatemala“.

È in questo quadro, dice Caal, che i movimenti e le organizzazioni popolari si trovano in uno stato d’allerta. “Siamo in contatto con differenti organizzazioni a livello nazionale perché non permetteremo che il partito di Alejandro Giammattei (il presidente del Guatemala) imponga un governo che non è scelto dal popolo.

Le dichiarazioni di Caal e della sua organizzazione sono una piccola dimostrazione delle reazioni di malcontento che non smettono di moltiplicarsi in diversi luoghi del paese centroamericano.

Dal centro della capitale del Guatemala, davanti alle azioni del MP, passando per Quetzaltenango, San Marcos, Antigua e la città di Coban, tra le altre, centinaia di manifestanti sono scesi in strada per ripudiare il tentativo di golpe.

Dopo la pubblicazione di questo articolo, la Corte de Constitucionalidad ha concesso al MS un’ingiunzione che lo protegge dalla sospensione della sua personalità giuridica – fino alla risoluzione definitiva dell’ordinanza emessa dal MP.

Da parte sua, il TSE ha dichiarato che non terrà conto dell’ordine di giudizio del MP, ribadendo la partecipazione del Movimiento Semilla alla seconda tornata delle elezioni.

Patto tra corrotti

Per comprendere la situazione attuale, Caal spiega che, grazie al lavoro svolto dalle Nazioni Unite e per dare seguito agli accordi di pace firmati nel 1996, nel 2006 il governo guatemalteco ha accettato la creazione e il funzionamento della “Comisión Internacional contra la Impunidad en Guatemala” (CICIG), un organismo che aveva come obiettivo il rafforzamento del sistema giudiziario. [Il CICIG] portò avanti delle indagini per punire i reati delle forze di sicurezza e degli apparati di sicurezza clandestini che commettevano crimini contro l’umanità.

A tal fine, è stata creata la Procura speciale contro l’impunità (Fiscalía Especial contra la Impunidad, (FECI)) per assistere la CICIG e la Procura guatemalteca nelle indagini sui casi di grande impatto.

La FECI indagava sui gruppi che avevano beneficiato del denaro del popolo, gruppi che influenzavano i governi. Grazie al lavoro della procura, iniziammo a scoprire come il potere economico finanziasse illegalmente i partiti politici di destra”, spiega Caal.

Tuttavia, secondo il difensore dei diritti umani, è stato durante il governo di Jimmy Morales (2016-2020) che i gruppi criminali collusi con lo Stato, “si sono riarticolati e sono riusciti a espellere questa commissione dal Guatemala. [Questo] perché [la CICIG] ha iniziato a toccare gli interessi delle aziende, del potere economico, e come questi influenzassero un modello governativo che non beneficiava la popolazione.”

Iniziarono a cooptare tutte le istituzioni di giustizia (…). La FECI è ora nelle mani di queste mafie e stanno iniziando a vendicarsi dei procuratori che indagavano sui casi di corruzione e impunità”, denuncia Caal, che sottolinea come molti giudici siano ora in esilio.

Ancora più grave è la persecuzione che si estende contro i movimenti e le organizzazioni sociali, oltre che contro i giornalisti – come nel caso dell’arresto e della condanna per reati finanziari di José Rubén Zamora, direttore del media nazionale “El Periódico”, attualmente chiuso.

Sosterremo questa decisione coraggiosa (del TSE) che, sicuramente, è sotto pressione da parte del governo centrale”, denuncia Caal. “Non permetteremo che continui l’aggressione contro questo sistema democratico debole che abbiamo. Esigeremo che si rispetti questa debole democrazia che abbiamo in Guatemala”, conclude.

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Sull’espulsione del campo profughi autogestito di Lavrio, Grecia – Seconda Parte

Prima Parte

Un altro regalo della NATO a Erdoğan

Il giornalista curdo rifugiato Vedat Yeler ha definito lo sgombero e la distruzione del campo di Lavrio un “regalo della NATO a [Recep Tayyip] Erdoğan.” Lo sgombero è avvenuto pochi giorni prima (11 Luglio) del vertice NATO a Vilnius, in Lituania – dove avrebbero dovuto partecipare sia la Grecia che la Turchia. I due membri della NATO si sono scontrati per decenni sul conflitto di Cipro e sulle dispute territoriali nel Mar Egeo. In reciproche calunnie populiste, i politici turchi hanno accusato la Grecia di ospitare dei “terroristi” nel campo di Lavrio e, per anni, hanno pressato lo Stato greco affinché chiudesse lo spazio. Tuttavia, dopo la rielezione del regime sunnita-nazionalista di Erdoğan in Turchia e del governo di Nuova Democrazia di Mitsotakis in Grecia, rispettivamente nel Maggio e nel Giugno del 2023, si è assistito ad un cambiamento nelle relazioni bilaterali tra i due Paesi. Durante una visita a Cipro, pochi giorni prima dello sgombero, il ministro degli Esteri greco ha dichiarato di voler migliorare le relazioni con la Turchia. L’attacco ai rifugiati politici curdi in Grecia può essere inteso come un tentativo di dimostrare questi sforzi prima del vertice NATO.

Dopo lo sgombero, il campo di Lavro è stato affidato al comune di Lavrio – il quale ha immediatamente coperto, tramite pittura, i simboli politici rivoluzionari presenti nel luogo da decenni. È stato un gesto politico. Il messaggio inviato dal governo di “Nuova Democrazia” è stato il seguente: la politica rivoluzionaria non sarà tollerata sotto questo esecutivo. Foto: Beja Protner, 15 Luglio 2023.

Non è la prima volta che i curdi vengono utilizzati come strumento nella geopolitica regionale e nella gestione delle relazioni interne della NATO. Una precedente occasione, in cui lo Stato greco ha giocato un ruolo cruciale, è stata la cospirazione internazionale del 15 Febbraio 1999 – che ha portato alla cattura del leader del PKK, Abdullah Öcalan. Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, il movimento curdo aveva goduto del sostegno pubblico dei politici e dell’opinione pubblica greca di sinistra. Quando Öcalan fu esiliato dalla Siria, cercò rifugio in Europa e fu ospitato dai servizi segreti greci. Tuttavia, sotto le pressioni dell’UE e della NATO, gli venne rifiutato il rifugio in Grecia e fu trasferito all’ambasciata greca in Kenya, dove venne consegnato in seguito ai servizi segreti turchi.1 Di conseguenza, con la diretta complicità della Grecia, Öcalan fu imprigionato a vita e in completo isolamento sull’isola turca di İmralı.

Nel 1999, i rifugiati curdi e altri rifugiati rivoluzionari in Grecia si sono uniti alle migliaia di sostenitori locali per protestare contro quella che molti anziani greci ricordano come una delle azioni più vergognose dello Stato greco. Oggi, con lo sgombero del campo di Lavrio, il movimento curdo ha visto ancora una volta che non può fidarsi di nessuno Stato ma deve fare affidamento sulla solidarietà delle persone.

Per molti anni, la NATO ha sostenuto la violenza politica e i crimini di guerra della Turchia in Medio Oriente. Con il secondo esercito più grande della NATO, lo Stato turco ha condotto una guerra impari contro i guerriglieri del PKK in Kurdistan, commettendo atti di violenza politica e crimini di guerra contro i guerriglieri, la popolazione locale e l’ambiente, compresi incendi ecologicamente devastanti e attacchi con armi chimiche. La Turchia ha sostenuto materialmente e logisticamente l’ISIS e altre bande jihadiste in Siria e Iraq nella loro lotta contro i curdi. Inoltre, la Turchia ha bombardato, invaso e occupato diverse aree a maggioranza curda nel nord e nell’est della Siria, dove ha impiegato mercenari jihadisti per terrorizzare e abusare delle popolazioni locali, provocando la fuga di migliaia di persone. Allo stato attuale delle cose, dal punto di vista geopolitico, un membro della NATO può fare tutto questo senza alcuna reazione significativa delle istituzioni internazionali.

Recentemente, le relazioni tra la Turchia e altri membri della NATO sono sfociate ancora una volta nella violenza contro i rifugiati curdi e politici turchi esuli. Nel 2022, quando Finlandia e Svezia hanno deciso di aderire alla NATO – nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina -, la Turchia ha preso di mira i rifugiati curdi, [trattandoli] come merce di scambio nei negoziati. La Turchia ha posto il veto sull’adesione della Finlandia e della Svezia alla NATO: avrebbe accettato [i due paesi nell’Alleanza Atlantica] solo se questi consegnavano i rifugiati politici residenti nei loro Paesi – affinché fossero imprigionati (o peggio) in Turchia. Questo traffico di esseri umani è avvenuto con la Svezia, la quale ha estradato un certo numero di esuli politici in Turchia.

I rifugiati politici del Kurdistan e della Turchia organizzano regolarmente manifestazioni nel centro di Atene per protestare contro l’oppressione politica in Turchia, l’incarcerazione di Abdullah Öcalan, le invasioni militari, gli assassinii degli attivisti in Rojava (Siria) e Başûr (Iraq), l’uso di armi chimiche contro i guerriglieri del PKK nelle montagne del Kurdistan e, soprattutto, per condannare il silenzio delle istituzioni europee ed internazionali sui crimini della Turchia. Fonte foto, 20 Novembre 2022.

L’Unione Europea e la NATO hanno continuamente collaborato alla criminalizzazione del PKK e degli attivisti (pro-)curdi, adottando il discorso del “terrorismo” che la Turchia utilizza per legittimare i massacri, l’uso di armi chimiche, la persecuzione di massa di dissidenti politici, giornalisti e avvocati e le invasioni militari che hanno costretto all’esilio milioni di persone. Le discussioni al vertice NATO dell’11 Luglio hanno sviluppato ulteriori minacce contro la comunità politica curda in patria e in esilio. Ad esempio: nell’ambito di un nuovo patto di sicurezza bilaterale, Erdoğan ha incontrato il primo ministro svedese Ulf Kristersson e ha accettato di trasmettere il protocollo di adesione della Svezia alla Grande Assemblea Nazionale Turca per la ratifica; questo a condizione che la NATO si impegni a nominare un “coordinatore speciale per l’antiterrorismo” e che la Svezia collabori nell’affrontare le “preoccupazioni securitarie” della Turchia (in altre parole, l’esistenza di curdi organizzati politicamente). Questo significa che vi saranno maggiori persecuzioni ed estradizioni ai danni dei curdi in esilio e rifugiati politici che cercano di trovare sicurezza in Europa.

Non è chiaro se Erdoğan e Mitsotakis abbiano discusso della comunità politica curda e turca in Grecia durante il loro incontro al vertice NATO del 12 Luglio. Tuttavia, lo sgombero e la distruzione del campo di Lavrio [mostra come] lo Stato greco stia al fianco del governo turco nel suo progetto secolare di annientamento dei curdi in Turchia e altrove.

La questione dei rifugiati e i curdi

Se consideriamo sia la posizione dei curdi nella geopolitica della NATO che la guerra razzista dell’Unione Europea contro i migranti (dove lo Stato greco si schiera con l’oppressore), possiamo vedere come i sistemi integrati – che Öcalan e il movimento curdo chiamano le “forze della modernità capitalista”2 -, conducano una guerra contro la vita libera.

Mentre il governo turco continua a sfollare milioni di persone dalla Turchia e dal Kurdistan – molte delle quali cercano asilo in Europa -, l’UE protegge i suoi confini con metodi e discorsi genocidi, versando miliardi di euro alla Turchia – in modo che questa blocchi le migrazioni dal Sud globale. Secondo il cosiddetto accordo UE-Turchia del 2016, l’UE ha versato allo Stato turco 3 miliardi di euro per accogliere e contenere i migranti e i rifugiati del Sud globale – i quali cercano di raggiungere la sicurezza attraversando la Turchia.

In seguito a questo accordo, nel 2021 la Grecia ha dichiarato la Turchia “Paese sicuro” per i rifugiati provenienti da Siria, Afghanistan, Somalia, Pakistan e Bangladesh. Tuttavia, le persone provenienti da questi Paesi non hanno la possibilità di ottenere asilo in Turchia a causa della sua legislazione obsoleta in materia di rifugiati. Hanno un accesso limitato ai diritti di residenza, all’alloggio e al lavoro legale e sono sempre più esposti a deportazioni e respingimenti [il ritorno forzato dei rifugiati in un Paese in cui rischiano di essere sottoposti a persecuzioni], sfruttamento economico e sessuale, attacchi razzisti e omicidi, legittimati e incoraggiati da un discorso razzista anti-rifugiati. I curdi della Turchia conoscono bene queste forme di violenza sistematica, normalizzate da decenni di discriminazione nei confronti delle minoranze non turche.

Data la non trasparenza del corrotto Stato turco, è difficile dire quanto denaro dell’UE sia stato utilizzato per accogliere i 10 milioni di rifugiati – la maggior parte dei quali vive in condizioni di vita deplorevoli. Allo stesso tempo, la Turchia ha aumentato in modo esponenziale le sue scorte di armi e tecnologie militari e misure repressive e di sorveglianza. Sicuramente, i “fondi per i rifugiati” dell’UE sono stati utilizzati per intensificare la guerra contro i curdi – sia in patria che all’estero -, spingendo altri milioni di persone a cercare rifugio in Europa e nel resto del Nord globale.

Oltre al denaro, l’UE, tramite il suo silenzio, ha sostenuto la Turchia nei maltrattamenti sistematici contro i rifugiati e i dissidenti politici presenti nella penisola anatolica, oltre alla violenza politica, alla sponsorizzazione dei jihadisti, agli interventi militari e ai crimini di guerra del governo turco. Di fronte a tutti i tentativi di critica dei funzionari dell’UE, Erdoğan ha minacciato di “liberare” i rifugiati in Europa. L’UE, spinta da una xenofobia sistemica, rimane complice delle violenze della Turchia contro i curdi, i rivoluzionari di sinistra, i dissidenti politici, le donne, le minoranze sessuali e le popolazioni di migranti e rifugiati indesiderati – nonostante la Turchia stessa produca milioni di rifugiati.

In breve: ovunque si incroci il “problema” europeo con i migranti e il “problema” della Turchia con i curdi, le persone vengono uccise, sfollate, dissuase violentemente, incarcerate, private di diritti e, come atto finale di disumanizzazione, usate come oggetti di ricatto, contrattazione e commercio umano tra Stati.

Foto: Questo murales raffigurante famosi personaggi curdi e internazionalisti e martiri della lotta per la libertà del Kurdistan copriva l’ingresso dell’edificio principale del campo di Lavrio. Nella stella del simbolo del PKK, lo slogan in curdo dice: “Il nostro amore per la vita è così grande che possiamo sacrificarci per essa.” Le autorità greche hanno coperto il murales dopo lo sgombero del campo. Foto: Beja Protner, Marzo 2023.

Ho scritto questo saggio per cercare di rispondere alla domanda di Diana, “Perché ci hanno fatto questo?”, dopo che era stata sfrattata dalla sua casa insieme alla sua famiglia e al resto dei residenti del campo di Lavrio. Ho cercato di mostrare come l’imperialismo della NATO, la guerra europea ai migranti (compresi quelli che fuggono dalla Turchia e dal Kurdistan) e la guerra della Turchia contro i curdi e i dissidenti politici si siano intrecciati nelle relazioni dei poteri regionali e globali. Coloro che subiscono l’oppressione, la violenza politica e lo sfruttamento economico – e che resistono cercando una vita più libera attraverso la migrazione, l’autorganizzazione autonoma e l’autodifesa – sono sotto attacco ad ogni passo.

Oggi, le rovine del campo profughi rivoluzionario di Lavrio – che per decenni è stato un rifugio sicuro per i rifugiati politici e una culla per la solidarietà internazionalista -, testimoniano la violenza di ciò che il Movimento curdo chiama “Modernità capitalista”, un sistema integrato in cui la vita viene svalutata, sfruttata e spenta. Di fronte ad una forza così imponente, che ha colpito direttamente i residenti del campo di Lavrio ma che minaccia tutti noi, l’unico modo per resistere è stabilire una solidarietà internazionale e una lotta comune contro tutte le frontiere e le ingiustizie del mondo odierno.

Quelli di noi che sperano di agire in solidarietà con Diana e con tutti coloro che sono oppressi e lottano, dobbiamo chiederci [collettivamente] che cosa faremo per difendere la “vita libera insieme” – conosciuta e imparata a Lavrio. Senza i suoi abitanti e la loro politica, [il campo] è solo un insieme di vecchi edifici distrutti. Non dobbiamo permettere che le sue rovine diventino un’immagine del futuro.

Possiamo parlare e agire in risposta alla violenza sistematica dello Stato, organizzandoci contro la criminalizzazione e [supportando] le popolazioni oppresse e le persone che cercano la libertà e una vita migliore, sia in patria che in esilio. Onoriamo la storia del campo di Lavrio costruendo spazi alternativi di “vita libera insieme” e che connettano rivoluzionari, migranti e rifugiati, gente del posto e tutti gli oppressi. Facciamo in modo che l’eredità del campo di Lavrio viva in molti nuovi spazi auto-organizzati di cameratismo, solidarietà internazionalista e lotta.

Note

1Nota del Gruppo Anarchico Galatea: nella cattura di Öcalan giocò un ruolo decisivo il governo italiano di centro-sinistra, guidato all’epoca da Massimo D’Alema. Ocalan, quando arrivò in Italia dalla Russia il 12 Novembre 1998, venne arrestato dalla polizia italiana a causa di un mandato di cattura internazionale emesso sia dalla Germania che dalla Turchia. A differenza dello Stato tedesco, il governo turco pressò il suo omologo italiano affinché estradasse Ocalan. Il governo di D’Alema, però, non poteva concedere l’estradizione in quanto 1) l’imputato avrebbe rischiato la pena di morte in Turchia e 2) si palesava una violazione di due articoli (10 e 26) della Costituzione Italiana. Nell’articolo “Caso Ocalan e questione kurda. L’ipocrisia della diplomazia internazionale gioca sulla pelle di trenta milioni di kurdi”, Umanità Nova, n. 37, 29 Novembre 1998, veniva scritto: “[…] La Turchia nonostante ciò è un partner fondamentale sia dell’Alleanza Atlantica sia dell’Europa. L’Italia è legata alla Turchia da trattati commerciali e politici importanti che datano da molti anni. I soldati turchi che operano nei territori kurdi sono equipaggiati con armi italiane, come italiani sono gli elicotteri da combattimento e i blindati. Recentemente, il 22 settembre di quest’anno, il ministro degli Interni Napolitano ha firmato un accordo con la Turchia proprio sulla questione della collaborazione alla lotta contro il terrorismo. E per la Turchia terrorismo significa PKK. La questione di Ocalan, dunque, ha solamente scoperchiato l’ipocrisia di un Europa sorniona che fa orecchie da mercanti sul caso dei diritti umani e civili del popolo kurdo. […] la diplomazia italiana, come ha recentemente confermato Pietro Fassino, ha già delineato i suoi compiti. In sintesi la posizione è questa: “Ocalan è un capo di un’organizzazione illegale che è stato fermato in Italia e il nostro paese non intende con questo dare ospitalità a individui che combattono il governo turco con azioni terroristiche. L’Italia non entra nel merito della questione kurda perché essa è un problema interno della Turchia e non è un problema internazionale. L’Italia, nel pieno rispetto degli accordi internazionali, provvederà ad accettare l’estradizione del leader kurdo per quei paesi che lo richiederanno e dove, come in Germania, non vige la pena di morte. L’Italia denuncia l’aggressione della campagna turca contro le aziende italiane e ne chiede l’immediata sospensione”. Come si vede la diplomazia non solo italiana ma di tutti i paesi è come un elefante che balla in una pista di circo ricoperta da migliaia di bicchieri di vetro dove quest’ultimi rappresentano i trenta milioni di kurdi che vivono nell’area medio orientale. Nessuno si preoccupa di loro, sono solamente un problema di ordine pubblico interno ai singoli paese che li ospitano, l’importante è salvare i buoni affari! […].” Dopo quasi tre mesi di permanenza in Italia e una richiesta di asilo politico pendente, Öcalan partì dall’Italia il 16 Gennaio 1999 e arrivò a Nairobi, in Kenya. Un mese dopo, il 15 Febbraio, verrà catturato dai servizi segreti turchi. L’ipocrisia del governo italiano e dei mass media verrà descritta nell’articolo “Caso Ocalan e questione curda. L’Europa della vergogna”, Umanità Nova, n. 7, 28 Febbraio 1999: “[…] L’atteggiamento pavido dei governi europei che ha obbligato Ocalan ad una fuga sempre più disperata che alfine lo ha reso facile preda del governo turco non è che l’ennesimo atto, più eclatante solo perché maggiormente sotto l’occhio di vetro delle telecamere, della consapevole scelta di rimozione operata nei confronti della questione curda. […] Certo Ocalan per molti aspetti non è esattamente un personaggio dalla limpida biografia del rivoluzionario libertador che tanta sinistra buonista indulge a descrivere […] tuttavia la vicenda che lo vede coinvolto, la ribellione dei curdi in molti paesi, il crescere della repressione in Turchia non possono che suscitare indignazione. In quest’Europa degli steccati e dei capitali, gli appelli alla D’Alema per un processo equo mostrano il volto di un’Italia e di un’Europa ben più attente alle commesse militari con la Turchia ed a buoni rapporti con gli Stati uniti, gli alleati di sempre, che non al rispetto dei diritti umani.”

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Sull’espulsione del campo profughi autogestito di Lavrio, Grecia – Prima Parte

Traduzione dall’originale “Regarding the Eviction of the Self-Organized Refugee Camp in Lavrio, Greece

Come si intersecano le guerre della Turchia contro i curdi e dell’Unione europea contro i migranti.

Il 5 Luglio 2023, il governo greco ha sgomberato il campo profughi curdo di Lavrio, in Grecia. Il campo esisteva da molti decenni ed era un importante centro di organizzazione nell’Europa sud-orientale. Le guerre della Turchia contro i curdi, del governo greco contro gli spazi autonomi e dell’Unione Europea contro i migranti si sono intersecate in questa operazione. Nell’analisi che segue, Beja Protner mostra le connessioni tra le varie forme di oppressioni sistemiche coinvolte. Per ulteriori informazioni su questi temi, è possibile consultare Rise Up 4 Rojava e Emergency Committee For Rojava.

Il 5 Luglio 2023, tra le 3 e le 6 del mattino, le forze dello Stato greco hanno fatto irruzione e sgomberato con violenza il campo profughi curdo auto-organizzato di Lavrio, in Grecia. Situato a circa 60 chilometri da Atene, il campo ospitava da decenni i rifugiati politici provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan. Senza preavviso, più di 250 agenti di polizia, la polizia antisommossa (MAT) e le forze speciali di polizia pesantemente armate (EKAM) inviate dal Ministero dell’Asilo e della Migrazione, hanno sgomberato i residenti del campo – meno di 60 persone, un terzo delle quali erano bambini piccoli. I rifugiati sono stati trasferiti con la forza nel campo profughi di Oinofyta, situato all’interno di una fabbrica abbandonata – un’area deserta e lontana da qualsiasi tipo di insediamento urbano.

Lo sgombero è stato definito  un “intervento umanitario” da parte dei funzionari greci; per i curdi e i rifugiati politici di sinistra provenienti dalla Turchia e dal Kurdistan, [invece, è sembrato] simile alle incursioni [turche] – e che li avevano costretti a fuggire dalle loro terre d’origine, cercando un rifugio in Grecia. Le forze greche hanno sfondato il cancello del campo, irrompendo nelle case dei rifugiati. [Immediatamente] hanno puntato i fucili [con mirini] laser contro le persone, comprese famiglie e bambini, e le hanno trascinate fuori [dalle case e, successivamente, dal campo].

Nemmeno in Turchia [le forze statali] usavano così tanta tecnologia per le incursioni nelle case”, ha commentato Welat, un giovane rifugiato politico del Kurdistan settentrionale (Turchia) che, dopo essere fuggito dalle persecuzioni in Turchia, aveva vissuto nel campo di Lavrio per cinque anni. Come ha raccontato Leyla – abitante del campo insieme al marito e ai tre figli piccoli -, alle persone residenti è stata concessa solo mezz’ora per raccogliere i loro beni essenziali prima che le forze di polizia occupassero il campo e ne vietassero l’ingresso. Quelli che hanno opposto resistenza allo sgombero sono stati trattenuti violentemente – tramite l’ammanettamento delle mani dietro la schiena. Leyla ha cercato di calmare la figlia dicendole che quelle che venivano puntate contro di loro erano pistole giocattolo. “Ma la bambina sapeva cos’erano, fin dai tempi della Turchia”, ha detto Leyla. “I miei figli hanno visto così tante cose da non meritarsele.

Tutti i 57 residenti, tra cui otto donne e diciannove bambini, sono stati arrestati e trasferiti nel campo profughi di Oinofyta, situato in una fabbrica abbandonata e lontana da qualsiasi tipo di insediamento urbano.

Dove siamo? Cos’è questo posto?” ha chiesto Layla quando ci siamo incontrati attraverso la recinzione metallica di colore blu del cancello del campo e dopo che le guardie greche mi avevano negato l’accesso. Un anziano rifugiato curdo era appena tornato a mani vuote dopo un’ora di ricerca, sotto il sole cocente di mezzogiorno, di un negozio dove poter acquistare qualcosa da mangiare o da bere.

Erano le 14.00 e i rifugiati non avevano ancora ricevuto nulla da quando erano stati trasferiti con la forza alle 6.00 del mattino. “I bambini hanno fame!” ha detto in poche parole greche l’anziano rifugiato al personale di sicurezza – il quale stava seduto dentro una piccola cabina del cancello.

In netto contrasto con il campo di Lavrio, autonomo, autosufficiente e situato in posizione centrale, Oinofyta è una prigione sorvegliata dai funzionari di sicurezza (nominati dal governo) e che controllano le entrate e le uscite. Anche quando le persone hanno il permesso di uscire dal campo, l’area circostante è in gran parte deserta, isolata e, di conseguenza, [i residenti] dipendono dagli scarsi beni di prima necessità statali.

Perché ci hanno fatto questo?” ha chiesto Diana, un’adolescente del nord-est della Siria (Rojava), mentre mi teneva per mano attraverso la recinzione blu.

Il campo profughi di Oinofyta, allestito in una fabbrica abbandonata e lontana dagli insediamenti urbani, era stato chiuso a causa delle condizioni invivibili. È stato riaperto per ospitare i rifugiati del campo di Lavrio. Dopo otto ore, un camion inviato dallo Stato greco ha portato del cibo per i rifugiati. L’ingresso è stato negato a tutti i visitatori, nonostante le obiezioni dei rifugiati.

La vita dei residenti del campo di Lavrio è stata stravolta in un solo giorno, privandoli della libertà e dell’autonomia. Il 4 Luglio vivevano in una comunità politica auto-organizzata, libera e sicura, che esisteva da oltre 40 anni. Il giorno dopo, erano rifugiati emarginati socialmente, imprigionati e dipendenti dallo Stato – mentre quest’ultimo distruggeva le case del più antico campo profughi d’Europa, chiudendo così un capitolo della storia del “Movimento per la Libertà del Kurdistan” in Grecia. La distruzione del campo di Lavrio è un momento storico in cui le politiche europee contro i rifugiati e il giro di vite della destra greca sugli spazi politici autonomi si intersecano con le relazioni internazionali greche e turche e con la guerra contro la popolazione curda, rivelando le loro interconnessioni.

Un attacco ai rifugiati e alla libera vita collettiva

Negli ultimi quattro anni, il governo di destra “Nuova Democrazia” (Νέα Δημοκρατία, ND) ha posto due priorità in cima alla sua agenda: la guerra contro i migranti e la distruzione degli spazi politici autonomi. Da quando Nuova Democrazia è salita al potere sotto il primo ministro Kyriakos Mitsotakis nel 2019, la polizia ha sgomberato e sigillato decine di squat nei centri urbani. Molti di questi ospitavano rifugiati e migranti che non avevano accesso ad un alloggio dignitoso in Grecia.

Dal 2015, la Grecia è servita all’Europa come “contenitore” per i migranti e i rifugiati indesiderati. Secondo il Regolamento di Dublino, i richiedenti asilo devono presentare una domanda di protezione nel primo Paese dell’Unione Europea in cui sono entrati. Ma la chiusura delle frontiere interne dell’UE nel 2016 ha intasato i sistemi di asilo nei Paesi ai margini dell’UE – come la Grecia. La lentezza, l’incomprensibilità e i continui cambiamenti del sistema di asilo greco ha reso questo processo un inferno per innumerevoli persone.

La maggior parte delle persone deve attendere diversi anni per il colloquio di asilo, durante il quale vi è un accesso limitato o nullo all’alloggio, all’assistenza finanziaria e sanitaria o all’istruzione. Durante questo periodo, i documenti temporanei dei migranti e dei rifugiati scadono continuamente e sono costretti a vivere come sans papiers [persone senza documenti] a causa dei ritardi del Servizio di asilo. Questa precarietà giuridica, indotta dall’amministrazione, rende queste persone vulnerabili alle operazioni di “pulizia” del centro di Atene. La polizia sequestra le persone prive di documenti di soggiorno validi e le conduce in campi e centri di detenzione simili a delle prigioni – dove le condizioni di vita sono abominevoli.

Le politiche migratorie e di asilo del governo di Nuova Democrazia costituiscono una guerra contro i migranti. Come “scudo d’Europa”, [l’attuale governo greco] fa il lavoro sporco dell’isteria razzista europea anti-migratoria. [In questo modo,] il confine terrestre e marittimo greco-turco è diventato un luogo di respingimenti illegali – una strategia di rimpatrio sistematica e non ufficiale dove le persone migranti vengono respinte verso la Turchia, senza che queste abbiano alcuna possibilità di richiedere asilo. Questo include coloro che fuggono dalle persecuzioni politiche dello Stato turco.

La polizia greca, Frontex, le guardie di frontiera, le guardie costiere, le bande che collaborano con questi e i vigilantes locali, effettuano ogni giorno questi respingimenti su vasta scala, violando una serie di leggi e convenzioni internazionali. Oltre a violare il diritto di richiedere asilo, [le forze repressive] infliggono [ai migranti] una violenza poliziesca brutale tra rapimenti forzati, torture, abusi sessuali e detenzioni non ufficiali in celle sovraffollate e senza accesso a cibo, acqua o servizi igienici. [Le forze repressive] della regione di Evros (nord-est della Grecia), effettuano respingimenti vicino al confine e rapiscono le persone dalle strade o dai campi dell’entroterra di Salonicco. Dopo essere state sottoposte a molteplici forme di maltrattamenti e umiliazioni da parte delle guardie di frontiera mascherate e bande collaboratrici, i migranti vengono portati sul fiume Evros e, successivamente, costretti a salire sui gommoni sotto la minaccia delle armi e trasferiti oltre il confine, verso la Turchia. In alcuni casi, i migranti vengono abbandonati sulle piccole isole fluviali senza cibo, acqua o medicine ed esposti alle intemperie.

Nel Mar Egeo e nel Mar Ionio, la Guardia Costiera ellenica e Frontex sono stati responsabili di innumerevoli respingimenti e morti. Le imbarcazioni in difficoltà vengono regolarmente rifiutate e lasciate affondare o rimorchiate verso la Turchia. In alcuni casi, la guardia costiera ha deliberatamente danneggiato i motori delle imbarcazioni prima di lasciarle alla deriva in mare aperto e vicino alle acque turche. In altri casi, le persone sono state abbandonate in mare su imbarcazioni di soccorso senza motori. Il governo greco cerca di legittimare queste azioni come forme di “sicurezza”, giocando sui sentimenti razzisti anti-migratorigreci e, più in generale, europei. Di conseguenza, il fiume Evros e il Mar Egeo sono diventati dei cimiteri per coloro che fuggono da guerre, persecuzioni, devastazioni economiche e catastrofi climatiche.

Rifugiati politici provenienti dal Kurdistan e dalla Turchia in Grecia, insieme agli attivisti locali e internazionali, protestano contro i respingimenti e le violenze ai confini tra Grecia/UE presso il Ministero della Migrazione e dell’Asilo ad Atene. Foto: Vedat Yeler, 8 Giugno 2022.

Nel contesto della criminalizzazione dei migranti e della migrazione in generale, i campi profughi greci sono diventati delle prigioni di massima sicurezza. Le condizioni di vita di questi luoghi sono notoriamente terribili, ma sono anche spazialmente e socialmente isolati, lontani da qualsiasi centro urbano. La maggior parte dei campi vicini ai centri urbani, che consentivano ai residenti di accedere ad un lavoro (anche se precario e sfruttato), alle strutture sanitarie e all’istruzione per i bambini, sono stati sgomberati con la forza. I campi isolati come Oinofyta, dove i rifugiati vengono trasferiti con la forza, dipendono dall’inadeguata fornitura statale dei beni di prima necessità.

Le politiche dei lager e dei confini dello Stato greco seguono una logica genocida di “pulizia” che, per molti aspetti, assomiglia a fenomeni quali l’Olocausto, il genocidio armeno e altri eventi similari: l’idea di sbarazzarsi di una popolazione indesiderata con ogni mezzo a disposizione; un’escalation graduale di discorsi e pratiche di disumanizzazione che diventano normalizzati; la palese “banalità del male”1 negli atteggiamenti degli agenti di polizia e di frontiera, dei burocrati e dei dipendenti dei lager; e infine, la scelta della stragrande maggioranza dei cittadini nell’accettare queste pratiche così da non vedere i migranti intorno a loro o nel loro Paese.

In effetti, molti cittadini della Grecia e di altri Paesi dell’Unione Europea hanno adottato l’idea sostanzialmente genocida che queste persone non dovrebbero essere qui”, “bisogna impedirgli di stare in questi luoghi” ofarle sparire con qualsiasi mezzo.”Allo stesso tempo, questi cittadini rifiutano di riconoscere il regime di annientamento a cui sono sottoposti i migranti.

Portando avanti i valori e le pratiche della “vita libera insieme” (hevjiyana azad/özgür eş yaşam) – nate dal Movimento per la Libertà del Kurdistan -, il campo profughi curdo di Lavrio è stato uno degli ultimi posti a resistere contro questo sistema di incarcerazione e annientamento. A Lavrio, i rifugiati rivoluzionari provenienti dal Kurdistan e dalla Turchia hanno vissuto per decenni nel centro della città costiera insieme agli abitanti e ai turisti. A differenza dei campi di prigionia gestiti dallo Stato, il campo di Lavrio è stato interamente autogestito dopo che lo Stato si ritirò sette anni fa ed è sopravvissuto grazie al sostegno e alle donazioni degli enti di beneficenza, ONG, gruppi di solidarietà e filantropi locali e stranieri. Gli attivisti internazionali e locali, ricercatori, giornalisti e fotografi hanno visitato spesso il campo e sono stati accolti calorosamente come ospiti.

Il campo di Lavrio era un’utopia vissuta, un mondo da mettere in pratica. La vita nel campo era organizzata secondo i principi del Confederalismo Democratico, un sistema di auto-organizzazione basato nelle comuni, comitati e assemblee, descritto dal leader del Movimento per la Libertà del Kurdistan, Abdullah Öcalan, come un modo per creare collettivamente una coesistenza comunitaria pacifica, sicura e armoniosa tra gli esseri umani e l’ambiente – un’alternativa alla logica dello Stato-nazione.2

Le relazioni di uguaglianza di genere, il cameratismo, l’aiuto reciproco, il rispetto e la cura per le altre persone, gli animali e l’ambiente, caratterizzavano la vita quotidiana nel campo di Lavrio. Era un luogo in cui gli individui, giovani, famiglie e bambini provenienti dalla Turchia e dalle quattro parti del Kurdistan (occupato da Turchia, Iran, Iraq e Siria) trovavano un rifugio sicuro e una casa dopo essere fuggiti dalla guerra, dalla persecuzione politica, dalla tortura, dalla prigionia e dalla minaccia di morte. Come molti residenti hanno notato, [il campo] era “come il Kurdistan”, un pezzo di patria all’estero; un Kurdistan libero dalla violenza e dal patriarcato, dove i curdi e i rifugiati politici di sinistra potevano riprendersi da esperienze traumatiche di violenza ed esprimere liberamente la loro cultura politica, ricostruendo così la propria comunità. Molti residenti, dopo che avevano ottenuto asilo in Grecia, avevano scelto di continuare a vivere nel campo di Lavrio – continuando così a partecipare a questo progetto di “vita libera insieme” e, soprattutto, sentirsi al sicuro nel campo e nella città di Lavrio.

Il campo di Lavrio era uno spazio sicuro per le famiglie. Negli anni passati, i residenti hanno costruito un parco giochi per i bambini. In quattro decenni, migliaia di bambini hanno vissuto e sono cresciuti nel campo. Foto: Beja Protner, Marzo 2023.

Cancellare una storia di lotta e solidarietà

Il campo di Lavrio era uno dei più antichi campi profughi d’Europa. Fu istituito nel 1947 con il nome ufficiale di “Centro di permanenza temporanea per stranieri richiedenti asilo” e serviva per ospitare i rifugiati di origine greca (“espatriati”) in fuga dall’Unione Sovietica.3

Secondo un rapporto di ricerca del 1950, il campo ospitò circa 300 persone, tra cui famiglie e individui di diverse nazionalità provenienti da Unione Sovietica, Bulgaria, Albania e Romania – le quali fuggivano dalle persecuzioni dei loro Paesi di origine. Le necessità dei rifugiati vennero gestiti dall’ “Organizzazione Internazionale per i Rifugiati” (IRO), una missione delle Nazioni Unite in Grecia, in collaborazione con le autorità greche. Negli anni successivi [il campo] era stato abitato da richiedenti asilo provenienti da vari Paesi – soprattutto dai Balcani e dal Medio Oriente. 4

I rifugiati politici provenienti dalla Turchia divennero i residenti più numerosi del campo negli anni ’80, precisamente dopo il colpo di Stato militare del 12 Settembre 1980, quando la Turchia passò sotto il governo di una giunta militare nazionalista sunnita – che torturò, imprigionò, uccise e costrinse all’esilio decine di migliaia di curdi e politici di sinistra.

Per quattro decenni, il campo profughi di Lavrio è stato uno spazio auto-organizzato di “vita libera insieme”, lotta e solidarietà. Foto: Beja Protner, Marzo 2023.

Mentre lo Stato greco era, tecnicamente, responsabile del campo – gestendo le procedure di asilo e fornendo cibo, cure mediche e beni di prima necessità -, i rifugiati rivoluzionari si organizzavano attraverso comuni e assemblee. Era stata costruita una comunità politica di esuli auto-organizzati – la cui esperienza si basava su quello che essi avevano vissuto all’interno delle carceri politiche turche. Il campo di Lavrio non fu solo uno spazio di rifugio ma anche uno dei più importanti luoghi di organizzazione politica esule in Europa.

Era stato anche un ambiente di solidarietà internazionale e di cameratismo. Dagli anni Ottanta, diverse organizzazioni della sinistra greca, sindacati e gruppi di solidarietà avevano visitato il campo, rivendicando pubblicamente il diritto all’asilo, al lavoro politico, all’occupazione, all’assistenza sanitaria e a migliori condizioni di vita per i rifugiati rivoluzionari. I residenti avevano creato anche dei legami con i partiti e le organizzazioni di sinistra greche e si erano impegnati con la popolazione in generale, producendo e distribuendo volantini e riviste in greco dove spiegavano la situazione di oppressione politica in Turchia e chiedevano un’ampia solidarietà turco-greca.

Negli anni ’90, un gran numero di rifugiati curdi, in particolare le famiglie, erano arrivati nel campo di Lavrio a causa della violenza politica nel Kurdistan settentrionale (in Turchia). Negli anni ‘90 lo Stato turco, vista la crescente popolarità e mobilitazione del “Partito dei Lavoratori del Kurdistan” (PKK) in Kurdistan, prese di mira i civili che abitavano quel territorio: ciò si tradusse in campagne repressive dove l’esercito anatolico e le organizzazioni paramilitari perpetravano omicidi di massa, sparizioni forzate, torture e incarcerazioni. Fu in questo periodo che il campo ebbe una maggioranza curda e incentrò [la sua politica] sul “Movimento per la Libertà del Kurdistan”, guidato dal PKK. Grazie alla solidarietà tra i rifugiati curdi e turchi e i gruppi di sinistra greci, gli esuli organizzarono regolarmente degli eventi culturali in tutta la Grecia – ampiamente frequentati dalla popolazione locale. Parteciparono anche a festival locali, condividendo musica, cibo e materiale informativo.

Nel campo di Lavrio, ogni aspetto della vita quotidiana era organizzato secondo il confederalismo democratico e i principi della “vita libera insieme”. I residenti mantenevano gli spazi puliti e ordinati e li decoravano con simboli rivoluzionari. Ogni stanza era una comune e all’interno venivano condivisi denaro e beni di prima necessità; le responsabilità di pulizia e cucina erano distribuite equamente tra i compagni. Foto: Beja Protner, Gennaio 2023.

Un gran numero di famiglie curde sfollate dalla Siria aveva trovato rifugio nel campo di Lavrio, in particolare dopo la guerra civile siriana (2011), l’attacco dello Stato Islamico alle regioni curde in Siria (2014) e il genocidio contro i curdi yazidi a Sinjar, in Iraq (2014), e l’invasione turca del nord della Siria (a partire dal 2018). Nel 2016, a causa delle pressioni politiche della Turchia, il governo greco voleva chiudere il campo, ma centinaia di residenti avevano opposto resistenza. In seguito, lo Stato greco aveva ritirato tutti i servizi, abbandonando il campo a se stesso. Da quel momento in poi, il campo era stato completamente autonomo. I residenti si erano organizzati collettivamente e condividevano le responsabilità per la pulizia, la cucina, l’assistenza medica di base, le riparazioni e la distribuzione delle donazioni – come cibo, prodotti per la pulizia e l’igiene e vestiti -, fornite da vari enti di beneficenza, ONG, filantropi e gruppi di solidarietà che visitavano spesso il campo.

Negli ultimi anni, soprattutto in seguito alla rivoluzione del Rojava nel nord e nell’est della Siria dopo il 2012, il movimento curdo ha goduto di un’attenzione e di un sostegno crescente da parte della comunità internazionale – specie in Grecia. Come il campo profughi di Maxmûr in Iraq, in Medio Oriente 5, il campo di Lavrio era diventato un centro del confederalismo democratico in Europa: in esso veniva attuato il modello dell’auto-organizzazione basato sull’auto-liberazione delle donne, la democrazia di base e l’ecologia praticata nell’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale (Rojava). Talvolta il campo di Lavrio era stato visto come una miniatura del Rojava; aveva acquisito un’importanza internazionale come centro di nuove connessioni transnazionali e come luogo di formazione e pratica politica – il tutto costruito da una lotta rivoluzionaria ultra-quarantennale in Kurdistan e dall’organizzazione politica esule [in Grecia].

Per quattro decenni, il campo di Lavrio non è stato solo uno spazio di rifugio ma anche un centro di organizzazione politica curda e di sinistra, di collegamenti internazionali, cameratismo e incontri interculturali. Ogni anno, il campo di Lavrio ospitava le celebrazioni del Newroz (21 Marzo), il capodanno di diversi popoli dell’Asia occidentale [; per i curdi] è una festa [che celebra] la resistenza e il rinnovamento. All’evento in questione venivano i rifugiati, i greci e la gioventù internazionale che si univano – letteralmente e attraverso i govend, le tradizionali danze circolari curde -, in un cerchio di riconoscimento e solidarietà reciproca.

Una celebrazione del Newroz il 21 Marzo 2022. Ogni anno, centinaia di rifugiati politici curdi e turchi in Grecia, greci del posto e visitatori internazionali si sono uniti alla celebrazione del Newroz nel campo di Lavrio, ballando intorno al falò. Foto: Beja Protner, Marzo 2022.

Come lo sgombero di decine di squat auto-organizzati in tutta la Grecia, la decisione del governo di Nuova Democrazia di distruggere il campo di Lavrio costituisce un tentativo di eliminazione della solidarietà transnazionale – che il luogo rappresentava e ospitava. Allo stesso tempo, è stato un attacco alla storia rivoluzionaria del campo stesso. Gli edifici del campo avevano quasi un secolo di vita; ogni centimetro portava le tracce della determinazione rivoluzionaria, del lavoro comunitario e del cameratismo tra le decine di migliaia di persone che erano passate e cresciute in questo luogo e che avevano partecipato alla sua riparazione – trasformandolo in una casa per sé e per i loro successori. Con la distruzione del campo di Lavrio, una parte di questa storia collettiva viene deliberatamente cancellata.

Continua nella Seconda Parte

Note

1 In “Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil “(1963), Hanna Arendt ha discusso della “banalità del male” nell’Olocausto, partendo dal caso dell’ufficiale nazista Adolph Eichmann, responsabile del trasferimento delle persone nei campi di concentramento. Con il concetto di “banalità del male”, Arendt ha sostenuto che i burocrati partecipanti alle atrocità sono “persone normali” e lavorano all’interno di un sistema ordinato, svincolati dalle conseguenze delle loro azioni e, quindi, non intrinsecamente malvagi e/o sadici.

2 Öcalan, Abdullah (2020). The Sociology of Freedom: Manifesto of the Democratic Civilization, Volume III. Oakland, CA: PM Press.

3Dirakis, Yannis (2019). “Claiming the right to the camp – An ethnography of the squatted Lavrio Center of Temporary Stay for Foreign Asylum Seekers” Unpublished master’s thesis. Maastricht: Maastricht University.

4Ibidem

5Vedere Dirik, Dilar (2022). “Mexmûr: From displacement to self- determination (Ch. 23).” In The Kurdish Women’s Movement: History, Theory, Practice. London: Pluto Press

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