Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Ottava Parte

Settima Parte

Le campagne in autogestione. Braccianti e contadini
È stata definita «la obra constructiva de la revolución» l’esperienza delle migliaia di collettività rurali che dall’Aragona all’Andalusia orientale, dal Levante alla Castiglia del sud, hanno fornito una quota importante della produzione agricola durante la guerra. Qualche dato concreto rende l’idea della dimensione e della qualità del fenomeno collettivista nelle campagne. Secondo i dati forniti da ambienti vicini ai collettivisti, considerati però con cautela da certi storici, le aziende agrarie collettivizzate si aggirano attorno alle 1.500 unità per un totale stimato in circa un terzo di tutti gli abitanti delle zone rurali non conquistate, almeno per alcuni mesi, dai golpisti [17] . I dati assoluti e le percentuali logicamente variano a seconda del periodo considerato, tenendo conto che con la caduta del nord (estate 1937) la popolazione attiva repubblicana si riduce da 6.000.000 a 5.000.000. Nel complesso le unità collettivizzate che fanno esplicito riferimento alla CNT sono circa il doppio di quelle che fanno riferimento alla UGT , senza tener conto delle situazioni miste. La UGT prevale in Andalusia e Castiglia-La Mancha (in entrambe ha circa il 60%), mentre la CNT conta più adesioni nel País Valenciano (l’80%), in Aragona (il 90%) e in Catalogna (il 95%).

È difficile stimare la percentuale di terra coltivata in regime di collettività per mancanza di dati attendibili ed è arduo anche valutare il grado di volontarietà nella loro formazione. Un certo livello di spontaneità si può intuire nell’adesione di braccianti o di contadini poveri che avevano un preciso interesse a emanciparsi dallo sfruttamento dei proprietari medi e grandi. La questione è più incerta per i proprietari autosufficienti, che avevano dei vantaggi concreti nell’utilizzo delle strutture tecniche a disposizione dei collettivisti, ma non potevano assumere dipendenti, né stagionali né stabili, com’erano abituati a fare fino a quel momento.

Inoltre, specialmente per l’Aragona, molti storici fanno notare che la presenza delle milizie confederali, per lo più catalane, spingeva verso la collettivizzazione, il sistema che più si avvicinava al «comunismo libertario» preconizzato dalla CNT , anche nel recente congresso di Saragozza. Peraltro, il fatto che nella cittadina di Caspe – sede del Consejo de Aragón, che disponeva di un potere politico quasi assoluto sulla regione – la percentuale delle aziende collettivizzate fosse molto bassa indica che le pressioni delle colonne armate non erano così pressanti come talora si afferma. Qual era il funzionamento delle collettivizzazioni rurali? È doverosa la premessa sull’inesistenza di un unico modello di riferimento, sia per la natura diversa delle zone dove si sperimentavano, sia per la composizione variabile delle organizzazioni sindacali che le sostenevano, sia per la stessa fisionomia non omogenea ma pluralista del nuovo metodo produttivo e sociale. In generale era l’assemblea del villaggio, o dei lavoratori, a decidere la messa in comune delle terre, a partire da quelle appartenenti a persone assenti, fuggite, espropriate o addirittura uccise durante le giornate attorno al 18 luglio 1936 in quanto simpatizzanti per il golpe. Si è calcolato che circa il 40% delle terre disponibili sia stato espropriato dal governo e, di questo, poco più della metà sia stato effettivamente collettivizzato [18] .

Dal punto di vista operativo, veniva nominato un Comité che, in riunioni aperte, esercitava una verifica giornaliera sulle attività svolte, e questo dopo l’orario di lavoro: i coordinatori non disponevano, in linea di principio, di alcun privilegio rispetto ai coordinati. La ripartizione degli incarichi era concordata nelle assemblee o con il Comité, e nelle riunioni plenarie della popolazione si decideva come far funzionare la distribuzione dei beni prodotti e di quelli giunti sulla base degli scambi con altre realtà simili. Di norma i generi di prima necessità erano distribuiti senza particolari controlli, in omaggio al principio della «presa nel mucchio» in base alle proprie necessità. Quando si presentava una situazione di carenza, si procedeva con il metodo della cartella indicante le quantità e qualità dei beni prelevati dal magazzino comune, determinate in proporzione ai componenti del nucleo familiare.

In certi casi il denaro, considerato inutile e pericoloso per il possibile ricrearsi di nuove disuguaglianze, era stato abolito e sostituito da una serie di vales, buoni intrasferibili che davano diritto a fornirsi nei depositi della collettività cui erano destinati i prodotti della coltivazione e degli scambi. In generale la collettività si preoccupava di acquisire mezzi meccanici per ridurre gli sforzi lavorativi e cercava di soddisfare anche le attività di svago, di socializzazione e i bisogni culturali, dalla musica in piazza ai balli, dal cinema alla biblioteca. Era il nucleo delle Juventudes Libertarias che spesso creava le occasioni di incontro conviviale e culturale. La partecipazione allo sforzo bellico veniva sostenuto con la fornitura di generi alimentari o prodotti della terra alle colonne miliziane più vicine o ai reparti militari nei quali erano presenti giovani della comunità.

Un episodio, raccolto da Abel Paz nel libro delle sue memorie dedicato agli anni dal 1936 al 1939, rivela in modo eloquente il non facile passaggio dalla mentalità del proprietario a quella del collettivista. Uno dei militanti più convinti della messa in comune delle sementi, degli attrezzi e degli animali si alza nel cuore della notte ed esce di casa senza fare rumore. Abel ricorda di averlo seguito di nascosto. L’uomo entra nella stalla, si avvicina a un cavallo, lo accarezza e gli parla. Spiega poi al giovane barcellonese venuto dalla città per conoscere le collettività rurali che l’animale fa sì parte del patrimonio collettivo, ma è rimasto il «suo» cavallo, verso il quale mantiene un’attenzione particolare [19] .

L’esempio collettivista analizzato con maggior attenzione è quello di un villaggio del basso aragonese, nella provincia di Teruel: Cretas. Su questo caso gli autori hanno svolto ricerche pluriennali raccogliendo sia fonti scritte che orali, e la ricostruzione effettuata è tra le migliori quanto a definizione dei problemi e delle soluzioni dei collettivisti [20] . Un episodio delinea, forse meglio di tante analisi, la questione della violenza e della tolleranza nel piccolo centro collettivizzato (1.600 abitanti), nel quale, dopo gli scontri iniziali, anche il medico reazionario è accettato per la sua indispensabile professione. Questi si rivela però troppo generoso con i suoi amici di destra a proposito di ricette e di permessi di uscita dal territorio comunale, e per dargli un messaggio chiaro un miliziano armato si mette a fare la fila nella sala d’attesa. Si ricorre cioè a un tipo di minaccia che ricorda più l’astuzia popolare che un potere istituzionale.

Logicamente non si tratta del «paradiso in terra» [21] , come si esprime con sarcasmo uno storico accademico, e non mancano i conflitti e le carenze, la disorganizzazione, e perfino un certo egoismo delle collettività più ricche verso le più povere. Inoltre, la leva obbligatoria costringe molti giovani, i più decisi nella sperimentazione della nuova realtà semiutopica, a vestire la divisa e a partire per il fronte. Ciò comporta che la terra è coltivata solo dagli anziani e dalle donne e, data la scarsa meccanizzazione, la produttività si riduce.

Talvolta gli stessi sostenitori della collettivizzazione entrano in conflitto tra loro sul ruolo degli organi collettivisti e delle sezioni sindacali oppure del Comité Revolucionario, sorto piuttosto per motivi di lotta armata. Sullo sfondo, il governo repubblicano cerca di seguire una tattica tesa a riprendere il controllo della produzione e toglierla alle strutture locali, decentrate e quasi autonome. Così il 7 ottobre 1936 il ministro dell’Agricoltura, il comunista Vicente Uribe, emana un decreto che al contempo legalizza le collettività esistenti, stabilisce le norme per quelle da costituire e affida compiti di supervisione all’Instituto de la Reforma Agraria, sua diretta emanazione. Questo riconoscimento giuridico, che in teoria può tranquillizzare il movimento collettivista più o meno legato alla CNT e all’ UGT , istituisce però meccanismi di controllo istituzionale in grado di rioccupare gradualmente quegli spazi sottratti all’iniziativa statale, anche in vista di un futuro possibile intervento di tipo meno conciliante.

In una regione ad agricoltura ricca come il Levante, dove si producono le migliori arance che si esportano in grandi quantità, la collettivizzazione comporta anche il tentativo di gestire in proprio, attraverso il Consejo Levantino Unificado de Exportación Agrícola ( CLUEA ) fondato da CNT e UGT , il ricco flusso di valuta straniera che, malgrado la guerra in corso, arriva dai mercati europei. All’inizio il governo tollera questo organismo in quanto non riesce, per un rapporto sfavorevole di forze, a ridurne l’importanza e l’autonomia. Ma già nell’ottobre 1936, su spinta dei comunisti, si fonda un organismo alternativo al CLUEA basato sull’adesione dei piccoli proprietari e dei mezzadri valenzani che in passato avevano aderito al sindacato cattolico, ora sciolto. Nel settembre del 1937, approfittando della svolta del maggio 1937, il governo dà vita alla Central de Esportación de Agrios ( CEA ), dipendente dal ministero dell’Economia, senza la minima partecipazione di esponenti della CNT – FAI.

È questa una delle tappe del processo di esautoramento del potere rivoluzionario e sindacale da parte dei partiti repubblicani tra i quali cresceva il peso del PCE – PSUC , contrari fin dall’inizio a una rivoluzione sociale con la motivazione che un cambiamento così radicale fosse sbagliato, se non addirittura opera di provocatori. L’obiettivo principale della lotta contro i golpisti avrebbe dovuto infatti essere quello di sconfiggerli militarmente per realizzare una Spagna democratica e antifascista. A questo scopo bisognava non spaventare le democrazie occidentali e seguire invece la politica estera dell’ URSS , impegnata a creare alleanze con la Francia e le altre democrazie occidentali. Il fronte che si opponeva alle collettivizzazioni, sia rurali che industriali, riteneva che nella battaglia antifascista fosse essenziale per le forze proletarie ottenere un’alleanza con la borghesia progressista, e perciò occorreva garantire i suoi interessi economici e rinviare a un tempo futuro ogni profonda innovazione delle strutture produttive.

Il passaggio dalle forme di legalizzazione a quelle più rigide di controllo avviene gradualmente, ma non in modo indolore. Ne è un esempio significativo ciò che succede nel villaggio catalano di La Fatarella nel gennaio 1937. Il paese viene considerato poco fidato dai rivoluzionari in quanto la destra ha raccolto in passato ampi consensi elettorali.

Qui vige un’economia rurale povera fondata sulla piccola proprietà e la mezzadria, mentre la miseria assilla i braccianti senza terra. Sono appunto questi ultimi i fautori decisi della collettivizzazione, la quale migliora il loro livello di vita, ma spaventa la maggioranza delle famiglie, che boicotta l’esperimento collettivista. Le tensioni si aggravano e in difesa del nuovo organismo giungono dai dintorni varie centinaia di miliziani che trovano una risposta armata da parte dei contadini, per lo più piccoli proprietari anticollettivisti entrati da poco nella UGT per limitare la forza della CNT . Due miliziani sono uccisi, ma poi gli abitanti del paese si arrendono. Le milizie vittoriose definiscono fascisti e quintacolumnistas gli oppositori armati e ne fucilano una trentina. A questo evento fa seguito l’arrivo di forti contingenti della polizia repubblicana che disarmano i miliziani, sciolgono la collettività e affidano la terra sequestrata a nuovi proprietari simpatizzanti della Esquerra Republicana de Catalunya, il partito di Companys ormai divenuto egemone attraverso l’alleanza con il PSUC . Il «ristabilimento dell’ordine» sembra mettere a tacere il conflitto che, in certa misura, anticipa i gravi eventi del maggio barcellonese.

Le industrie in mano agli operai

Le collettività industriali hanno una fisionomia alquanto diversa da quelle rurali. Esse si sviluppano quasi solo a Barcellona, centro produttivo e sede del potere politico catalano. Qui il modello seguito è comunque differenziato a seconda delle dimensioni dell’impresa, e il controllo della Generalitat si fa sentire molto presto. Il coordinamento spetta a un nuovo organismo, creato già l’11 agosto del 1936, ovvero il Consejo de Economía della Generalitat che emana la nuova normativa su produzione e scambi. Vi sono rappresentate tutte le tendenze del fronte antifascista in un’unità di facciata dai tratti contraddittori. Sui quindici membri, i due sindacati e la ERC hanno tre delegati ciascuno, la FAI ne ha due e gli altri uno: da Acció Catalana a Unió de Rabassaires (un sindacato rurale che difende i viticultori), dallo stalinista PSUC all’antistalinista POUM . Questa convergenza di tutte le formazioni catalane anticipa quanto avverrà il mese dopo nella costituzione del governo della Generalitat e, in novembre, nel governo della Repubblica.

Dopo lunghe e accese discussioni, il Consejo trova un accordo e decide di seguire due modelli: la collettivizzazione per le aziende con più di 100 operai, il controllo operaio per quelle più piccole. La ERC , espressione della piccola e media borghesia catalanista, e il PSUC appoggiano la limitazione della collettivizzazione alle sole imprese con più di 250 operai, coerente con la linea del PCUS volta a rassicurare le democrazie borghesi. Questo dato è molto significativo in quanto buona parte delle entità industriali è di medie dimensioni e così resterebbe escluso. Il decreto relativo è emanato il 24 ottobre e prevede numerosi interventi regolatori dell’economia catalana, al punto che alla caduta di Barcellona, il 25 gennaio del 1939, una parte importante non è stata ancora stata applicata.

La collettivizzazione regola la produzione di circa 2.000 imprese, mentre quelle a controllo operaio sono circa 4.500 [22] . I settori collettivizzati sono i più disparati: dal tessile allo spettacolo, dalla metallurgia alla chimica, dall’edilizia ai servizi. Un passo ulteriore viene realizzato nel settore del legno, dove si attua la socializzazione, cioè l’unione tra le varie fasi del ciclo produttivo, in questo caso dal bosco al mobile. Si pongono comunque alcuni problemi assillanti per l’industria catalana. Non è facile far funzionare l’apparato produttivo con i pochi tecnici che aderiscono alla nuova realtà, nella quale in teoria vige l’egualitarismo: dal responsabile della produzione fino all’addetto alle pulizie, i lavoratori dovrebbero ricevere lo stesso stipendio. In realtà i salari si diversificano per incentivare la collaborazione indispensabile dei tecnici alla nuova realtà. Qui si tocca con mano la difficoltà di concretizzare una nuova società economicamente sviluppata partendo da quella capitalista, nella quale è considerevole la divisione tra lavoro intellettuale direttivo e lavoro manuale esecutivo. L’utopia egualitaria deve tener conto degli ostacoli costituiti dalla prolungata divisione gerarchica dei lavoratori. Qualcosa del genere succede nella flotta militare in cui, dopo il 18 luglio 1936, gli equipaggi repubblicani hanno eliminato gli ufficiali filogolpisti e si ritrovano con una nave, in pratica un’industria galleggiante, di cui sanno gestire solo alcune piccole manovre. E le navi resteranno per lo più inattive.

Talvolta nel Comité di gestione della singola impresa entra l’antico direttore o proprietario con incarichi di responsabilità, anche se sotto controllo operaio, in attesa di tempi migliori. I rapporti economici e finanziari con i fornitori di materie prime e i mercati di consumo dei prodotti finali risentono ovviamente della guerra. Dall’estero, con cui bisogna scambiare merci con valuta, spesso le forniture vengono bloccate o rallentate e ridotte. I consumatori spagnoli, ai quali è destinata buona parte della produzione tessile, sono via via sempre più irraggiungibili. A Barcellona si crea, quasi dal nulla, l’industria di guerra della Repubblica trasformando la produzione di varie fabbriche metallurgiche, con notevoli costi sul piano organizzativo e dell’autogestione.

Il trasferimento a Barcellona del governo Negrín, nell’ottobre 1937, comporta un aumento prevedibile del controllo governativo sulle industrie di guerra, che vengono nazionalizzate e tolte al controllo operaio o alla Generalitat.

Sul terreno delle condizioni di lavoro, le collettività cercano di unificare varie piccole unità produttive, ritenute antieconomiche, in entità di maggiori dimensioni. In questo passaggio si dà notevole attenzione al miglioramento della situazione sanitaria sui luoghi di produzione, all’aumento della specializzazione e, nei limiti del possibile, alla modernizzazione dei metodi produttivi, nonché alla semplificazione e centralizzazione amministrativa. Talora la ristrutturazione porta a un aumento degli orari di lavoro per usare al massimo il macchinario disponibile, e ciò comporta una serie di reazioni operaie che il Comité Sindical riesce solo in parte a rappresentare. In diversi casi si assiste a forme di resistenza, soprattutto della manodopera meno qualificata, che esprimono in questo modo un dissenso di base ai nuovi ritmi lavorativi [23] .

Pur con tutti i limiti e le contraddizioni esposte, l’esperimento collettivista catalano dà risultati positivi, soprattutto se si tiene conto dell’eccezionale serie di ostacoli che ha dovuto affrontare. Non di secondaria importanza è la diffidenza del governo centrale, tramutata dopo il maggio 1937 in aperto boicottaggio, in particolare nel delicato campo finanziario. Malgrado tutto, la produzione non solo raggiunge livelli crescenti, ma molte industrie conoscono miglioramenti tecnici. Paradossalmente, diversi padroni, ad esempio quelli del centro tessile di Sabadell [24] , che nel febbraio 1939 tornano in possesso delle imprese, a seguito della vittoria franchista in Catalogna, riconoscono di aver trovato lo stato degli impianti migliore di come lo avevano lasciato nel luglio 1936.

Al di là delle questioni di efficienza produttiva, l’analisi dell’esperienza collettivista industriale in Catalogna deve considerare l’ambizioso progetto ideale e politico cui si è ispirata: il «comunismo libertario». Si tratta del più ampio tentativo storico di mettere in pratica un sistema produttivo alternativo sia a quello capitalista, sia a quello del socialismo di Stato.

Fine IV Capitolo

Continua…

Note al capitolo
[17] F. Mintz, Autogestión y anarcosindicalismo en la España revolucionaria, Traficantes de sueños, Madrid, 2006, pp. 143-145.
[18] J. Casanova, De la calle…, cit., p. 199.
[19] In forma lievemente diversa in A. Paz, Spagna 1936. Un anarchico nella rivoluzione, Lacaita, Manduria, 1996, p. 196.
[20] E. e R. Simoni, Cretas. Autogestione nella Spagna repubblicana (1936-1938), La Baronata, Lugano, 2005.
[21] J. Casanova, De la calle…, cit., p. 198.
[22] P. Pagès, Cataluña en guerra y en revolución, Espuela de plata, Sevilla, 2007, pp. 141-142.
[23] M. Seidman, A ras de suelo, Alianza, Madrid, 2004, passim.
[24] A. Castells, Les col .lectivitzacions a Barcelona 1936-1939, Hacer, Barcelona, 1993, pp. 259-260. Dello stesso autore osservazioni sul difficile rapporto tra istituzioni e collettività industriali catalane in Desarrollo y significado del proceso estatizador en la experiencia colectivista catalana (1936-1939), Nossa y Jara-Madre Tierra, Barcelona, 1996.

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Settima Parte

Sesta Parte

Membri di Mujeres Libres. Fotografia realizzata dalla Federación Local de Mujeres Libres di Barcellona. Da sinistra a destra: Conchita Liaño, Eugenia, Jacinta Escudero, María Carrión, Mercedes Comaposada, Juanita Storach, Pura Pérez, Felicidad, Suceso Portales, Felisa Castro, Lucía Sánchez Saornil, Encarnación Navarro, Apolina de Castro, Mª Teresa Hernández e Soledad Storach.

Mujeres Libres: l’avvio di una nuova società liberata

Mujeres Libres (ML) è la forma organizzata più importante che assume il processo di liberazione femminile all’interno della prospettiva anarchica. Già ai tempi della Prima Internazionale, il congresso di Saragozza del 1872 aveva dichiarato l’importanza della donna nell’impegno rivoluzionario e libertario. Due risoluzioni della sezione spagnola dell’Internazionale erano eloquenti:

[…] la donna è un essere libero e intelligente e come tale responsabile dei propri atti, così come l’uomo; poiché questo è un dato di fatto è necessario metterla in condizioni di libertà affinché sviluppi le proprie facoltà. E ancora: Se si relega la donna esclusivamente alle faccende domestiche, la si sottomette alle dipendenze dell’uomo, e pertanto ciò significa toglierle la propria libertà [8] .

Le dichiarazioni di principio e l’affermazione che l’indipendenza economica è un elemento prioritario per l’emancipazione non bastano a risolvere il problema della partecipazione marginale delle donne al movimento nel suo complesso. Per questo motivo si apre, durante la Seconda Repubblica, un dibattito sul tipo migliore di organizzazione per facilitare la presenza e la visibilità femminile. La maggioranza degli interventi sostiene che sia sbagliata la formazione di una struttura di sole donne in quanto l’unica via per la emancipazione passerà, come per gli uomini, attraverso una rivoluzione sociale che avrebbe permesso a tutti e a tutte di vivere liberi e libere. Tale è, ad esempio, la posizione di Federica Montseny, la militante più nota. Un insieme di gruppi, a Madrid e a Barcellona, dichiarano invece l’utilità di un’organizzazione separata, autonoma e specializzata. Perciò nasce, nell’aprile 1936, il movimento Mujeres Libres ( ML ) e una rivista omonima. Di questa escono irregolarmente tredici numeri, di cui l’ultimo nell’autunno del 1938, in un momento in cui le speranze di vittoria bellica si sono ridotte di molto o sono scomparse del tutto.

In parte ML , che non raccoglie comunque tutte le militanti anarchiche, trova una propria base di riferimento nella lunga tradizione del movimento libertario che valorizza le potenzialità dei singoli per «agire al di fuori di ogni coercizione e gerarchia» [9] . L’opzione verso l’autonomia organizzativa, che si fonda su una scelta separatista, pur senza definirsi femminista, è vista con poco favore da molti attivisti e leader della CNT – FAI . L’omogeneità e la coerenza con i principi dell’anarchismo organizzato e, al tempo stesso, la volontà di critica e di parziale rottura segnano la storia delle ML dal 1936 al 1939. Il loro piano di azione è chiaro fin dall’inizio e si può riassumere in due parole chiave: capacitación e captación.

Il primo concetto, al quale corrisponde l’inglese empowerment, si riferisce all’autoformazione delle aderenti che partecipano a corsi teorici e pratici di attività libertaria. In tal modo ci si propone di mutare le tiepide simpatizzanti con qualche idea libertaria in attiviste convinte e preparate, cioè in grado di promuovere e organizzare altri gruppi di donne. È una forma particolare di «lavoro politico» su se stesse volto a potenziare le capacità innate inserendole in un più ampio contesto sulla base di una maturazione sia psicologica che professionale. Il secondo termine rinvia invece al tradizionale proselitismo che, logicamente, non vale solo per le organizzazioni libertarie femminili.

Malgrado la considerevole novità del progetto, per così dire anarco-femminista, occorre tener conto che le ML seguono un filone teorico per vari aspetti tradizionale. Ad esempio accettano la «natura femminile» e non mettono in discussione i ruoli di genere e la relativa divisione del lavoro che è all’origine di molte situazioni di emarginazione. In altri ambiti libertari, in Spagna e in Francia, si è già aperta una discussione sui modelli familiari e sul controllo delle nascite, temi che non paiono affrontati da ML .
Tra le esponenti di punta si possono citare alcuni casi significativi.
Ad esempio Mercedes Comaposada che, pur essendo andata a lavorare in fabbrica a dodici anni, si dedica tenacemente agli studi e riesce a diventare avvocata, mettendo così al servizio del movimento libertario la propria attività professionale. O ancora Lucía Sánchez Saornil, prima impiegata e poi scrittrice e poetessa, che diventa segretaria della Federación Nacional de Mujeres Libres. Entrambe hanno insegnato nei corsi di istruzione elementare per operai e operaie, promossi dalla CNT di Madrid nei primi anni Trenta, e insieme decidono di tenere corsi separati per donne allo scopo di evitare che i pregiudizi e la misoginia penalizzino l’apprendimento femminile. A esse si unisce Amparo Poch, una delle prime donne laureate in medicina nella storia spagnola, che si impegna a diffondere la coscienza delle caratteristiche peculiari della vita sessuale femminile.
A Barcellona, negli stessi anni, muove i primi passi un gruppo culturale femminile interno alla CNT che cerca di favorire, con soluzioni concrete, la partecipazione delle donne alle attività sindacali. Così nascono gli asili a domicilio per le madri che intendono partecipare alle assemblee e alle riunioni degli organi sindacali catalani. Nella metropoli mediterranea agiscono donne intraprendenti come la maestra razionalista Pilar Grangel o la più giovane Concha Liaño, particolarmente sensibile al recupero della dignità femminile attraverso i Liberatorios de prostitución. Dall’incontro dei gruppi delle due città più importanti sorge la Federación Nacional de Mujeres Libres ( ML ) sulla base di affinità di vedute e volontà di collaborazione. Lo statuto della federazione precisa che la finalità è di «rendere capace la donna e di emanciparla dalla triplice schiavitù alla quale è stata e continua a essere sottomessa: schiavitù dell’ignoranza, schiavitù di donna e schiavitù di lavoratrice» [10] .

Per quanto decisamente schierata per la parità completa tra i sessi, ML accetta il ritiro delle miliziane dal fronte a partire dall’autunno 1936. Le motivazioni rimandano a un’asserita maggiore capacità delle donne nelle mansioni di retrovia, dall’assistenza alla cura, al loro scarso addestramento militare e ai pericoli di malattie veneree derivanti dalla presenza di prostitute. Le Brigadas de Trabajo sono la cornice nella quale vengono organizzati, su basi autogestite, i gruppi di ML , i quali prepareranno centinaia di donne ad assumere lavori tradizionalmente svolti dagli uomini, dalla metallurgia alla conduzione dei mezzi pubblici.
Per quanto riguarda la guerra e la propaganda bellica, le donne libertarie organizzate si orientano verso la diffusione di parole d’ordine non facili come quella di «guerra pacifista». A tal proposito affermano:

Lottiamo proprio per la pace nel mondo, perché lottiamo contro il fascismo che fa della guerra la sua dottrina, la sua tattica, il suo mezzo potente di ricatto internazionale [11].

Il rigetto di stereotipi militaristi, sessisti e razzisti è ben presente nella propaganda di ML che critica apertamente slogan come «Madrileni, non permettete che le vostre donne siano violentate dai mori!».
Tale appello propagandistico agli istinti primordiali è considerato inaccettabile, così come la riduzione della donna a pura vittima passiva e non più soggetto attivo della lotta in corso. Nel dicembre 1936 si ribadisce al combattente libertario che «la guerra per la guerra è una mostruosità: tieni sempre presente che se combatti è per un’idea» [12] .

Un altro punto caratteristico riguarda l’educazione dei bambini e delle bambine, insieme all’impegno a proteggerli dai danni morali e materiali del conflitto in corso. Contro le spinte verso la militarizzazione dell’infanzia si proclama che «i bambini non possono, né devono essere cattolici, né socialisti, né comunisti, né libertari. I bambini devono semplicemente essere ciò che sono: bambini» [13] .
Nell’ottobre 1938, ML presenta al Plenum che si tiene nella capitale catalana la richiesta di aderire al Movimiento Libertario. L’intenzione è di essere considerata la quarta componente del movimento, oltre a CNT , FAI e FIJL , pur mantenendo una certa autonomia necessaria per aprire le proprie fila alle donne sensibili, ma non ancora schierate ideologicamente. La richiesta viene respinta in quanto si ritiene che un movimento di sole donne sia incompatibile con il modello organizzativo anarchico, che prevede l’eguaglianza tra i sessi. Malgrado ciò, ML può contare sulla solidarietà di vari gruppi locali della CNT e di alcuni organi di stampa per continuare a pubblicare la rivista e a svolgere i tanti impegni assunti.

In un bilancio di questo originale movimento bisogna valutare il fatto che, oltre alla formazione delle militanti, la sua azione consisteva nell’educazione e nell’assistenza e appoggio allo sforzo bellico. In tale ambito sembra – stando alle fonti non troppo abbondanti, per lo più di provenienza interna – che gli obiettivi siano stati raggiunti. La creazione di una sorta di «donna nuova», cosciente e decisa, preparata e protagonista, è di difficile stima quantitativa, ma vari studi ritengono che si possa valutare un’adesione tra le 20.000 e le 30.000 partecipanti. In ogni caso la cornice della guerra, scoppiata a pochi mesi dalla nascita del movimento, nonché la breve durata dell’esperienza, traumaticamente interrotta dalla vittoria franchista, non permettono di giudicare esattamente il peso, nel complesso non marginale, di ML sulla condizione femminile spagnola.

«Anarcomilitaristi»?
Le riflessioni di Cipriano Mera, favorevole alla militarizzazione come inevitabile «male minore» e logica conseguenza del «circostanzialismo politico» praticato dai vertici della CNT – FAI , partono dall’ennesimo decesso «dei compagni più capaci» per approdare, forse in modo non immediatamente collegabile, alla considerazione che «non potevamo continuare a operare a capriccio», per cui si doveva «porre fine alle azioni disordinate e obbedire a un piano di guerra» [14].

Il limite dell’autodisciplina è ritrovato, dall’esperto attivista sindacale e politico, nell’elementare istinto di sopravvivenza, che non può soggiacere al senso di «responsabilità militante» richiesto dall’Organizzazione (che lui cita spesso con la maiuscola). Gli anarchici spagnoli, dopo decenni di lotte e di preparazione, nel momento delicato e inevitabile della guerra dimostrano di avere «anche troppa volontà», ma poco «senso della realtà». Dopo pochi giorni lo stesso Mera compie un’insubordinazione per realizzare un’operazione da lui ritenuta indispensabile. L’atto di disobbedienza si dirige contro un colonnello, suo superiore, un attendista che viene apostrofato in questi termini:

A lei non interessa vincere la guerra. La guerra non verrà vinta a base di tranquillità, come lei desidera. Se lei vuole vivere tranquillo, chieda di ritirarsi o se ne vada in un ufficio dove il nemico non possa avvicinarsi nemmeno per telefono [15] .

L’urgenza di una scelta adatta alle circostanze belliche si rivela superiore al principio della disciplina, pur invocato da Mera. Eduardo Pons Prades, militante della CNT catalana nel ramo della Madera (legno), oltre che membro del Partido Sindicalista, a 18 anni è già un giovanissimo sottufficiale istruttore, oltre a combattere in varie battaglie con una Brigata Mixta. Com’è prevedibile, nelle sue memorie di guerra, uno dei suoi tanti libri, si qualifica come «soldado de la República» e riproduce spesso la sua fotografia in divisa militare. Anche per lui è scontata l’accettazione della militarizzazione delle milizie [16].

Sicuramente la valutazione di molti altri protagonisti libertari – da José Peirats ad Abel Paz, da Vernon Richards a Gaston Leval – va nel senso opposto: l’aver accettato la militarizzazione è stato un errore enorme, collegato a quello della collaborazione governativa. Non solo non ha rafforzato le formazioni armate della CNT – FAI , ma le ha inserite in un meccanismo istituzionale di tipo tradizionale nel quale il loro margine di autonomia si è ridotto a zero. L’aver ignorato il sentimento antimilitarista della base sindacale e politica ha comportato un indebolimento dell’entusiasmo rivoluzionario, cioè di quell’elemento che avrebbe potuto contrastare il progressivo declino del peso libertario e il deterioramento della situazione spagnola nel suo complesso.

L’ipotesi guerrigliera
Collegato, in qualche maniera, con la questione scottante della militarizzazione è il tema della possibile guerriglia quale metodo più efficace di condurre la lotta armata. A suo favore si schierano, nel dibattito dell’epoca, alcuni esponenti della CNT – FAI tra i quali García Oliver. Vi sono non pochi riferimenti storici, dentro e fuori della Spagna, che rendono credibile tale modello organizzativo e di azione, a partire dai gruppi di popolani che nel 1808 praticarono per primi la guerrilla contro gli invasori francesi (qui nacque lo stesso termine militare, usato per «piccola guerra irregolare»), sconvolgendone i piani di battaglia e costringendoli infine alla ritirata. È inoltre viva la memoria della straordinaria, per quanto perdente, esperienza dei maknovisti in Ucraina, le cui formazioni si dissolvevano nei villaggi rurali dopo lo scontro per ricostituirsi poco dopo prendendo alle spalle il nemico.

L’ipotesi guerrigliera, con azioni di sabotaggio e di attacco dietro le linee franchiste, è affrontata, ma con relativa convinzione, dagli organismi della CNT – FAI durante il 1937. Questa sembra più coerente con i principi e l’identità anarchica in quanto può attribuire alle singole unità una grande libertà di azione e rende meno necessaria e ossessiva la tendenza al comando unico. Oltretutto, l’apertura di una lotta da condurre nelle montagne sarebbe stato il modo concreto per utilizzare a fini bellici le migliaia, o decine di migliaia, di uomini dai sicuri sentimenti antifascisti scappati dai loro villaggi per evitare la repressione e rifugiatisi nelle catene montuose di mezza Spagna. Uno degli obiettivi delle azioni al di là del fronte è quello di liberare i detenuti che sono in attesa del plotone di esecuzione e dar loro la possibilità di partecipare ancora alla lotta. Questa finalità viene raggiunta in un paio di casi, così come si compiono azioni giustiziere contro falangisti particolarmente duri nelle violenze contro i civili dei villaggi occupati. L’iniziativa non pare estranea agli stessi comandi dell’Ejército Popular, che addestra un corpo di guerriglieri, il 14° Battaglione, per questi scopi. È chiaro che si tratta non di una scelta strategica ma di un modesto esperimento inserito nella guerra tradizionale, che si svolge in trincea, con attacchi, difese, avanzate o ritirate in formazioni più o meno massicce.

L’evoluzione della guerra, con le vittorie quasi costanti dell’esercito golpista (la sconfitta, più fascista italiana che franchista, di Guadalajara del marzo 1937 è un’eccezione) spinge i vertici militari e politici repubblicani, che già avevano un progetto simile, verso una ristrutturazione quanto più possibile regolare e tradizionale, cioè completamente militarizzata e con una disciplina gerarchica. Gli stessi organismi della CNT – FAI sembrano poco inclini verso lo sviluppo su larga scala dell’iniziativa guerrigliera e nel giro di qualche mese l’alternativa alla guerra frontale e classica viene accantonata. D’altra parte, l’eventuale frantumazione dei fronti, con lo sconvolgimento totale della vita nelle retrovie, avrebbe inevitabilmente avuto contraccolpi negativi su un altro dei terreni della rivoluzione libertaria: le collettività contadine.

Continua nell’Ottava Parte

Note al capitolo
[8] R. Merighi, Mujeres Libres. Un’esperienza di femminismo libertario, Quaderni di donne & Ricerca, Torino, 2004, pp. 7-8. In ogni caso lo studio di riferimento, per le miliziane e non solo, è M. Nash, Rojas. Las mujeres republicanas en la Guerra Civil, Taurus, Madrid, 1999. Con un’ottica militante femminista, M. Ackelsberg, Mujeres Libres. Attualità delle lotte delle donne anarchiche nella rivoluzione spagnola, Zero in condotta, Milano, 2005.
[9] R. Merighi, Mujeres Libres…, cit., p. 9.
[10] Ivi, p. 20.
[11] Ivi, p. 41.
[12] «Mujeres Libres», XXI Semana de la revolución, dicembre 1936.
[13] L. Sánchez Saornil, Otra vez y mil veces más. ¡Los niños!, in Horas de revolución, Sindicato Único del ramo de la Alimentación, Barcelona, 1937, p. 22.
[14] C. Mera, La rivoluzione armata in Spagna: memorie di un anarcosindacalista, La Fiaccola, Ragusa, 1978, p. 50.
[15] Ivi, p. 51.
[16] E. Pons Prades, Un soldado de la República, G. Del Toro, Madrid, 1974.

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Sesta Parte

Quinta Parte

De la calle al frente

Le milizie sorgono quasi spontaneamente come risposta immediata al golpe. Il riferimento è spesso al sindacato, ovviamente in primis la CNT , ma anche al quartiere o al villaggio. Che sia basato sull’esperienza di lotte e rivendicazioni, spesso violente, attorno al tema del lavoro o fondato sull’intesa fra militanti e simpatizzanti radicati sul territorio, il funzionamento del gruppo miliziano poggia su un dato essenziale: la conoscenza e la stima reciproca dei partecipanti che, in condizioni di sostanziale eguaglianza, riconoscono in uno di loro, e temporaneamente, il più adatto a organizzare e condurre le operazioni militari.

Non sono nuove le milizie nella storia contemporanea spagnola, anzi. I movimenti liberali e progressisti del primo Ottocento, nei quali l’iniziativa armata era tutt’altro che secondaria, avevano dato vita a formazioni miliziane pronte a difendere le conquiste democratiche e anticlericali, soprattutto nelle città più avanzate, da Barcellona a Valencia e Madrid. Spesso sono le milizie cittadine che (ad esempio in Catalogna nel 1835) difendono i centri urbani più liberali dagli attacchi delle truppe carliste, le quali sostengono, oltre a una questione dinastica, il modello di un potere teocratico, antimoderno e antiurbano.

Talvolta con il nome di Voluntarios de la Libertad appaiono anche nella vicenda di Amedeo di Savoia, el rey efímero, che nel 1871 e per poco più di due anni ebbe l’imprudenza di sedere sul trono spagnolo.

Dall’altra parte della barricata, quella dei ceti ricchi e conservatori, si schierano formazioni civili di «cittadini dell’ordine» (chiamati, sempre nella Catalogna ottocentesca, Sometent) che affiancano l’apparato repressivo statale nella lotta alle agitazioni operaie. Esse anticipano altre squadre che, in epoca successiva, difenderanno armi alla mano la struttura gerarchica messa in forse dai movimenti popolari e antiautoritari. Se la prova del fuoco del luglio 1936 nelle strade e piazze di Barcellona segna indubbiamente un trionfo, anche se non esclusivo, del modello miliziano, il discorso si fa diverso e più complicato quando dalla città catalana partono le colonne, in buona parte confederali, per battersi sul fronte aragonese. L’obiettivo ambizioso è di liberare Saragozza e occupare la Navarra carlista per congiungere il nord-est repubblicano, con le industrie meccaniche catalane, al nord-ovest delle Asturie e dei Paesi Baschi che dispongono di industrie siderurgiche e di importanti risorse minerarie. La speranza di occupare una fascia di territorio vasto e dall’economia complementare e solida alimenta la spinta dei rivoluzionari catalani e dei loro compagni aragonesi.

A questo punto, però, quello slancio che era stato risolutivo nei vicoli e negli spazi urbani della capitale catalana deve fare i conti con un contesto molto diverso. La mentalità miliziana, ben ricordata da resoconti di testimoni oculari, vorrebbe che l’avanzata verso Saragozza non si fermasse, che continuasse giorno dopo giorno. Ma di fronte, nella città aragonese fortificata e in centri simili come Huesca, non si trova a combattere un insieme di truppe poco fidate per i ribelli come quelle che in parte avevano disertato a Barcellona. Qui non ci sono incertezze nei comandi degli ufficiali assediati, compatti nel dirigere le operazioni, e oltretutto si evidenzia la sproporzione di armi e munizioni fra miliziani ed esercito golpista. L’impossibilità a proseguire nell’attacco, appresa a costo di gravi perdite umane, costringe a consolidare le proprie posizioni di fronte al nemico con lo scavo di trincee, la preparazione di rifugi, la stabilizzazione del fronte. Nella cornice descritta solo una potente fornitura di armi moderne, dagli aerei all’artiglieria, potrebbe far capitolare i golpisti assediati, mentre gli armamenti leggeri in dotazione delle milizie possono al più battere gli avversari in piccoli episodi, per quanto importanti sul piano morale e psicologico.

La stessa Colonna Durruti, la più fornita di mezzi bellici fra le formazioni anarchiche schierate in Aragona (accanto a quelle del POUM , del PSUC e dei catalanisti), risente dell’inferiorità tecnica. La CNT – FAI ricerca armi e munizioni a livello internazionale attraverso un’apposita Comisión de Compras de Armas, ma con pochi risultati, anche per il sabotaggio messo in campo da politici come Negrín e Prieto che controllano ministeri chiave quali le Finanze e la Guerra. È appunto questo uno dei problemi che consigliano, quasi impongono, la presenza libertaria ai massimi livelli statali. Quanto utile sia l’ipotesi di rafforzare milizie e collettività occupando dei posti ministeriali sarà al centro di valutazioni contrastanti.

Per seguire le vicende di Durruti, un mito vivente per molti combattenti e simpatizzanti libertari, va ricordato che resta al comando della propria formazione anche dopo aver accettato, sia pure malvolentieri, la militarizzazione. In realtà non ricopre mai il grado di generale corrispondente alle sue funzioni, ma accetta le conseguenze della decisione governativa. Ai primi di novembre del 1936 le truppe di Franco sono alle porte di Madrid e si teme che, da un momento all’altro, la capitale cada in mano ai ribelli. In quei giorni si forma il secondo governo di Largo Caballero esteso alla CNT – FAI e giungono a difendere la capitale storica i primi contingenti delle Brigate Internazionali, mentre iniziano a essere operativi decine di aerei e carri armati di provenienza sovietica. La propaganda staliniana utilizza ovviamente a fondo questi aiuti concreti.

Tenendo conto della situazione di emergenza e dell’ingresso in forze sulla scena bellica dell’ URSS , alcuni ministri della CNT – FAI spingono Durruti a spostarsi con urgenza a Madrid. Il fronte aragonese è quello con più forze che combattono per la rivoluzione sociale e non solo per la difesa della Repubblica, ma difetta di armi e di sostegno. L’avanzata dei rivoluzionari è bloccata malgrado l’impegno di migliaia di miliziani partiti da Barcellona, che aumentano nelle settimane successive.

Durruti si sposta con circa 2.000 miliziani sul fronte di Madrid, dove arriva il 16 novembre schierandosi subito in prima linea, nella Città Universitaria, per coordinare la battaglia. Malgrado il faticoso viaggio e un’intera giornata di scontri, i miliziani non vengono sostituiti come altri combattenti e la loro efficienza ne risente. Durruti cerca di animare la resistenza e si reca spesso nelle posizioni più avanzate. Nel corso di uno di questi spostamenti è colpito al cuore da un proiettile e muore poche ore dopo in ospedale. Il dolore e lo sconforto per la perdita di un militante simbolo dell’anarchismo, famoso per aver superato, a partire dai primi anni Venti, prove molto dure, fa subito circolare voci incontrollate sulla responsabilità della sua fine. Non viene esclusa un’eliminazione da parte dei comunisti, intenzionati a decapitare le formazioni combattenti libertarie e screditarne l’immagine pubblica. A loro volta i comunisti mettono in giro la voce che Durruti sarebbe stato colpito da un miliziano in fuga che avrebbe tentato di fermare. Senza disperdersi nelle tante congetture, che hanno animato una variopinta letteratura, si ricorda solo che secondo Abel Paz si è trattato di un atto maldestro con il mitra compiuto dallo stesso Durruti nel momento di scendere dall’automobile [6] .

Il suo funerale si svolge qualche giorno dopo a Barcellona con una folla straripante che si muove a fatica e una commozione generale. Al di là dei dati spettacolari, la cerimonia testimonia la grande forza di cui ancora dispongono l’anarchismo e l’anarcosindacalismo. Ma al tempo stesso il movimento libertario perde un leader che, pur non avendo raffinate capacità intellettuali, è stato in grado di affascinare e animare, con la parola e con le azioni, vasti ambienti popolari. L’evento traumatico rappresenta, secondo certe interpretazioni, la fine dell’egemonia libertaria e l’inizio di un lento ma inesorabile indebolimento, cruciale per la ripresa del potere di fatto da parte dei vertici istituzionali. Brigate Internazionali, ma non solo

Le Brigate Internazionali costituiscono un capitolo importante e interessante dell’intervento straniero in Spagna. Qui si vogliono dare solo poche informazioni di massima, rinviando ogni utile approfondimento ai numerosi studi sul tema. Oltre 30.000 sono i brigatisti presenti in Spagna, provenienti da una cinquantina di paesi. Un terzo circa sono francesi, poi seguono i contingenti polacchi e italiani che si stima avessero poco più di 3.000 combattenti. Alle Brigate partecipa anche un numero imprecisato di combattenti di origine marocchina e algerina che provengono dall’emigrazione in Francia e che coltivano la speranza utopica di preparare la lotta sociale anticolonialista. Ne rimane una traccia chiara nel discorso, in spagnolo e in arabo, letto da un soldato maghrebino della Colonna Ascaso che si batte sul fronte di Aragona, il più libertario. Il suo appello a combattere con gli antifascisti è diffuso dalla radio della CNT – FAI nel settembre 1936. Si tratta di aiutare oggi i rivoluzionari spagnoli per avere domani, dopo la vittoria sui golpisti, il loro appoggio per conquistare l’indipendenza dal colonialismo.

Secondo alcuni militanti anarchici italiani, ad esempio Umberto Marzocchi e Umberto Tommasini, l’intervento delle Brigate Internazionali, per quanto generoso e sofferto, è usato dall’ URSS per i propri interessi di potenza e non per difendere realmente la Spagna assalita dai golpisti. A conferma di tale strumentalizzazione del volontariato internazionale si cita il fatto che la sconfitta dei golpisti da parte della Repubblica appare più realistica nelle prime settimane, quando i militari non si sono ancora riavuti dalla iniziale sconfitta. Ed è proprio quello il momento in cui centinaia, e poi migliaia, di militanti libertari, in esilio e non, attraversano i Pirenei per combattere subito contro la reazione militare; al contrario, la formazione e l’attività delle Brigate Internazionali viene rinviata e inizia in pratica solo a fine ottobre, quando ormai la situazione è cambiata.

Per la Società delle Nazioni – ma il dato appare sottostimato – solo un paio di migliaia i volontari antifascisti internazionali combattono al di fuori delle Brigate e quasi tutti militano nelle formazioni anarchiche. Gli anarchici italiani in Spagna sono stati varie volte oggetto di valutazione quantitativa, con risultati decisamente diversi. Non sarebbero molto numerosi secondo il racconto degli ex combattenti delle Brigate Garibaldi, a prevalenza comunista. Risultano 800 e più secondo la schedatura redatta nel 1982 da Gino Cerrito, dell’Università di Firenze. Un dato certo e significativo è quello dei 229, quasi tutti uomini, schedati nel Dizionario biografico degli anarchici italiani, opera che comprende poco più di 2.000 biografati su un insieme di decine di migliaia di militanti attivi dal 1872 al 1968 [7] . Si tratta quindi di un considerevole valore statistico, più del 10%, percentuale che rende plausibili i numeri forniti da Cerrito.

Non è qui la sede per un’analisi del peso specifico dell’anarchismo di lingua italiana rispetto al complesso del movimento anarchico che in Spagna ha giocato il tutto per tutto. Di certo fu tutt’altro che secondario, anche per la presenza del periodico «Guerra di Classe», diretto da Camillo Berneri fino al maggio 1937, che svolse un ruolo importante e scomodo, ad esempio nella coraggiosa denuncia dei processi farsa nell’ URSS contemporanei alla guerra civile.

Il modello miliziano, sorto spontaneamente ma dotato di poche armi e senza artiglieria o aviazione, regge per molte settimane la lotta contro l’esercito ribelle, professionale ed esperto. Secondo alcuni critici, le milizie mostrano chiari limiti quando lo scontro con l’esercito golpista passa dalle città al campo aperto, e non solo per l’angosciante carenza di mezzi tecnici, ma anche per le regole di funzionamento interno. L’egualitarismo e il metodo assembleare delle milizie, pur se non sempre praticati, sarebbero incompatibili con una guerra tutto sommato tradizionale, basata su una struttura di comando unica e la garanzia che gli ordini siano eseguiti senza riserve. In pratica si tratta di riscontrare che la regola anarchica della libertà individuale non può essere applicata in una situazione estremamente accentrata come quella bellica.

Non sono solo i comunisti e i repubblicani, conservatori anche se antifascisti, a giudicare impossibile il mantenimento del sistema delle milizie già nella tarda estate del 1936. In realtà, per quanto li riguarda, è la stessa esistenza di una CNT – FAI in armi e semindipendente a essere un’anomalia da chiudere al più presto. L’imposizione della disciplina e del comando unico per fronteggiare le urgenti necessità della guerra favorisce il loro progetto di restaurazione dello Stato e della gerarchia organizzativa. Tuttavia, anche alcuni militanti libertari di vecchia data ritengono non rinviabile l’applicazione di una disciplina gerarchica al posto della purtroppo fallimentare autodisciplina. In particolare le memorie appassionate e sincere di Cipriano Mera, uno dei leader del Sindicato de la Construcción di Madrid, più volte incarcerato per l’attività e i tentativi insurrezionali dei primi anni Trenta, si soffermano sul problema del passaggio dall’autodisciplina miliziana alla disciplina gerarchica dell’Ejército Popular.

La decisione ufficiale del governo di Largo Caballero risale all’autunno 1936, ma le resistenze si susseguono man mano che le nuove norme circolano e vengono applicate. La via d’uscita seguita da diverse formazioni miliziane per superare la situazione sconfortante e il ricatto governativo riguardante le forniture necessarie a condurre la lotta armata è quella di trasformarsi in una Divisione. La Colonna Durruti diventa ad esempio la 26a Divisione del nuovo esercito, mantenendo i propri appartenenti e la propria struttura operativa. Analogamente procedono la Ortiz, la Vivancos, la Ascaso-Jover, colonne miliziane così chiamate dal nome dei loro comandanti.

Più radicale è la risposta della Columna de Hierro, formata da combattenti libertari provenienti da Valencia e dintorni. Tra di essi prevale la tendenza antimilitarista, ma dopo una serie di discussioni animate i più irriducibili alla gerarchia e alla disciplina militare si ritirano e il 21 marzo 1937 anche questa colonna, o ciò che ne resta, si sottopone alla militarizzazione, cioè alla trasformazione degli incarichi temporanei in gradi e all’inserimento a tutti gli effetti nell’Ejército Popular. Questa metamorfosi significa l’allontanamento delle miliziane, che pure avevano dimostrato un impegno indiscutibile.

Continua nella Settima Parte

Note al capitolo
[6] A. Paz, Durruti…, cit., t. 2, pp. 231-276.
[7] G. Berti (cur.), Dizionario biografico degli anarchici italiani, 2 voll., BFS , Pisa, 2003-2004. Sugli anarchici italiani in Spagna puntuali riferimenti in L. Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio Rosso alla Guerra di Spagna (1918-1938), BFS , Pisa, 2001, pp. 192-219.

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Requiem del buon senso

Revisionato da Daniele.

Articolo di Maria Tsvetochkina
Pubblicato su “Zhenskaya pravda”, n. 7, 25 Luglio 2022

«La guerra è un requiem del buon senso»
Questa è la scritta apparsa a metà marzo sulla torre Spasskaya del Cremlino di Tula. Pochi giorni dopo, un ventisettenne di Tula, presunto autore [di questa scritta], è stato arrestato e rischia fino a tre anni di carcere per una semplice [denuncia di un dato di fatto].

Qualche settimana dopo nella città di Borovsk, sita nell’Oblast’ di Kaluga – vicina all’Oblast [di Tula] -, è apparso lo stesso appello sotto forma di immagine di una ragazza vestita con i colori della bandiera ucraina e delle bombe sulla sua testa. In basso c’è la scritta: “Fermati!”

Vladimir Ovchinnikov è un noto artista di 84 anni che ha decorato le pareti delle case con murales naif, diventati noti in tutta la Russia.

L’uomo, di professione economista, ha maturato l’interesse per la pittura una volta ritiratosi in pensione. Due giorni dopo l’inizio della tragedia, l’artista ha lanciato un appello alla pace sui suoi social media e il 1° marzo è passato all’azione: ha dipinto sulla facciata di una casa un albero e due elmetti crivellati dai proiettili, con nastri colorati della bandiera ucraina.

Non solo: ha scritto “no Z” e in pieno centro cittadino è apparso il simbolo internazionale della pace e una colomba, sotto cui veniva ribadito “mai più Z”.
Già il murales della ragazza sotto le bombe è stato sufficiente a far comparire l’artista davanti a un tribunale

Durante l’udienza, Ovchinnikov ha ricordato di avere il diritto di esprimersi contro la guerra: “Esprimo la mia posizione civica e incoraggio altri a farlo – per opporsi alle azioni delle nostre autorità. Azioni, di fatto,criminali!”.

Tuttavia, l’artista è stato dichiarato colpevole e multato di 35.000 rubli. Tramite la rete ben 150 persone, tra amici e simpatizzanti, si sono attivate con una raccolta fondi per coprire la multa inflitta all’anziano pittore.

Dal 24 febbraio, la capacità dei russi di esprimere le proprie opinioni è stata ridotta a quasi zero.

Per un post sui social media che invoca la pace, gli utenti possono essere multati e arrestati in base all’articolo sulla diffamazione nei confronti dell’esercito russo; i media non possono riferire su quanto sta accadendo in Ucraina, perché rischiano di essere perseguiti per “fake news”.

Non sentiamo la verità nemmeno dalla televisione. E solo i muri delle case ci dicono cosa i russi sentono e pensano realmente riguardo a ciò che sta accadendo…

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Quinta Parte

Quarta Parte

IV. La CNT – FAI tra governo e rivoluzione sociale

Rivoluzione o guerra?
La fotografia delle varie e articolate realtà regionali aiuta a comprendere meglio non solo le premesse e le ragioni di fondo della partecipazione anarcosindacalista al governo, ma anche l’impatto traumatico che questa scelta ha avuto per una parte della base confederale a causa della rottura con i principi e le pratiche precedenti.

Secondo C.M. Lorenzo, la scelta collaborazionista in nome dell’antifascismo si realizza già il 19 luglio 1936 quando i militanti libertari lottano, fianco a fianco, con altri attivisti politici e sindacali e soprattutto con gli appartenenti di quelle stesse forze repressive che li avevano perseguitati per decenni [1]. Le immagini delle sparatorie e poi dei gruppi trionfanti per le strade di Barcellona, le più conosciute, propongono una sorprendente unità di schieramento tra rivoluzionari anarchici, Guardia Civil e Guardias de Asalto. L’urgenza dell’opposizione armata alla parte più reazionaria dell’esercito fa impallidire i contrasti precedenti, che solo pochi anni prima e in varie regioni avevano portato a centinaia di morti, quasi sempre operai e contadini insorti.

Da qui inizia la collaborazione costante non solo nel Comité de Milicias della Catalogna, ma pure in centinaia di località minori del territorio non controllato dai golpisti. I numerosi Comités Revolucionarios che gestiscono la difesa, l’economia e la vita di buona parte delle zone repubblicane, dalle Asturie al Levante, dall’Aragona alla Castilla, sono composti da delegati di tutte, o quasi, le organizzazioni antifasciste. Anche quando si formano dei governi regionali, come in Aragona e nelle Asturie, la CNT – FAI deve tener conto delle altre componenti sindacali e politiche. E, prima o poi, accetta la strada imposta dalla guerra in corso.

A questo proposito si può ricordare l’esplicita dichiarazione di Helmut Rüdiger, un anarchico nato tedesco e divenuto svedese che assume incarichi di responsabilità quale segretario dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori ( AIT ), cui la CNT aderisce negli anni Trenta, e delegato della stessa AIT a seguire direttamente le vicende spagnole durante la guerra. In un importante documento preparatorio di una discussione interna scrive:

Bisogna fare la rivoluzione prima di fare la guerra, o bisogna fare la guerra prima di fare la rivoluzione? Le due formule sono astrazioni che nulla hanno a che fare con la realtà. Se si perde la guerra, si perde tutto e per mezzo secolo o più non ci sarà alcuna discussione sul problema della rivoluzione [2] .

Da questa premessa, che contiene un’autentica profezia sulla paralisi rivoluzionaria post 1939, discendono molte scelte obbligate alle quali la CNT risponde in modo differenziato, ma in fin dei conti convergente. Dove CNT e UGT hanno più o meno la stessa forza e trovano un accordo operativo, come nel Levante e nelle Asturie, la socializzazione dell’economia procede relativamente bene ed è garantita una certa stabilità complessiva.

Ciò accade anche perché il PCE , pur in crescita, ha notevoli difficoltà a imporre la propria egemonia sul piano militare, economico, politico. Inoltre, l’influenza di una tendenza anarcosindacalista moderata a Valencia, quella denominata treintista, e la lunga attitudine di collaborazione fra i due sindacati, nonché il realismo, per così dire, degli anarchici asturiani, favoriscono il maggior peso sindacale unitario rispetto a quello dei partiti politici. Dove la CNT si trova in netta minoranza e domina invece la UGT , come a Madrid, nella Castiglia del sud e in Estremadura, si registra il fatto che, in conseguenza della lotta armata iniziata nel luglio, il sindacato socialista perde porzioni consistenti di terreno che vengono occupate dalla CNT da un lato e dal PCE dall’altro. Dove il potere di fatto degli anarchici è maggioritario nel luglio 1936, in Aragona e Catalogna, si assiste a un progressivo indebolimento dell’anarcosindacalismo a favore di uno sviluppo prepotente dei comunisti filostaliniani. Altre situazioni regionali (Andalusia, Paesi Baschi) vedono l’intrecciarsi degli elementi ora considerati, con la significativa eccezione di Malaga dove la CNT si impone con la forza fino alla caduta della città nel febbraio 1937.

In sostanza, a livello nazionale la discussione sulla partecipazione o meno al governo attraversa varie fasi: dopo l’iniziale diffidenza e la ricerca di alternative in base a un’intesa CNT – UGT , si passa ad accettare l’ingresso in un governo che assuma il nome di Consejo Nacional de Defensa, per arrivare infine, nell’ottobre 1936, alla sottoscrizione di un accordo con il governo esistente per un rimpasto che prevede l’entrata in forze di esponenti della CNT – FAI .

Assume un interesse particolare la ricostruzione di questo complesso e sofferto passaggio da un rifiuto di principio a un consenso politico «realistico».

Senza seguire tutte le tappe (studio che richiederebbe un approfondimento qui improprio), occorre segnalare come lo scivolamento verso la partecipazione al governo si fondi sul tentativo di affrontare alcuni dati di fatto: le richieste di armi e munizioni delle milizie della CNT venivano regolarmente respinte dagli appositi organi governativi; la necessità di riconoscimenti e aiuti internazionali alla Repubblica, in particolare da parte delle democrazie francese e inglese, passava per la costituzione di un organismo rappresentativo delle forze in campo e in grado di ottenere l’obbedienza da tutte le componenti; l’eventuale non occupazione dei posti di potere per motivi ideali significava lasciare ad altri, in particolare al PCE , uno spazio spropositato e pericoloso per le attività cenetistas e faístas.

In tre Plenum consecutivi del 1936 – il Plenum Nacional delle federazioni locali del 3 settembre, il Plenum Nacional del 15 settembre e infine il Plenum Nacional del 18 ottobre – si manifesta non solo una crescente tendenza «realista» nei confronti del governo repubblicano, ma anche un maggiore spirito di accentramento decisionale negli organi direttivi della CNT . Così il Comité Nacional e il suo segretario cambiano le modalità di elezioni, e se prima questi erano designati da una Federación scelta da un congresso, adesso si istituisce la nomina di delegati permanenti delle federazioni regionali e di membri amministrativi (leggi burocrati) specializzati. Secondo C.M. Lorenzo, queste tappe sono conquiste personali della tenacia di Horacio Prieto, segretario del Comité e padre dell’autore, e alla fine del processo di centralizzazione «la CNT estaba dotada de un organismo central, complejo y eficaz, liberado de la presión de militantes locales» [3].

Una volta superata l’impasse costituita dalla «carencia total de realismo» e da «prejuicios morales y políticos», il problema è solo quello di ottenere una rappresentanza che sia all’altezza della forza confederale [4] . Largo Caballero propone un ministero simbolico, senza portafoglio, ma la contrattazione a Barcellona con il presidente della Repubblica Azaña e con l’ex presidente del Consiglio, José Giral, porta all’ottenimento di quattro ministeri di un certo rilievo. L’opposizione di Largo Caballero verso l’illegale FAI viene vinta, secondo Lorenzo, grazie a una battuta di Horacio Prieto, secondo cui la stessa clandestinità dell’organizzazione esclude di poter considerare militanti della FAI due personaggi pubblici come Federica Montseny e Joan García Oliver, candidati rispettivamente alla Sanità e alla Giustizia. Gli altri due candidati sono dell’area ex treintista: Joan Peiró destinato all’Industria e Juan López al Commercio.

Vengono presi contatti anche con Pestaña, destinatario naturale di un simile incarico in quanto leader del Partido Sindicalista, formazione che aveva aderito al Frente Popular e si era presentata alle elezioni del 1936. Il Partido Sindicalista era stato fondato, tra accese polemiche, proprio per dare uno sbocco istituzionale alla base popolare antistatale e ribelle, cioè anarcosindacalista. Ma pare che egli declini l’invito per motivi di tattica politica. Dopo essere rientrato nella CNT e aver avuto incarichi di rilievo, muore nel dicembre 1937.

Come vengono scelti i quattro rappresentanti destinati a un incarico che segna una svolta epocale nella storia dell’anarcosindacalismo spagnolo? Il Comité Nacional della CNT avrebbe approvato la lista preparata dal segretario Horacio Prieto sulla base della rappresentatività effettiva delle tendenze prevalenti nel movimento libertario. In questo senso, con la presenza della Montseny e di García Oliver si intendeva coinvolgere il faísmo più radicale che, rifiutando la collaborazione governativa, avrebbe potuto causare seri problemi all’organizzazione e alla linea del suo segretario. Sembra che entrambi abbiano dato una prima risposta sdegnata e del tutto negativa all’offerta di Horacio Prieto, ma pare che dopo una riflessione abbiano accettato per motivi diversi: la prima dopo aver ottenuto l’approvazione al padre Federico Urales, il secondo per continuare da un posto centrale la sua funzione di «controllore» già svolta a Barcellona quale segretario generale della Difesa presso la Generalitat.

A parte le polemiche personali, che termineranno solo con la morte dei protagonisti, le ragioni degli uni e degli altri vanno considerate con attenzione per comprenderne le ragioni di fondo. I sostenitori dell’intervento al governo ritengono che la rivoluzione sociale libertaria nella Spagna della guerra sia semplicemente impossibile. Malgrado decenni di preparazione e di speranza nella rottura dell’ordine borghese e nella forza del popolo e delle sue avanguardie anarchiche, esiste una generale impreparazione e una netta inferiorità rispetto al livello indispensabile per tentare lo sbocco rivoluzionario. Troppo debole è la presenza nelle file libertarie dei tecnici in grado di far funzionare la macchina produttiva, troppo pochi i lavoratori rurali e gli stessi operai, che rispondono solo parzialmente ai progetti iniziali della CNT – FAI.

La sicura opposizione delle potenze straniere a un’eventuale radicalizzazione rivoluzionaria in Spagna, con il conseguente attacco alle loro proprietà industriali e commerciali, ostacolerebbe in modo insuperabile ogni consolidamento attraverso il boicottaggio economico prima e un più che probabile intervento armato repressivo poi. A complemento si indica la necessità di «salvare il salvabile», cioè consolidare le realizzazioni collettiviste, ottenere l’armamento delle milizie confederali, difendere le attività di emancipazione pratica dai tradizionali poteri forti clericali e militari solo temporaneamente emarginati. Dai posti di governo tutta questa strategia di rafforzamento, o quanto meno di non indebolimento, degli strumenti e delle iniziative in corso avrebbe tratto sicuro giovamento. Sullo sfondo ci sarebbe inoltre il desiderio popolare di vedere in atto una vera unità in nome dell’antifascismo, il che significa condurre la guerra contro i golpisti con mezzi militari efficaci e senza dissidi interni.

Le ragioni degli oppositori alla partecipazione governativa richiamano, evidentemente, le basi storiche ed etiche dell’anarcosindacalismo e ancor più dell’anarchismo specifico. Mentre la UGT socialista, dalla sua nascita nel 1888, indicava ai lavoratori sfruttati la via parlamentare e riformista, la CNT aveva proposto il metodo dell’azione diretta antipadronale e antistituzionale. Non si tratta, secondo questa ottica, di una pura e semplice riproposizione di scelte tradizionali, bensì della loro concretizzazione nella situazione spagnola di quegli anni. Le conquiste del luglio 1936 si possono salvare e ampliare se ci si continua a organizzare al di fuori e contro un apparato statale che ha dimostrato in pieno la propria inefficienza lasciando la possibilità ai generali di compiere il golpe, rimanendo quasi inerte dopo il 18 luglio e faticando a far funzionare la macchina burocratica. Quello sarebbe quindi stato il momento migliore per assestare un colpo definitivo al secolare nemico dell’anarchismo invece di aiutarlo nella ricostruzione dei suoi strumenti. La coerenza con la propria propaganda pluridecennale significa anche non sconvolgere le coscienze antistatali di gran parte degli aderenti così da tenere vivo lo slancio vittorioso del 19 luglio 1936. Solo una forte strutturazione della CNT – FAI , al di fuori e contro gli antifascisti moderati e autoritari, potrebbe garantire alla militanza di base e alle classi sfruttate l’arrivo del momento delle conquiste concrete: la liberazione dallo sfruttamento e dall’oppressione. Molti problemi pratici, dalla carenza di armi ai boicottaggi delle collettività, si potrebbero risolvere con atti di coraggio e di audacia, d’altra parte indispensabili in ogni rivoluzione vera e propria. Ad esempio, invece di chiedere al governo di concedere gli armamenti necessari alle milizie, soprattutto in Aragona, si tratta di entrare nelle caserme della Guardia Civil e delle Guardias de Asalto per prendersele con le buone o con le cattive.

Una volta compiuta, l’entrata al governo avrebbe comportato lo snaturamento del carattere dell’organizzazione introducendo il «veleno del potere» nei militanti cosiddetti «influenti», i quali avrebbero imitato gli altri politici e, prima o poi, avrebbero convertito la CNT in un sindacato come gli altri e la FAI in un partito. I passi obbligati di un tale processo sarebbero stati l’accentramento decisionale al vertice e l’abolizione delle pratiche federaliste e autonome delle istanze locali, dai gruppi alle sezioni. Al contrario, solo il «buon senso» dei militanti di base avrebbe potuto garantire che la degenerazione burocratica e ministeriale restasse al di fuori dell’ambito libertario e che la spinta rivoluzionaria non si esaurisse, anzi si potenziasse mostrando al popolo i reali cambiamenti sociali ottenibili attraverso l’egualitarismo e l’autorganizzazione. Dall’evidente realizzazione degli obiettivi e dal miglioramento effettivo delle condizioni di lavoro e di vita sociale sarebbe scaturita nuova forza dal popolo per sostenere lo sforzo bellico senza cadere nella militarizzazione e nella imposizione di una nuova gerarchia [5].

La posizione rispetto alla scelta istituzionale segna anche la differenziazione tra due opposti modi di esaminare la questione centrale delle milizie, le strutture armate che hanno sostenuto vittoriosamente lo scontro iniziale del 19 luglio. Nel confronto tra chi sostiene, o accetta come inevitabile per non soccombere, la partecipazione al governo e chi la rifiuta per motivi di principio e di convenienza strategica, emergono le ragioni di chi approva o osteggia la trasformazione delle iniziali organizzazioni della lotta armata (le milizie) in una struttura militare tutto sommata tradizionale (l’esercito) anche se sotto il segno della difesa della Repubblica.

Continua nella Sesta Parte

Note al capitolo
[1] C.M. Lorenzo, Los anarquistas españoles…, cit., passim.
[2] H. Rüdiger, Materiales para la discusión sobre la situación española en el Pleno de la AIT del día 11 de junio de 1937, p. 6, citato da J. Casanova, De la calle…, cit., p. 177.
[3] C.M. Lorenzo, Los anarquistas españoles…, cit., p. 185.
[4] Ibidem.
[5] V. Richards, Insegnamenti della rivoluzione spagnola (1936-1939), Vallera, Pistoia, 1974, passim.

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Vedi Minsk e muori. Come le imprese bielorusse vendono i rifugiati – Seconda Parte

Prima Parte

 

Il console e le linee d’ombra
Non abbiamo prove che tutti i passeggeri dei voli Fly Baghdad e Iraqi Airways fossero migranti. Certamente, però, molti hanno accettato la loro offerta.
Troviamo tracce di un’altra compagnia aerea, la siriana Cham Wings – anch’essa legata al console, il cui agente bielorusso a Minsk era la società di Al-Qaysi.

La flotta di Cham Wings conta solo tre aerei; i suoi proprietari sono persone vicine al presidente siriano Bashir Al-Assad. L’azienda era già stata sanzionata dagli Stati Uniti cinque anni fa per il trasporto di armi. Secondo Reuters, ha anche noleggiato voli che trasportavano in Siria mercenari russi del cosiddetto Gruppo Wagner.

Autore/Autrice: Filip Wesołowski, Julia Karwan-Jastrzębska

È proprio Cham Wings che accettava le prenotazioni di viaggi di gruppo organizzati dai trafficanti di persone nel 2021. E – secondo i documenti trovati nella foresta polacca – la Cham Wings ha fatto volare un gruppo di persone da Beirut per delle presunte battute di caccia [organizzate] dal Gruppo Belir.

Da Settembre, gli aerei della Cham Wings hanno effettuato almeno 29 voli da Damasco a Minsk. La maggior parte [di questi voli sono avvenuti] due settimane prima che la crisi al confine si aggravasse, culminando nei disordini al valico di Kuźnicy.
Il 13 novembre – il giorno dopo la sospensione di Al-Qaysi dalla carica di console onorario in Iraq – Cham Wings ha sospeso i voli per Minsk. [3]

Un viaggio con finale in ospedale
Sappiamo già che il Gruppo Belir non è comparso per caso nel business del trasporto di persone mediorientali – lavora con Fly Baghdad e Cham Wings. Il suo comproprietario è allineato con il regime di Lukashenko e ne rappresenta gli interessi a Baghdad.

Tra i documenti trovati nella foresta c’è la lista dei passeggeri di un volo Cham Wings da Beirut a Damasco dell’Ottobre 2021. Il registro dei passeggeri: 51 persone con nomi arabi. Un altro documento è un elenco della sistemazione degli ospiti di un hotel di Minsk. Sono gli stessi 51 nomi più altri sette. In teoria, nell’hotel di Minsk sono finite 58 persone, esattamente il numero concordato dalla società del console che ha organizzato la caccia fittizia.

Autori del grafico: Filip Wesołowski, Julia Karwan-Jastrzębska

 

I documenti [trovati] non sono completi e il percorso delle persone migranti non è chiaro. Quale rotta hanno preso da Beirut? Come hanno raggiunto Minsk? Cosa è successo dopo? Come sono finiti questi documenti del [suddetto] gruppo in Polonia, proprio sul confine [bielorusso]?

I documenti sono stati ritrovati nei giorni in cui le persone – menzionate in essi – dovevano visitare il Museo della cultura bielorussa antica o il Museo nazionale d’arte con una guida.

Abbiamo chiesto alle organizzazioni umanitarie di aiutarci a trovare alcuni dei nomi presenti nell’elenco dei passeggeri. Queste ci hanno permesso di raggiungere Raed Yasera Sroura, uno dei partecipanti al presunto tour. Alla fine di ottobre, Raed, 37 anni, siriano, è stato portato al pronto soccorso dell’ospedale di Hajnówka. Era estremamente indebolito ed era stato morso dai dei cani.

Chi [aizza] i cani [contro] le persone?
Raed conferma che il suo nome è sulle liste dei passeggeri e degli ospiti dell’hotel di Minsk. E che fin dall’inizio il viaggio in Bielorussia non era a scopo turistico: “Ho pagato un intermediario per portarmi in Bielorussia e passare dalla Polonia per poi [arrivare] in Europa occidentale”, racconta Raed. Conferma di essere stato ferito durante l’attraversamento del confine.

Verifichiamo la sua testimonianza con le cartelle cliniche e le informazioni della “Straży Granicznej” (SG) (guardia di frontiera polacca, ndt). La scheda medica di Raed mostra che è stato ricoverato in chirurgia il 29 ottobre a causa di “ferite multiple infette da morso nella zona del cuoio capelluto”. In parole povere, morsi di cane.

Il Centro di registrazione degli stranieri di Połowcach gestito dalla SG, descrive quanto segue le circostanze della detenzione di Raed: “È stato accertato che il 29 ottobre 2021 il suddetto straniero è stato scoperto ad una distanza di 900 metri dal confine di Stato (…). Lo straniero aveva attraversato illegalmente il confine di Stato nel posto di frontiera numero 274, dalla Repubblica di Bielorussia alla Repubblica di Polonia, in un luogo non autorizzato e senza documenti che lo autorizzassero ad attraversare il confine (…) a causa delle sue cattive condizioni di salute e delle ferite da taglio sul corpo, causate dall’attraversamento della recinzione di confine, è stato portato all’SPZOZ [4] di Hajnówka.”

La nota del SG descrive le ferite dell’uomo come “causate dall’attraversamento della recinzione di confine”. Ma nei documenti dell’ospedale è scritto chiaramente che è stato morso da un cane. Perché questa differenza?

Nomadi provenienti da Beirut
Raed lascia l’ospedale il 3 novembre. Finisce in un centro ONG semi-aperto a Bialystok. Riusciamo a incontrarlo. In totale abbiamo due conversazioni: una faccia a faccia, l’altra al telefono tramite un interprete arabo.

Raed Srour racconta: “Vengo da Daraa, dove è iniziata la rivolta contro Assad. Sono apolitico, ma a causa del luogo in cui sono nato, nel 2016 sono stato arrestato per un mese. Sono stato picchiato e torturato. Tutti gli abitanti di Daraa sono sospetti per gli uomini di Assad. Dopo essere stato rilasciato, sono andato a Beirut. Lavoravo in nero e vivevo con la mia famiglia in una cantina della fabbrica. Nel 2021 ho deciso di emigrare in Europa.”

Sul confine bielorusso-polacco. Fonte: Karol Grygoruk / RATS Agency

In Libano, un Paese colpito da un’enorme crisi umanitaria ed economica, un residente su cinque è un rifugiato proveniente dalla Siria. Non mancano coloro che sono disposti a volare in Europa. Spingere le persone verso l’Europa piace anche al governo libanese, che è responsabile del mantenimento delle persone rifugiate. In molti casi, la partenza comporta la scadenza o la revoca dei permessi di soggiorno, poiché sui passaporti è apposto il divieto di rientro.

La corruzione nel sistema hawala
Raed racconta di aver contattato il contrabbandiere solo per telefono, utilizzando WhatsApp. Il contrabbandiere era un curdo che si è presentato come Abu Jahia. L’uomo non lo aveva mai visto, non lo aveva mai incontrato.

Il prezzo del contrabbando? 4,5 mila dollari per raggiungere Minsk. E altri 2.500 dollari per il viaggio da Minsk all’Europa. Il denaro doveva essere depositato presso un’agenzia di viaggi turca.

L’ufficio era molto probabilmente quello dei cosiddetti hawaladar. Presso gli uffici degli hawaladar, le persone migranti pagano il viaggio e il deposito, incluso nel prezzo, viene versato al contrabbandiere al momento della conferma del raggiungimento della destinazione.
Solo la commissione viene pagata ai contrabbandieri attraverso il sistema hawala; agli hawaladar viene data una parte della cifra [estorta alle persone migranti] per l’intermediazione. La maggior parte dei profitti del contrabbando va ancora altrove. [5]

Ma sentiamo di più da Raed:

“Siamo partiti il 20 ottobre con un volo Cham Wings da Beirut a Minsk. All’aeroporto ci aspettava un arabo come concordato dai contrabbandieri. Ha portato un gruppo di 20-25 persone, alcune delle quali donne e bambini, all’hotel Minsk o Belarus”. Raed non era sicuro del nome, dai documenti sembra essere l’hotel Belarus. “Abbiamo trascorso una notte in hotel. Il 21 ottobre ci è stato detto di scendere davanti all’hotel. Due auto con autisti bielorussi ci stavano aspettando lì. Ci siamo riuniti in otto e il viaggio è durato quattro-cinque ore. Siamo usciti in una foresta. Gli autisti ci hanno indicato di proseguire a piedi. Siamo stati guidati da Abu Jahia al telefono. Abbiamo raggiunto il confine dove la recinzione era stata tagliata. Si supponeva che un’auto fosse in attesa oltre il confine, ma non siamo riusciti a trovarla. Abu Jahia ci ha dato istruzioni al telefono, ma noi abbiamo vagato per tre giorni. Alla fine siamo arrivati a una grande strada.”

Un agente tira fuori il manganello
A questo punto, una jeep avrebbe dovuto attendere il gruppo, ma Raed e le altre persone rifugiate non l’hanno raggiunta. Sono stati fermati dalla polizia polacca. Poco dopo sono arrivate delle auto e un furgone della polizia: “Un agente è uscito dall’auto e ci ha picchiato con un manganello. Tutti sono stati colpiti, tranne due donne. Ci hanno portato via le valigie e i telefoni. L’intero gruppo è stato portato alla frontiera. Siamo stati scaricati in una striscia di terra di nessuno [molto probabilmente sono stati spinti attraverso le recinzioni in territorio bielorusso – ndr]. Solo i telefoni ci sono stati restituiti. Siamo tornati in Bielorussia. Abbiamo camminato per diverse ore. Siamo stati trasportati in un altro punto. Con un gruppo di 40-50 persone dovevamo riattraversare il confine nel punto indicato dai bielorussi. Di nuovo abbiamo incontrato la Guardia di frontiera – cani, cavalli, droni. In totale, ho provato [ad attraversare] tre volte.”

Al terzo tentativo – vicino al punto di confine n. 274, nei boschi tra Czeremcha e la Foresta di Białowieża -, [Raed] è riuscito ad attraversare il confine e a percorrere quasi un chilometro prima che le guardie di frontiera lo prendessero. Si è impigliato in qualcosa ed è caduto: “Mentre ero a terra, il cane ha iniziato a mordermi sulla testa. Il cane apparteneva alla Guardia di frontiera o alla polizia polacca. Agenti mascherati, armati, ci hanno attaccato con i cani. Anche un altro uomo del mio gruppo è stato morso. La sua mano era gravemente ferita.”

Il numero 24 racconta
Raed ha perso conoscenza. L’hanno portato in ospedale. Non aveva un telefono e non sapeva cosa fosse successo al resto dei suoi compagni.

Siamo riusciti a rintracciare la famiglia di un altro rifugiato che è finito in ospedale con Raed. È Saleh, il cugino di Raed. Da un’e-mail inviata dal traduttore di Saleh a un’organizzazione umanitaria, apprendiamo la sorte di altri cinque partecipanti al viaggio bielorusso:

“Ho parlato con una donna siriana che vive a B. (…) Secondo lei (…) una piccola parte di loro è stata presa oggi dalla Guardia di frontiera polacca; suo fratello e suo cugino [Raed – ndr] sono stati morsi dai cani, quindi sono stati portati in un ospedale polacco (…), poi suo fratello è stato preso dalla polizia e portato da lì nella foresta. Suo cugino è ancora in ospedale con ferite alla testa. Ma entrambi hanno perso i contatti con il coniuge e il figlio. Le donne non hanno telefoni, sono rimaste traumatizzate nella foresta dopo l’attacco dei servizi polacchi.”

Sul confine bielorusso-polacco. Fonte: Karol Grygoruk / RATS Agency

La maggior parte del gruppo, nonostante la drammatica traversata, raggiunge la Germania nei primi giorni di novembre. Raed viene portato in ospedale per le sue gravi condizioni. Un parente che vive in Germania gli ha fornito un telefono.

Un altro racconto del rifugiato siriano: “Sono stato portato fuori dall’ospedale dalle guardie di frontiera. Sono stato chiuso in una stanza per diverse ore. Mi hanno spogliato. Sono stato perquisito in modo umiliante. Poi sono stato messo in un hangar con un gruppo di curdi. Non c’erano interpreti. Il personale non riusciva a comunicare con i detenuti. A tutti è stato assegnato un numero: io ero il numero 24. Infine, sono stato interrogato con l’aiuto dell’interprete Ahmed Habbas e mi sono state prese le impronte digitali. Mi è stato chiesto di confermare che ero stato morso da cani randagi. Mi sono rifiutato.”

Caccia? Sì, ma sarete voi la preda
Dopo alcuni giorni alla stazione della Guardia di frontiera e un soggiorno nel centro in cui abbiamo parlato con lui, Raed si dirige da solo verso l’Occidente.

I 7.000 dollari che ha pagato agli hawaladar turchi per il viaggio in Europa corrispondono, all’incirca, a quanto gli sarebbe costato sparare a un daino e a un giovane cervo nel listino prezzi della caccia trovati nella foresta. I giorni che, secondo l’itinerario avrebbe dovuto trascorrere a caccia nel resort Biełyj Łoś e nella fattoria di caccia Neman, li ha trascorsi inseguito dalla Guardia di frontiera e spinto da polacchi e bielorussi su una recinzione di filo spinato, finendo in ospedale.

Se ognuna delle 58 persone che hanno partecipato alla caccia fittizia organizzata dal Gruppo Belir ha pagato l’equivalente dell’abbattimento di un daino e di un cervo per il viaggio – come abbiamo appreso dai documenti trovati -, deve aver fatto guadagnare agli organizzatori una somma pari a 406 mila dollari.

Questo prezzo (7.000 dollari procapite, ndt) tiene conto del pagamento del visto, della commissione per il contrabbandiere Abu Jahia e per le guide, della commissione per l’ufficio hawala, del posto sull’aereo Cham Wings, dell’alloggio in un hotel bielorusso e del trasporto fino al confine e di un’auto sul lato polacco del confine. Il Gruppo Belir può dividere l’eccedenza tra sé e l’azienda agricola statale Biełyj Łoś sulla base del listino prezzi della caccia fittizia.

La vittima del Gruppo Belir
Il 28 ottobre, Shiyar, un siriano di 37 anni, viene ritrovato nella foresta di Bialowieza, quasi al confine con la Bielorussia. Il resto del gruppo lo ha abbandonato da solo nella foresta quando non è riuscito più ad andare avanti; al momento del ritrovamento, non aveva mangiato o bevuto per quattro giorni.

È un’altra vittima delle attività del Gruppo Belir: è stato anche coinvolto nella caccia fittizia per 58 persone. Si è occupato delle formalità a Beirut. L’intermediario era una società chiamata Cham Wings, che faceva pubblicità su Facebook. Per 4.000 dollari, il rifugiato avrebbe ottenuto un visto, una sistemazione in un albergo in Bielorussia, un biglietto aereo, un’assicurazione. Alla Cham Wings ha lasciato il passaporto e due foto. Dopo 10 giorni ha ottenuto il visto.

Il 20 ottobre ha preso un volo da Beirut a Minsk. Nella capitale bielorussa, un autobus ha aspettato il suo gruppo. Circa 40 passeggeri sono saliti a bordo e si sono recati in albergo. Non si trattava di caccia o di visite turistiche. Il siriano voleva raggiungere l’Europa occidentale. Aveva depositato il denaro per il viaggio di ritorno (2.500 dollari) in un ufficio di Istanbul. Dovevano essere prelevati tramite un codice.

Il 24 ottobre, il suo gruppo è partito dall’hotel (12 persone in tre auto). Il loro “coordinatore” via WhatsApp è il contrabbandiere Abu Hur. Hanno guidato per 4-5 ore verso Brest. Gli autisti hanno raccolto 100 dollari da ciascuno, dicendo loro di andare verso il confine. Abu Hur ha dato delle indicazioni col GPS.

Nella foresta, Shiyar, disperato, ha deciso di ritirare il denaro lasciato nell’ufficio di Istanbul e ha chiesto ad un amico di farlo. Poi il resto del gruppo lo ha abbandonato e lui iniziava ad andare oltre la foresta con un migrante. Hanno tentato di superare una recinzione. Alla fine, i bielorussi gli hanno indicato il punto in cui guadare il confine. [I due] hanno vagato per tre giorni sul versante polacco. Nelle paludi, Shiyar perde le forze ed è convinto di morire. Viene soccorso dalla gente del posto e trasportato su una barella fino all’ambulanza. Viene portato all’ospedale di Hajnówka. Lì incontra Raed. Dopo aver lasciato l’ospedale, lascia la Polonia per l’Occidente.

I suoi compagni, che lo hanno abbandonato quando ha voluto ritirare il denaro, hanno continuato [a camminare]. Probabilmente hanno raggiunto l’autobus senza troppi problemi. Il contrabbandiere che li guidava sulla strada per Narewka – a soli cinque chilometri di distanza dalla foresta -, ha fatto cadere un fascio di documenti mentre correva verso l’auto. Questa storia è iniziata così.

Majid dice: tornatevene [indietro]
La storia di Raed e il destino degli altri viaggiatori sono drammatici. Abbiamo chiesto alla Guardia di frontiera polacca di commentare se i cani sono stati usati per attaccare i rifugiati: “La Guardia di frontiera ha il diritto di fornire informazioni su persone specifiche solo alle autorità autorizzate e alle parti coinvolte in procedimenti legali. La Guardia di frontiera possiede dei cani, utilizzati per la protezione delle frontiere”.

Non siamo in grado di verificare i dettagli del racconto di Raed sullo svolgimento dell’incontro con i servizi polacchi. Ma grazie ai documenti ritrovati nella foresta, sappiamo che l’intera impresa del Gruppo Belir era, fin dall’inizio, orientata verso l’Occidente. I migranti hanno semplicemente pagato i contrabbandieri per attraversare illegalmente il confine. Nessuno voleva visitare Minsk, fare shopping, andare all’acquapark o andare a caccia di alci.

Uno di quelli che ne hanno tratto profitto è Majid Al-Qaysi, uomo d’affari, console onorario della Bielorussia a Baghdad, sostenitore di Lukashenko e amico dei ministri del suo governo.

Avremmo voluto confrontare i nostri risultati con i proprietari del Gruppo Belir, ma non hanno risposto alle nostre richieste. Abbiamo posto a Olga Oskirko domande sul contrabbando di persone per iscritto. Abbiamo chiesto perché le persone che il Gruppo Belir invita a fare battute di caccia ed escursioni in Bielorussia si ritrovano ferite sul lato polacco del confine? La società che gestisce con Majid Al-Quaysi è coinvolta nel traffico di persone dal Medio Oriente? Perché i documenti della loro azienda sono finiti nella foresta del versante polacco? Stanno organizzando il traffico di persone con il permesso delle autorità bielorusse?

Non abbiamo ricevuto risposta.

Alla fine di novembre, Majid Al-Qaysi ha fatto un’altra apparizione pubblica. In un’apparizione sul canale televisivo curdo NRT, ha lanciato un appello ai rifugiati del Kurdistan affinché lascino la Bielorussia.

Ha spiegato che la Bielorussia non è in grado di fornire del cibo nei campi al confine.

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Vedi Minsk e muori. Come le imprese bielorusse vendono i rifugiati – Prima Parte

di Julia Dauksza, Anastasiia Morozova (FRONTSTORY.PL), Paweł Reszka (Polityka)

Originale in polacco
https://frontstory.pl/zobaczyc-minsk-i-umrzec-jak-bialoruskie-firmy-handluja-migrantami/

Prefazione
Il presente articolo è apparso per la prima volta sul sito polacco “Frontstory” il 9 dicembre 2021. Una traduzione in inglese si trova sul sito Vsquare.org, pubblicata il 13 dicembre 2021.

Ove possibile e con i nostri limiti, abbiamo attinto all’articolo in lingua polacca per sopperire ad alcune mancanze della traduzione inglese.

L’articolo riporta in maniera dettagliata la genesi della nuova rotta originatasi lo scorso anno al confine tra Bielorussia e Polonia, a partire dal ritrovamento di alcuni documenti all’interno della foresta primaria confinante con i due paesi.

Ricordiamo ancora bene le immagini e le notizie circolate lo scorso anno: il governo bielorusso ha avallato, tramite i suoi funzionari nei paesi del Medio Oriente, la creazione di una nuova rotta migratoria.

Con il senno di poi, si può dire che la crisi migratoria così generata al confine bielorusso-polacco va inquadrata come un primo atto all’interno della tensione tra Unione Europea da una parte e Russia e suoi alleati dall’altra.

In tal senso il regime di Lukashenko ha creato delle agenzie turistiche ad hoc per creare una tensione continua al confine.
Lukashenko ha tentato, e tenta tutt’ora, di raccogliere migliaia di persone non europee sul territorio bielorusso, al modico prezzo di €1000 tra viaggio e alloggio, per poi accompagnarle al confine ed utilizzarle come massa critica nei confronti delle autorità polacche.
Inutile dire che le persone migranti vengono “rimbalzate” da una parte all’altra del confine (cosiddetti pushback), lasciandole in una sorta di “limbo” dove la morte è sempre dietro l’angolo – con i polacchi che le respingono da una parte ed i bielorussi che impediscono loro di tornare indietro. Sono molte le persone ritrovate morte all’interno della foresta che fa da confine naturale tra Bielorussia e Polonia.

Quelle che riescono a passare il confine ed entrare in territorio Schengen non hanno comunque una sorte migliore, dato che vengono rinchiuse in campi di detenzione in Polonia o Germania.

In un’epoca storica dove le persone migranti sono utilizzate come mezzi di propaganda elettorale – chi li vuole accogliere e chi li vuole respingere -, è più che necessario ribadire come i confini non sono altro che mezzi istituzionali e borghesi nel dividere e controllare le persone, difendendo così i privilegi (di classe, genere e razza) vigenti.

Le aziende legate al regime di Alexander Lukashenko fanno soldi con il traffico di migranti dal Medio Oriente. I giornalisti di FRONTSTORY.PL hanno trovato una di queste aziende.

Abbiamo conosciuto i meccanismi e le persone che stanno dietro al contrabbando.

Abbiamo ottenuto prove dirette dei legami del regime bielorusso con il traffico di migranti attraverso la Polonia.

Uno dei personaggi chiave che, dalla parte bielorussa, guadagnano soldi dal contrabbando di persone rifugiate è Majid Al-Qaysi, un uomo di 60 anni strettamente legato con il governo bielorusso. È un uomo d’affari, console onorario della Bielorussia a Baghdad, sostenitore di Lukashenko e [a stretto contatto] con i ministri. Ufficialmente, Al-Qaysi è comproprietario o gestore di una rete di aziende turistiche che offrono ai visitatori del Medio Oriente vacanze nella capitale bielorussa, visite ai musei e partecipazione a battute di caccia.

Questo è il sito ufficiale delle sue attività. I giornalisti di “frontstory.pl” hanno concordato che il progetto che conduce riguarda il contrabbando di migranti verso l’Occidente. I suoi clienti non visitano Minsk, non fanno shopping, non vanno all’acquapark o a caccia di alci. Invece, quelli guidati dalle società di Al-Qaysi pagano profumatamente i contrabbandieri per attraversare illegalmente il confine. I servizi turistici sono ormai una copertura per il contrabbando di persone. Siamo venuti a conoscenza dello schema del flusso di denaro in questa attività – attraverso degli intermediari, [i soldi] dei migranti arrivano ai conti delle aziende statali bielorusse. Siamo riusciti a raggiungere anche le vittime di Al-Qaysi.

Correre alla macchina
Questa storia inizia in Polonia, non lontano dal confine con la Bielorussia. Negli ultimi giorni di Ottobre (2021, ndt), un naturalista locale trova un fascio di documenti su un sentiero della foresta di Białowieża. La posizione non è casuale. Le carte si trovano a un centinaio di metri dalla strada che porta da Białowieża a Hajnówka [1]

Il percorso è molto trafficato e le auto dei contrabbandieri si fermano qui ogni giorno. I corrieri si organizzano per raccogliere le persone migranti nei boschi, nel caso in cui riescano ad attraversare illegalmente il confine, evitando le pattuglie militari e di polizia. Le auto li portano poi attraverso la Polonia, fino in Germania.

La polizia polacca è ben consapevole di ciò che sta accadendo e sorveglia la strada; così le persone migranti si nascondono nella foresta. Emergono quando viene dato un segnale e corrono verso le auto una volta che queste appaiono. I documenti, 16 fogli A4, sono stati probabilmente lasciati cadere da qualcuno che si stava dirigendo di fretta dal proprio nascondiglio all’auto.

L’uomo che trova i documenti li consegna ai volontari del Gruppo Granica (che aiuta i migranti dispersi nella natura polacca). Da lì finiscono nelle mani dei giornalisti di FRONTSTORY.PL.

Non c’è dubbio che i documenti siano strettamente legati a quanto sta accadendo al confine. Non sono completi, ma dalla loro analisi [viene dimostrata] la descrizione del meccanismo del traffico di esseri umani.

Come facciamo a saperlo? I documenti contengono, per esempio, dati di diverse decine di persone che hanno utilizzato i servizi di una società bielorussa per spostarsi dal Libano e dalla Siria in Europa. Tra questi, gli elenchi dei passeggeri delle compagnie aeree siriane, le prenotazioni dei voli da Beirut e Damasco a Minsk, l’elenco degli ospiti degli alberghi. Esiste anche un contratto tra un intermediario arabo e un bureau bielorusso che offre a 58 ospiti mediorientali una vacanza nella capitale bielorussa.

Se si tratta di un viaggio semplice, da dove provengono i documenti [trovati] sul tratto polacco della rotta dei contrabbandieri? Dove sono le persone che sono entrate in Bielorussia da Beirut e Damasco? Hanno visitato davvero i musei di Minsk o hanno pagato qualcuno per farli entrare di nascosto in Europa?

Abbiamo seguito una traccia di sedici fogli A4. Cosa abbiamo trovato?

Un assaggio di dittatura…

Iniziamo con l’azienda i cui dati compaiono nei documenti. Si tratta del Gruppo Belir, che ha sede nel centro di Minsk. Il suo proprietario è Majid Al-Qaysi, un uomo d’affari e diplomatico che fa parte delle delegazioni bielorusse in colloqui di alto livello. Rappresenta gli interessi bielorussi a Baghdad e le compagnie aeree irachene in Bielorussia. A Minsk, dove vive da 22 anni, lui e la sua famiglia possiedono diverse aziende e immobili costosi – queste informazioni siamo riuscite a trovarle con l’aiuto del progetto indipendente bielorusso Right Point.

Tra i documenti c’è l’accordo di Ottobre del Gruppo Belir con il 32enne siriano Bassel Kass Al-Kweider per le battute di caccia in Bielorussia con la partecipazione di ospiti stranieri. Una di queste si sarebbe svolta nei pressi del resort Bielyi Łoś; un’altra nella tenuta di caccia di Neman. Entrambe sono di proprietà della fabbrica di tabacco Niemen (“Grodzieńska Fabryka Tytoniowa “Niemen””), con sede a Grodno.

Struttura della fabbrica di Niemen. Fonte: http://www.tabak.by/

A caccia con il patrocinio della fabbrica Niemen? Può sembrare innocente.
Nel frattempo, l’azienda è soggetta a sanzioni statunitensi ed è sotto la tutela speciale di Alexander Lukashenko. È il più grande produttore di sigarette della Bielorussia; i suoi prodotti sono distribuiti illegalmente in tutta Europa e la cerchia ristretta del dittatore trae profitto dal contrabbando. Alexei Alexin, l’oligarca di fiducia di Lukashenko, è considerato il supervisore dell’operazione – ha il commercio esclusivo per la merce di Niemen. [2]

L’offerta del resort Bielyi Łoś. Fonte: Booking.com

Da Damasco alla linea Stalin

I documenti mostrano che per la partecipazione alla spedizione di caccia, ogni partecipante doveva pagare al Gruppo Belir l’equivalente di circa 430 dollari (1.100 rubli bielorussi) e il numero di partecipanti alla caccia non poteva essere inferiore a 58 persone. Ciò significa che la società Belir avrebbe potuto ricevere circa 25.000 dollari per ogni viaggio.

Il listino prezzi dei trofei è riportato in appendice al contratto. Se uno dei partecipanti avesse sparato a un daino, avrebbe dovuto pagare una sovrattassa di circa 2,3 mila dollari (6100 rubli bielorussi). Per un cervo 5 mila dollari.

LISTINO PREZZI DELLA CACCIA
Costo per persona: 230,00 rubli bielorussi (circa 90 dollari USA, 368 zloty polacchi)
Il prezzo include:

  1. Gita nei terreni di Biały Łoś AETK (località agro-eco-turistica) + visita alla sala dei trofei
  2. Utilizzo del poligono di tiro
  3. Escursione in fuoristrada alle voliere di una fattoria di caccia
  4. Cena a base di prede cacciate dagli ospiti (+ luccio alla griglia)
  5. Tè di gruppo

Spese di caccia

Nome Costo in BYN
Caccia al daino europeo (con un palco massimo di 5 punti)

(Con più di 5 punti)

6,100.00 Rubli bielorussi

1,100.00 Rubli bielorussi (per ogni punto)

Cervo rosso-maschio adulto (con un palco fino a 5 punti)

Con più di cinque punti

12,700.00 Rubli bielorussi

2,200.00 Rubli bielorussi (per ogni punto)

Giovani cervi (fino a un anno di età) 900.00 Rubli bielorussi
Cervo – cervo di prima scelta 2,000.00 Rubli bielorussi
Caccia agli animali in un recinto 220.00 Rubli bielorussi
Uso di un fucile 237.00 Rubli bielorussi
Munizioni 30/06 23.00 Rubli bielorussi

Il listino prezzi, poco appariscente, è una parte fondamentale dell’accordo. La formula della commissione di trofeo è conveniente: conferisce credibilità al deposito di qualsiasi importo [monetario] sui conti della società. La possibilità di verificare che i turisti abbiano effettivamente cacciato qualcosa è limitato. Invece, sulla base del listino prezzi, è possibile generare qualsiasi trasferimento comodo dal centro Biełyj Łoś verso la società statale Niemen.

Da altri allegati al contratto, apprendiamo che il gruppo mediorientale avrebbe trascorso 14 notti all’Hotel Białoruś di Minsk (dal 18 ottobre al 1° novembre di quest’anno). I viaggiatori avevano diritto a una colazione giornaliera.

Secondo il programma, i turisti dovevano trascorrere tre giorni di caccia. I giorni rimanenti dovevano essere riempiti con altre attrazioni: visitare le fortificazioni della Linea Stalin vicino a Minsk, il Museo dell’Antica Cultura Bielorussa o il Museo della Grande Guerra Patriottica. Gli organizzatori non hanno dimenticato di programmare una visita al parco acquatico o un giro di shopping.

Come abbiamo appurato, il programma del tour è una farsa. I partecipanti sono stati trasportati direttamente al confine tra Polonia e Bielorussia poco dopo l’arrivo a Minsk.

L’azienda di famiglia del diplomatico
Il [Gruppo] Belir esiste dal 2015. Fino a tre anni fa si trovava di fronte la prestigiosa ubicazione del palazzo presidenziale.

La pagina di Visit Belarus. Fonte Facebook

Oggi la pagina Facebook Visit Belarus e l’account Instagram gestiti da Belir sono inattivi. Si può scoprire su questi [siti], che la società organizza anche viaggi non turistici in Bielorussia per l’assistenza medica e visti per studenti.

Il contratto per la battuta di caccia è stato firmato a nome della Belir dalla sua direttrice, Olga Wiktorowna Oskirko, che non solo dirige la società, ma possiede anche il 40% delle azioni (le altre appartengono a Aimen Al Bakri e Majid Al-Qaysi).

Ricordiamo che quest’ultimo comproprietario è il console onorario della Bielorussia a Baghdad dal 2018.

Come ospite del ministro
Al-Qaysi è un cittadino iracheno che da anni risiede a Minsk e mantiene buoni rapporti con alti funzionari del regime di Lukashenko. Quanto [sono] buoni [questi rapporti]? Innanzitutto egli rappresenta formalmente gli interessi del regime in Iraq.
Qualche mese fa, si è presentato a Baghdad per i colloqui tra i viceministri degli Esteri di Iraq e Bielorussia come membro della delegazione bielorussa; e quando il rettore dell’Università di Baghdad si è recato a Minsk, Al-Qaysi lo ha accompagnato nell’edificio del Ministero degli Esteri e ha partecipato a un incontro con il viceministro.

Perché il consolato in Iraq, anche se onorario, è importante? La Bielorussia non ha una rappresentanza ufficiale in Iraq. I suoi interessi sono formalmente rappresentati dall’ambasciatore in Turchia. Quando [quest’ultimo] presentò le sue credenziali a Baghdad nel 2020, visitò il quartier generale di Al-Qaysi.

L’altro incarico onorario della Bielorussia è a Irbil, la capitale della regione autonoma del Kurdistan iracheno.
Le attività di entrambi hanno suscitato polemiche durante la crisi migratoria. Il motivo? “Procedure di visto semplificate” per le persone rifugiate. Il 6 novembre la Bielorussia chiuse ufficialmente entrambi i consolati su richiesta del Ministero degli Esteri iracheno. Da un comunicato dell’agenzia di stampa irachena INA: “(…) Questo passo è volto a proteggere i cittadini iracheni dalle reti di contrabbando di esseri umani attraverso il territorio della Russia e della Polonia”.

(traduzione) “In seguito alla decisione del Ministero degli Affari Esteri iracheno di chiudere il Consolato bielorusso, la bandiera della Bielorussia è stata abbassata davanti al Consolato onorario di Irbil! Centinaia di immigrati curdi continuano ad aspettare al confine tra Bielorussia e Polonia”.

Ne consegue che il comproprietario del Gruppo Belir, responsabile della presunta caccia, ha forti legami con il Ministero degli Esteri bielorusso. Inoltre, le sue attività in Medio Oriente sono state collegate al traffico di persone verso l’Europa.
Abbiamo chiesto a un portavoce del MAE iracheno informazioni sulla chiusura del consolato, ma non abbiamo ricevuto risposta.

Il signor Majid cambia cappello
Il console sessantenne è un personaggio colorito. Non si sottrae alle apparizioni in pubblico. Ha rilasciato dichiarazioni ai media fin dall’inizio della crisi dei migranti.

Giugno (2021, ndt), aeroporto di Minsk. Diversi giornalisti stanno preparando un reportage sulle persone migranti provenienti dal Medio Oriente che si dirigono direttamente dagli aerei al confine. Al-Qaysi si avvicina a loro, si presenta come console onorario, ma parla alla telecamera come rappresentante della compagnia aerea Fly Baghdad: “Noi, Fly Baghdad, non abbiamo fatto entrare un solo curdo. Faccio da filtro. Non li faccio entrare perché so che sono clandestini. Non invitiamo i curdi.

Ciò significa che Al-Qaysi usa diversi cappelli:

  1. console bielorusso a Baghdad – le cui attività sono state sospese dal Ministero degli Affari Esteri iracheno, senza alcuna motivazione specifica;
  2. è proprietario di un’agenzia di viaggi di Minsk, che organizza “cacce” per i turisti arabi durante il culmine della crisi migratoria;
  3. è un rappresentante ufficiale di una compagnia aerea che vola dal Medio Oriente all’Europa orientale.

Al-Qaysi è coinvolto negli sforzi di propaganda del regime (i media governativi bielorussi ritraggono la crisi come uno scontro tra sfortunati rifugiati e spietati servizi dell’Unione). Un esempio? In agosto, un giovane iracheno muore al confine tra Lituania e Bielorussia. Il regime avvia un’indagine falsa e spettacolarizzata sul caso, ordinando di trovare i parenti della vittima. Il giorno dopo, la famiglia del defunto è già a Minsk. All’aeroporto sono accompagnati da Al-Qaysi.

Al-Qaysi è un convinto sostenitore di Lukashenko. Nell’agosto 2020, quando la milizia e l’OMON reprimono violentemente le manifestazioni in Bielorussia, rilascia un’intervista al canale televisivo di propaganda STV.

Gente, che altro volete?
[Nella sua intervista televisiva, Al-Qaysi] ha elogiato la Bielorussia per essere un Paese pacifico e pieno di gente di buona volontà, rivolgendo un elogio personale ad Alexander Lukashenko: “Rispetto molto il presidente. Vorrei che ce ne fosse uno [come lui] nel nostro Paese [Iraq]. (…) So che quando vado a letto nessuno mi ruberà la casa. Cosa vuole di più la gente?”
In materia di case, Al-Qaysi può considerarsi un’autorità. Il console e i suoi parenti hanno accumulato una notevole fortuna in Bielorussia. Al-Qaysi e Olga Oskirko ( [quest’ultima]comproprietaria e direttrice di Belir) sono partner non solo negli affari. Entrambi hanno vissuto per anni nella stessa proprietà a Minsk e Oskirko rappresenta il loro figlio minorenne sul mercato immobiliare.

Quando il figlio del console aveva solo quattro anni, è diventato proprietario di una casa di cinque piani e di un terreno in un sobborgo di Minsk. La stessa Oskirko possiede una villa in un sobborgo della capitale. Il console Al-Qaysi possiede due grandi appartamenti e azioni di diverse società.
Le società formano un’intricata rete di azionisti e supervisori, collegati ad Al-Qaysi o alla sua partner Olga Oskirko.
Il Gruppo Belir lo conosciamo già. Oltre a ciò, il console possiede azioni della società turistica Ekstratur (parte della quale appartiene a Oskirko) e della società Geit Inwest.
Gli aerei volano, i rifugiati [li] assaltano
Torniamo all’aeroporto di Minsk, dove Al-Qaysi si è presentato come agente della compagnia aerea Fly Baghdad. Controlliamo: è proprio lui l’agente capo. Per un breve periodo, perché ha celebrato il lancio del suo primo volo a Minsk, accompagnato da funzionari bielorussi, a Maggio. Lo stesso mese in cui i rifugiati provenienti dal Medio Oriente hanno iniziato a comparire ai confini orientali dell’Unione [Europea].

Tre mesi dopo, il governo iracheno ha sospeso tutti i collegamenti regolari per Minsk. Fly Baghdad era riuscita ad effettuare fino a quel momento 22 voli da e per Minsk, con aerei in grado di trasportare quasi 200 passeggeri. Allo stesso tempo, più di 40 corse su quella rotta erano state effettuate da Iraqi Airways (Al-Qaisi l’ha rappresentata a Minsk e a Mosca prima di collaborare con Fly Baghdad). Durante questo periodo – da maggio ad agosto – almeno 4.000 persone si sono recate al confine tra Lituania e Bielorussia.

Continua nella Seconda Parte

Note dei traduttori
[1] Hajnówka si trova nel voivodato di Podlachia, al confine con la Bielorussia. Nell’intero territorio vi è presente la Prima Brigata “Władysław Liniarski” delle Forze di Difesa Territoriale (FDT) polacco. Come gruppo militare delle FDT ad Hajnówka vi è il 14° Battaglione di Fanteria Leggera. Nel Novembre del 2021 il 14° Battaglione, insieme all’11° (di stanza a Białystok) è stato utilizzato per contenere e reprimere le persone migranti al confine con la Bielorussia.
“Kryzys na granicy. Dwa bataliony Wojsk Obrony Terytorialnej postawione w stan gotowości”, 8 Novembre 2021.
Link: https://natemat.pl/383201,kryzys-na-granicy-z-bialorusia-dwa-bataliony-wot-wezwane-do-koszar

[2] Il “Progetto di investigazione sulla corruzione e il crimine organizzato” (in inglese “Organized Crime and Corruption Reporting Project”) ha riportato in un suo articolo come il contrabbando di tabacco sia aumentato a dismisura da quando Alexin gestisce la Niemen. La protezione governativa di Lukashenko verso Alexin favorisce entrambi gli attori in questione.
Fonte: “Soon After Taking Over Belarus’ Tobacco Industry, Oligarch Donated Luxury Cars to Lukashenko Regime”, 29 Novembre 2021.
Link: https://www.occrp.org/en/investigations/soon-after-taking-over-belarus-tobacco-industry-oligarch-donated-luxury-cars-to-lukashenko-regime

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Quarta Parte

Terza Parte

Levante e Murcia

A Valencia lo scontro tra CNT – UGT da un lato e militari golpisti dall’altro resta sospeso per una decina di giorni. Le caserme ribelli sono circondate dai lavoratori armati pronti all’assalto e nel frattempo nasce il Comité Ejecutivo Popular ( CEP ) a base sindacale e politica. Il governo di Madrid invia nella capitale del Levante un gruppo di politici nella veste di Junta incaricata di rappresentare il potere centrale ed evitare autonomie regionali troppo pronunciate. La Junta dovrebbe condurre le trattative con i militari insorti e assediati, far sospendere lo sciopero e «riportare l’ordine», ma è scarsamente operativa in quanto sostenuta solo dal Partido Comunista ancora poco potente. Dopo l’attacco vincente ai ridotti militari, tutto il potere passa al CEP e i politici della Junta, ormai inutile e superata dagli eventi, ritornano nella capitale. Di fatto il CEP controlla la città di Valencia, mentre tutte le ricche campagne circostanti, tra le più fertili dell’intera Spagna, e le cittadine industriali sono piuttosto dominate da spontanei Comités Revolucionarios di villaggio variamente organizzati e diretti: nel centro tessile di Alcoi e nella sede siderurgica di Sagunto l’egemonia è degli anarchici, a Gandia e Castellón vi è un sostanziale equilibrio fra CNT e UGT insieme ai partiti di sinistra (compresa la FAI ), ad Alicante è nominato un socialista come Gobernador Civil in un clima di stretta collaborazione con esponenti libertari.

Il CEP si occupa, come il Comité de Milicias in Catalogna, di ogni aspetto della vita sociale: dai rifornimenti alle milizie, dai Tribunales Revolucionarios alle questioni economiche. Nell’ottobre 1936, su proposta dei libertari, si forma dentro il CEP un Consejo de Economía a esclusiva partecipazione di CNT e UGT . Esso ambisce a coordinare la produzione, che in buona parte viene collettivizzata ed è autogestita dai contadini e dagli operai attraverso propri Comités e un autonomo servizio di esportazione dei preziosi agrumi. Il CEP viene però esautorato di fatto subito dopo il 7 novembre 1936 a causa del trasferimento da Madrid del governo di Largo Caballero, già con i quattro ministri anarchici. In compenso molti Ayuntamientos (comuni), tra cui quelli di Valencia e Alicante, oltre ad altri minori, esprimono un sindaco di area libertaria.

Da quanto visto, la partecipazione alla gestione delle istituzioni non è estranea al comportamento della CNT valenzana, anche perché nelle sue fila hanno acquisito notevole importanza, già al tempo della scissione dei Sindicatos de Oposición del 1933, elementi moderati e riformisti quali Juan López, futuro ministro. Questo atteggiamento possibilista è sia causa che conseguenza delle buone relazioni con gli aderenti alla UGT orientati verso Largo Caballero, leader formatosi nel sindacato socialista. Nel contesto successivo alla sconfitta elettorale del novembre 1933, quest’ultimo ha assunto posizioni più radicali mostrando aperta simpatia per la CNT .

Nondimeno nella regione di Valencia si fa notare al contempo un’irriducibile opposizione alla collaborazione governativa, costituita da una tendenza che comprende le Juventudes Libertarias, dirette da Abraham Guillén, sul piano politico e propagandistico e la Columna de Hierro sul piano militare e dell’azione diretta. Questa formazione miliziana, che regge con enormi costi umani gli scontri attorno e dentro Teruel, nel vicino sud aragonese, dichiara costantemente i propri principi anarchici, critica aspramente il «tradimento» dei vertici CNT -FAI che occupano posti governativi e rifiuta a lungo la militarizzazione.

Dovrà accettarla nel marzo 1937, ma una parte considerevole dei circa 20.000 combattenti preferisce disertare piuttosto che accettare un sistema gerarchico nella lotta armata [17] . I comunisti, che si presentano come garanti della piccola e media proprietà rurale, diffusa nel Levante ed esposta al rischio di collettivizzazione, sono accesi sostenitori dell’Ejército Popular con le sue gerarchie e quindi contrari al modello sostanzialmente egualitario delle milizie. Inoltre il PCE si impegna a fondo nel denunciare le violenze e i soprusi contro i civili che attribuiscono agli ex detenuti comuni liberati dalle carceri ed entrati nella Columna de Hierro.

A sud del Levante, nella regione della Murcia, si manifestano due diverse realtà: Cartagena, sede di industrie e della flotta militare spagnola, si schiera con la CNT ; la città di Murcia, al centro di una ricca serie di campi a piccola proprietà, si pone a lato della UGT . Nel porto mediterraneo, e in alcuni villaggi di minatori, le collettività si realizzano su larga scala, dalle miniere di ferro e zinco ai teatri, dalle fabbriche di conserve alimentari agli alberghi. Lo stesso sindaco di Cartagena appartiene alla CNT , che anche qui ha sviluppato buoni rapporti con la UGT . Molto interessante è quanto succede all’interno della flotta il 18 luglio 1936: i marinai sopprimono gli ufficiali che sostengono il golpe e si impadroniscono delle navi. Però la flotta non riesce a muoversi a causa delle difficoltà tecniche che gli equipaggi da soli non riescono a superare.

A Murcia il potere politico passa, senza colpo ferire, ai socialisti e ai repubblicani federalisti, mentre la CNT si dedica alle questioni economiche con la socializzazione di numerose entità produttive, dai trasporti alle non molte industrie come quelle della seta e dello sparto. Si concretizza un buon livello di collettivizzazione anche nella Huerta, zona irrigata e fertile, dove permangono comunque numerosi coltivatori individualisti senza che tra i due settori si riscontrino gravi tensioni o scontri. Ciò è dovuto ai buoni rapporti dei libertari con i repubblicani federalisti, ancor più che con i socialisti, e all’assenza di un forte partito comunista che fornisca protezione a chi si oppone alla collettivizzazione. Infatti il PCE ritiene che per vincere la guerra, che va condotta in modo tradizionale con un esercito gerarchico, sia necessario allearsi con la borghesia meno franchista e più democratica. Di conseguenza, non vanno realizzati cambiamenti rivoluzionari che potrebbero spaventare l’ipotetico alleato borghese, dentro e fuori della Spagna. Le collettivizzazioni, in questa visione, rappresentano una mossa controproducente rispetto alle necessità belliche. Le fila del partito si ingrossano con l’adesione, notevole nel Levante, di piccoli e medi proprietari sensibili alla difesa dei propri interessi economici.

Andalusia

Qui il panorama del golpe e della risposta popolare assume caratteri contrastanti.

A parte Cadice, Córdoba e Siviglia (la capitale conquistata con astuzia dal generale Queipo de Llano), il vasto ambiente rurale e le altre città minori restano in buona parte leali alla Repubblica. La situazione è destinata, nel giro di pochi giorni, a cambiare radicalmente per l’intervento delle truppe more e dei legionari italiani che riescono a sbarcare a Cadice e a occupare la regione sbaragliando una resistenza popolare scarsamente armata.

In più, da fine luglio aerei militari tedeschi e italiani collaborano al trasporto di truppe golpiste con uno dei primi ponti aerei della storia militare. Già a fine agosto 1936 l’Andalusia appare divisa in due parti: quella occidentale, a sud dell’Estremadura, ormai dominata dai militari golpisti, cui danno un appoggio armato i señoritos della Falange, i figli dei ricchi proprietari terrieri schierati in difesa dell’ordine tradizionale; e quella orientale, con l’eccezione delle città di Granada e Jaén, controllata dai repubblicani e dai rivoluzionari. L’estrema precarietà del fronte e le tendenze autonome di ogni villaggio rendono arduo il coordinamento politico e militare, che si forma solo a fine novembre 1936 con la partecipazione di tutte le forze, a cominciare dalla ben radicata CNT .

Il sindacato libertario andaluso ha assunto su di sé il compito di rispondere al secolare desiderio di emancipazione dei braccianti, una vasta massa di lavoratori particolarmente sfruttati dai latifondisti. Tra i braccianti si è sviluppata, già nell’Ottocento, una versione dell’anarchismo come soluzione alternativa, economica ed etica, all’ingiustizia e al privilegio dominanti. Questo movimento ha espresso molte rivolte rurali e ha resistito a una dura repressione statale, a opera specialmente della Guardia Civil, corpo fondato nel 1844 soprattutto per eliminare le insubordinazioni bracciantili.

Il fasto e la miseria coesistono da sempre in questa regione, abitata da terratenientes parassitari e da guerriglieri e banditi, e sono alla base delle ricorrenti violenze scatenate dalle popolazioni contro i padroni e i loro collaboratori e alleati, dagli intermediari dei latifondisti che gestiscono la produzione agraria ai preti che pretendono di imporre l’obbedienza come comandamento morale. Nel proletariato rurale andaluso, ipersfruttato, si giunge al punto di considerare un probabile nemico chiunque non abbia le mani callose, segno distintivo del lavoratore manuale.

A Malaga, più libertaria che repubblicana, improvvisati Tribunales Revolucionarios sono nominati da un Comité de Salud Pública sorto nei primi giorni su iniziativa dei due sindacati e al quale si aggregano rappresentanti politici.

Questi Tribunales esercitano una dura repressione per liberare la città da elementi nemici o sospetti tali: in sette mesi sono fucilati centinaia di reazionari e clericali. Qui la prevalenza di fatto è della CNT , che ha sostenuto il maggior sforzo militare per battere i golpisti e che si impegna a fondo nella riorganizzazione della vita economica e sociale.

La CNT non partecipa poi al nuovo Consejo Municipal, che esiste sulla carta ma che conta molto poco sul piano effettivo. Le collettivizzazioni si diffondono rapidamente, anche se non producono alcun organismo di coordinamento, mentre si costituiscono organi di polizia confederale che agiscono su due livelli: la scoperta e neutralizzazione degli elementi controrivoluzionari e la lotta contro gruppi e individui che vogliono approfittare della situazione per compiere rapine in case private.

Per questi ultimi è prevista la fucilazione sul posto.

L’egemonia anarchica, vanamente contrastata da un crescente Partido Comunista, subisce però il boicottaggio di aiuti e rifornimenti di armi da parte del governo di Largo Caballero insediato a Valencia. Di esso fanno parte anche quattro esponenti della CNT , evidentemente con scarse possibilità effettive. Attaccata dalle divisioni franchiste e dalle Frecce Nere italiane, la città cade nel febbraio 1937 e paga la propria autonomia e resistenza con migliaia di fucilazioni. A completare il quadro, le colonne di fuggitivi che si dirigono verso nord, ad Almería, sono mitragliate dall’aviazione legionaria italiana.

Estremadura e Vecchia Castiglia

Nella poco popolata Estremadura inizialmente vincono i repubblicani, eccetto che nella provincia settentrionale di Cáceres, la più vicina alla Castiglia del nord, l’unica regione dove i golpisti trionfano quasi subito anche per l’appoggio delle organizzazioni cattoliche dei piccoli proprietari terrieri. Vengono subito costituiti organismi unitari in cui i socialisti, elettoralmente maggioritari, sono ridimensionati da due forze a loro volta rivali: la CNT e i comunisti. Nel giro di qualche settimana giungono però le truppe ribelli che conquistano la capitale Badajoz e congiungono i territori in mano agli insorti da Cadice a sud a León e Saragozza a nord. A Badajoz migliaia di oppositori al golpe sono passati per le armi nella Plaza de Toros cittadina. Le notizie sulle dimensioni di tale massacro si diffondono presto e sono spesso la causa di uccisioni per rappresaglia in territorio repubblicano. La Vecchia Castiglia, collocata a sud e sud-est di Madrid, vede un’evoluzione politica delle forze antigolpiste simile all’Estremadura, con la differenza che la regione resterà repubblicana fino agli ultimi giorni del conflitto. Anche qui i socialisti – quindi la UGT , maggioritaria sulla carta – devono cedere porzioni consistenti di consenso di fronte alla presenza più dinamica della CNT e, dall’altro lato, del PCE . Nelle campagne la collettivizzazione è ampia e coordinata, dal marzo 1937, da un accordo fra CNT e UGT che prevede la difesa delle nuove realtà produttive contro gli attacchi, inizialmente solo propagandistici, dei comunisti, che detengono di fatto il potere politico locale. Come nel vicino Levante valenzano, è la CNT a costituire l’avanguardia delle trasformazioni economiche, mentre la UGT si associa per la semplice ragione che gran parte della sua base aderisce con entusiasmo al nuovo assetto collettivista. Si creano quindi numerose entità collettivizzate sotto l’etichetta della UGT , altre in collaborazione con la CNT , oltre a quelle esplicitamente libertarie. I comunisti concentrano sulla regione un notevole sforzo organizzativo che li porta a conquistare, ad esempio a Cuenca, importanti cariche istituzionali, come quella di Governador Civil attribuita dal governo centrale.

Madrid

Madrid presenta un quadro molto complesso e delicato. Malgrado i proclami dei golpisti, le loro truppe addestrate e ben rifornite sono fermate alle porte della città, dove giungono nell’ottobre del 1936. Non vi entreranno fino al marzo 1939. La resistenza – che si esprime con uno slogan che avrà notevole fortuna: «¡No pasarán!» – è il frutto di un’emergenza che costringe le varie tendenze politiche antifasciste a una politica di stretta collaborazione. L’intervento delle Brigate Internazionali e dell’aviazione sovietica, deciso poco tempo prima da Mosca, apporterà un contributo rilevante. Nelle infuocate giornate attorno e dopo il 19 luglio, la CNT acquista nella capitale una forza prima sconosciuta, che si limitava in pratica alla combattiva ma minoritaria categoria degli operai edili. Infatti il carattere più borghese e piccolo borghese della capitale di uno Stato accentratore con un’amministrazione elefantiaca, nonché la presenza della categoria relativamente privilegiata dei tipografi, avevano favorito per lungo tempo la diffusione del socialismo moderato della UGT , a livello di massa, e del PSOE come apparato politico e amministrativo.

Poco conta, fino al luglio 1936, il PCE e ancor meno il POUM. Pur essendo la sede del governo repubblicano, il controllo della situazione madrilena sfugge durante il golpe ai politici di professione. L’assalto alla grande caserma della Montaña permette alla CNT di entrare in possesso di una considerevole quantità di armi e di costituire subito molte formazioni miliziane che partono per opporsi ai golpisti sulle Sierras nel nord e a Toledo nel sud. L’autonomia si concretizza addirittura nella creazione di una propria scuola di guerra dove si formano gli ufficiali della CNT attivi nell’esercito repubblicano e nelle squadre di polizia rivoluzionaria. D’altronde ogni organizzazione antifascista dispone di proprie Checas, dalla sigla russa di Commissione Straordinaria, la polizia rivoluzionaria nata subito dopo l’ottobre 1917 e destinata a combattere i controrivoluzionari. L’autorganizzazione cenetista si deve fermare dopo qualche settimana in quanto la gravità dell’assedio dei ribelli, i bombardamenti aerei, le urgenze militari in genere ostacolano sia i tentativi rivoluzionari sia le poche collettivizzazioni realizzabili. L’edilizia e il trasporto sono praticamente fermi e nelle banche l’egemonia della UGT , diretta da uno stalinista, toglie ogni possibilità di intervento.

A partire dal settembre 1936, il PCE conosce a Madrid, come in altri centri, una rapida crescita per una serie di motivi: la propria struttura fortemente gerarchica e militarizzata sembra rispondere adeguatamente alle necessità del momento, l’adesione di ufficiali di carriera e funzionari governativi, l’attrazione verso la gioventù antifascista cui offre un efficiente strumento di lotta armata, il controllo della propaganda grazie alle notevoli risorse provenienti dall’ URSS , nonché la gestione degli aiuti militari della stessa origine, gli unici veramente importanti. L’ascesa irresistibile dei comunisti filostaliniani preoccupa la CNT che, per non perdere troppi spazi, decide di imitare il loro modello, quindi di centralizzare le decisioni e di militarizzarsi. Questo processo di esaltazione della disciplina e dell’obbedienza viene gestito dal Comité de Defensa del sindacato che, in teoria, dovrebbe sottostare al Comité Regional della CNT , ma che di fatto lo esautora.

Il 7 novembre 1936, il governo di Largo Caballero abbandona la città che potrebbe cadere da un momento all’altro per mettersi al sicuro nella lontana e tranquilla Valencia. Prima di partire nomina una Junta de Defensa, sotto il comando del generale José Miaja, alla quale partecipano varie organizzazioni tra cui la CNT e la FIJL . Ben presto la Junta conquista una notevole indipendenza dal potere governativo e la CNT lancia il proclama «¡Viva Madrid sin gobierno! ¡Viva la Revolución Social!», anche se le possibilità sono realisticamente poche e incerte. A fine novembre le milizie della CNT sono abolite dallo stesso sindacato e i suoi combattenti entrano nella 39a Brigata, parte integrante dell’Ejército Popular. Secondo i dirigenti libertari, messi in difficoltà dalla dilagante iniziativa comunista, l’alternativa ormai è «militarizarse o desaparecer» [18] .

Malgrado qualche contrasto, la linea che si impone a Madrid è quella di adattarsi all’emergenza bellica e competere, sul piano dell’organizzazione della lotta armata, con la presenza sempre più opprimente del PCE . Quest’ultimo ha esteso all’Ejército Popular il modello strettamente gerarchico del 5° Reggimento, sciolto nel dicembre 1936. Si trattava di una formazione esplicitamente staliniana, con Enrique Lister come comandante militare e Carlos Contreras (alias Vittorio Vidali) come commissario politico, che disponeva di decine di migliaia di combattenti e di un notevole apparato burocratico, poliziesco e propagandistico [19].

Paradossalmente, l’incalzante predominio dei comunisti spinge verso la CNT una serie di esponenti dei ceti medi, di antica simpatia socialista, impauriti dal quasi monopolio stalinista del potere. Avviene cioè un fenomeno simile, ma opposto, a quanto successo a Barcellona. Proprio a causa dei conflitti fra PCE e CNT , alleata di socialisti e repubblicani, ma anche grazie alla migliorata situazione militare, il governo di Largo Caballero decide di sciogliere la Junta nell’aprile 1937 e di varare un Consejo Municipal al quale partecipano tutte le componenti del fronte antifascista. Le tensioni interne al Consejo restano, ma sembrano poco evidenti fino al febbraio 1939, appena prima della vittoria franchista, quando si assiste all’ultima tappa del latente, e talvolta esplicito, conflitto armato tra antifascisti.

Fine del Capitolo III
Continua nella Quinta Parte, Capitolo IV

Note al capitolo
[17] Un testo con simpatia storica e umana in A. Paz, Cronaca appassionata della Columna de hierro, Autoproduzioni Fenix, Torino, 2006.
[18] C.M. Lorenzo, Los anarquistas españoles…, cit., p. 174, n. 54.
[19] Le memorie di un comandante militare in E. Lister, Con il 5o Reggimento, Nuove edizioni romane, Roma, 1968. La ricostruzione del commissario politico in V. Vidali, La caduta della Repubblica, Vangelista, Milano, 1979.

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Terza Parte

Seconda Parte

Situazioni regionali [13]

Catalogna

Le giornate successive al 19 luglio 1936 a Barcellona vedono una singolare coesistenza tra un potere reale, quello del Comité de Milicias Antifascistas, e uno legale superstite dell’ordine precedente, quello della Generalitat. Per alcune settimane quest’ultima si limita a legalizzare con appositi decreti quanto deliberato dal Comité: il 23 tocca allo stesso Comité, come se già non detenesse il potere di fatto; il 27 al Consell d’Escola Nova Unificada ( CENU ), che si occupa dell’istruzione pubblica ormai rifondata; l’11 agosto alle Patrullas de Control, organismi di lavoratori che rimpiazzano la polizia tradizionale; il 17 agosto all’Oficina Jurídica addetta alle questioni penali e civili, e così via. Alla fine di agosto si svolge un decisivo Plenum dei tre rami del Movimiento Libertario, cioè la triade CNT – FAI – FIJL , che rafforza la scelta della collaborazione antifascista quale priorità rispetto alla immediata realizzazione del «comunismo libertario», l’obiettivo indicato da vari congressi. Il passo successivo è già prospettato da Companys, il presidente della Generalitat, che insiste in particolare con Mariano R. Vázquez, segretario del Comité Regional della CNT (insediatosi nel frattempo in un enorme e centrale palazzo, già proprietà del politico conservatore Francesc Cambó). L’assenso a entrare nella Generalitat è sostenuto da ragioni forti quali il rischio di emarginazione progressiva dai posti decisionali, quelli da cui la CNT – FAI – FIJL avrebbe potuto aiutare concretamente i suoi militanti impegnati su due fronti delicati: le milizie e le collettivizzazioni.

Inoltre, e il tema viene ribadito più volte, l’immagine internazionale della Catalogna e la sua credibilità nella richiesta di aiuti alle democrazie occidentali sarebbe stata indebolita dall’esistenza di un vertice politico non rappresentativo in quanto privo dell’importante componente libertaria. Si valuta poi che l’eventuale assenza dal governo regionale avrebbe favorito l’aumento dei posti occupati dal PSUC , il partito a egemonia comunista che si presenta come il più determinato oppositore della rivoluzione in atto.

In effetti la sua tattica va nel senso del ripristino della democrazia borghese rinviando ogni trasformazione sociale al dopoguerra.

Anche Diego Abad de Santillán, a nome della FAI , appoggia l’orientamento favorevole, considerando che l’impegno bellico richiede la disponibilità di armi e munizioni di cui la Catalogna è carente. Come abbiamo visto, García Oliver prospetta invece l’imposizione di una «dittatura anarchica», un’evidente contraddizione, sugli altri partiti e sindacati. E si dichiara pronto a seguire questa strada senza indecisioni e usando la necessaria violenza. In un certo senso, proprio la sua mozione, con il carico di avventurismo e di negazione dei principi e dei valori dell’anarchismo, favorisce la scelta della collaborazione, forse meno contraddittoria e pensabile come provvisoria, ovvero dettata dalle straordinarie contingenze.

La decisione finale mantiene una riserva di coerenza: la FAI «inmaculada» [14] rifiuta il posto nel governo autonomo proposto da Companys. Il sindacato assume invece il ruolo realista e collaborazionista con l’autorità borghese regionale.

Verso la fine del settembre 1936 si svolge un congresso regionale della CNT , con più di 500 delegati, nel quale si ratifica la linea intrapresa dal Plenum un mese prima. L’ingresso nel Consell de la Generalitat, definizione meno compromettente e irritante di «governo», avviene il 27 settembre e la CNT occupa i ministeri dell’Economia, dei Rifornimenti e della Sanità: tre su dodici. Il Comité de Milicias Antifascistas viene sciolto il 1o ottobre e le sue funzioni passano al ministero della Difesa, retto ufficialmente da un tecnico, il colonnello Felipe Díaz Sandino, ma nel quale García Oliver ha una sorta di supervisione: di fatto, a livello regionale, è il quarto ministro anarchico.

Aragona

La metà occidentale della regione, compresa Saragozza, resta in mano ai militari ribelli. La capitale regionale cade alla fine di luglio dopo un tentativo di resistenza operaia boicottata, anzi tradita dal Gobernador Civil che garantisce la lealtà della guarnigione e respinge la proposta di dare le armi al popolo in vista dell’imminente golpe. Già il 18 luglio i falangisti si impadroniscono dei depositi di armi e iniziano la limpieza (pulizia) capillare nella capitale e nei villaggi. La CNT mostra indecisione in quanto vari dirigenti locali credono alle rassicurazioni del Gobernador Civil, rappresentante del governo repubblicano, e perfino del vecchio generale Cabanellas che conferma la fiducia nelle truppe e nel loro «senso dell’onore». Viene perciò dichiarato solo uno sciopero generale che dura una settimana: sarà stroncato eliminando fisicamente, casa per casa, centinaia di attivisti anarcosindacalisti.

La tragica sconfitta subita a Saragozza spinge i militanti che riescono a fuggire ad assumere posizioni intransigenti e a diffidare degli esponenti del potere repubblicano. È proprio per rispondere alla delusione verso i dirigenti della Repubblica che si convoca un Plenum straordinario della CNT di Aragona che dà vita al Consejo de Defensa de Aragón. È una forma istituzionale autonoma da Madrid, in pratica un governo monocolore creato dalla CNT regionale insieme ai delegati delle colonne confederali catalane presenti nella regione, tra cui quella di Durruti. Non vi partecipano altre formazioni politiche, repubblicane o socialiste che, pur invitate, preferiscono astenersi. Il presidente del Consejo è Joaquín Ascaso (cugino di Francisco, caduto a Barcellona il 19 luglio), un sostenitore della linea anarchica più radicale. Uno degli obiettivi è di contrastare la crescente influenza del marxismo, sia staliniano del PSUC che antistaliniano del POUM . In particolare il PSUC ritiene abusive e illegali le collettività e dove può frappone ostacoli alla loro attività. In pratica la linea di García Oliver, quella della «dittatura anarchica», trova una sua parziale applicazione in terra aragonese e lo stesso Comité Nacional della CNT viene avvisato a cose fatte.

L’esistenza del Consejo aragonese a esclusiva composizione anarchica pone problemi alla linea di collaborazione antifascista seguita da quasi tutta la CNT , che infatti ha previsto di partecipare a organismi unitari, come è avvenuto in Catalogna e come, di lì a poco, avverrà a Madrid. Già dopo un paio di settimane una delegazione del Consejo si incontra con Companys, che esprime un’irritata protesta per la costituzione di un potere autonomo aragonese, anche perché considera l’Aragona rurale e povera un’appendice dell’industriale e ricca Catalogna e dunque intende esercitarvi il potere della Generalitat.

Meno ostili appaiono Francisco Largo Caballero, al vertice del suo primo governo, e lo stesso Manuel Azaña, presidente della Repubblica. Tutti però richiedono, per riconoscere il Consejo de Aragón, che includa rappresentanti di ogni formazione antifascista. La legalizzazione del Consejo avviene nella seconda metà di novembre del 1936, ma di fatto esso entra in funzione solo agli inizi del 1937. A quel punto la partecipazione è estesa a rappresentanti della UGT , della Izquierda Republicana, del Partido Comunista e del piccolo Partido Sindicalista, quello di Pestaña, che ha operato da ponte tra il vecchio e il nuovo Consejo.

Il quasi governo rivoluzionario di Aragona è costretto per mesi a una cauta semiclandestinità per evitare azioni armate aggressive da parte di alleati antifascisti come i comunisti, che «per errore» bombardano la sede del Consejo, un palazzetto del villaggio di Montejulia, presso Binéfar, nel dicembre 1936 [15] . Nel frattempo le accuse di «cantonalismo», cioè di tentata indipendenza dal potere centrale, fioccano sul governo autonomo aragonese. Tali critiche usano fatti reali quali gli scambi autonomi con alcuni Stati esteri (Francia, Cecoslovacchia, Jugoslavia), cui sono venduti prodotti agricoli in cambio di armi e di macchinari agricoli. Un altro terreno di polemica è l’aiuto istituzionale elargito all’organizzazione delle collettività agricole con l’assenso e la protezione del congresso costitutivo della Federación Regional de Colectividades, tenutosi a Caspe, nella stessa sede del Consejo, a metà febbraio 1937.

Un ambito molto delicato, dove le contraddizioni tra teoria utopica e pratica storica risultano patenti, è costituito dalle attività dei Grupos de Investigación y Orden Público, la nuova polizia del Consejo. Questi sono formati per lo più da miliziani dei vari villaggi che spontaneamente si impegnano a neutralizzare l’opposizione reazionaria, i sabotatori e i delinquenti comuni. Adesso essi rispondono a un controllo istituzionale, il Consejo, e portano i sospettati davanti a tribunali popolari formati da membri della CNT ; non viene perciò più applicata la giustizia sommaria dei primi giorni dopo il golpe. Sono poche le sentenze di morte pronunciate da questi tribunali, che piuttosto impongono ai condannati lavori manuali come la costruzione di strade e di altre opere pubbliche. Il Consejo non dispone di un proprio esercito in quanto gran parte dei miliziani aragonesi entrano nelle divisioni confederali, per lo più catalane, schierate proprio sul fronte aragonese, e infatti lo sforzo bellico principale di Consejo e collettività consiste nel far arrivare alimenti e altre forniture alle truppe. In sostanza, dopo la ristrutturazione dei componenti, il potere decisionale del Consejo resta alla CNT , anche se nei villaggi i Comités Revolucionarios dell’estate del 1936 sono sostituiti dai Consejos Municipales. Tutta questa esperienza, pur se problematica, anche per le relazioni non sempre idilliache tra Federación de Colectividades e Consejo, cioè tra l’aspetto economico e quello politico della rivoluzione sociale, viene distrutta all’inizio di agosto del 1937. L’intervento militare della 11a Divisione, di stretta osservanza comunista, gioca di sorpresa e anticipa di un paio di giorni la decisione ufficiale di scioglimento del Consejo de Aragón presa dal nuovo governo di Juan Negrín insediatosi dopo il maggio 1937 [16] .

Paesi Baschi, Asturie, Santander

Nei Paesi Baschi (detti anche Euskadi, cioè terra dei baschi o, al giorno d’oggi, Euskal Herria, cioè terra dove si parla basco), la debolezza congenita della CNT condiziona il suo atteggiamento dopo il 19 luglio. In una regione dove tra gli operai domina da tempo la UGT , dove il Partido Comunista conta su speciali appoggi sovietici e su forti personalità (come quella nota internazionalmente di Dolores Ibarruri, La Pasionaria, molto attiva anche nelle Asturie), dove il clero controlla buona parte delle classi medie e delle campagne, talora sotto la veste del carlismo nostalgico, lo spazio per l’anarcosindacalismo è piuttosto ristretto. Un sintomo evidente è il fatto, poco consueto nella Spagna repubblicana in guerra, che le chiese non siano assaltate né trasformate in luoghi laici, depositi o mense, ma mantengano la loro funzione tradizionale.

La risposta della massa operaia, che a Bilbao ottiene la resa della guarnigione, permette di formare un Comisariado de Defensa de Vizcaya che assume il controllo della situazione. A esso collabora la CNT rappresentata da Horacio Prieto, leader moderato e molto favorevole al fronte unico antifascista. Il Comisariado è ostacolato dai nazionalisti baschi, di gran lunga la forza maggioritaria, che ne ottengono lo scioglimento per dar vita a una Junta de Defensa orientata in senso autonomista. Nel luglio 1936 il Partido Nacionalista Vasco resta incerto, per più di una settimana, sulla scelta del fronte nel quale schierarsi e solo la promessa di uno statuto autonomo lo spinge a porsi al lato della Repubblica. Le sue posizioni conservatrici e cattoliche non cambiano e ogni collaborazione con i sindacati, anche socialisti, è accantonata. La CNT , che ha avuto un notevole ruolo nella difesa di San Sebastián nei primi giorni del golpe, viene esclusa dalla Junta de Defensa malgrado l’adeguamento degli anarcosindacalisti locali al modello gerarchico dell’esercito, al rispetto assoluto dell’istituzione religiosa, alla rinuncia a procedere a collettivizzazioni. L’emarginazione dal potere politico nei Paesi Baschi è un punto dolente per tutta la CNT spagnola, che ripetutamente eleva proteste e richieste a tal proposito. Questo atteggiamento rivendicativo di spazi istituzionali costituisce un’altra controprova dell’evoluzione «circostanzialista» del sindacato. Le nuove ed eccezionali circostanze della guerra civile stanno trasformando la prassi del sindacato, fondato nel 1910 su azione diretta e antipoliticismo.

Nelle Asturie, luogo della rivolta CNT – UGT dell’ottobre 1934, la situazione del nuovo potere ha tratti di originalità. La capitale, Oviedo, città più che altro socialista, cade in mano ai ribelli grazie alla doppiezza del comandante militare locale che proclama la fedeltà assoluta al governo mentre congiura con la Guardia Civil e i falangisti. Questi infatti spedisce migliaia di operai bene armati in direzione di Madrid «per difendere la capitale» ed evita così la sicura opposizione proletaria. Attorno alla città portuale di Gijón, roccaforte libertaria, il golpe invece è sconfitto in pochi giorni nel centro urbano e in un paio di settimane nella provincia. Il territorio asturiano sottratto ai generali golpisti si collega quindi alla provincia di Santander a est, mentre a ovest la Galizia diventa, nel giro di alcuni giorni e dopo aspri combattimenti, una regione del tutto in mano ai golpisti che procedono a fucilazioni di massa.

Un Comité Provincial de Asturias, controllato in sostanza dai socialisti, assume il potere in buona parte della regione interna – meno Oviedo e Gijón per motivi opposti – e si occupa subito di armare i miliziani e di provvedere ai rifornimenti alimentari. Alla fine di settembre si trasferisce nella più sicura Gijón libertaria, dove è attivo un Comité de Guerra a composizione unitaria per quanto animato dalla CNT . Nel frattempo le industrie, la pesca e le imprese artigiane sono socializzate; nelle campagne, dove domina la piccola proprietà autosufficiente, non si realizza invece alcuna collettivizzazione.

Tra i due Comité, malgrado le divergenze ideologiche di fondo, vi è una solida alleanza attorno ai temi della riorganizzazione della vita sociale e della resistenza armata. Le stesse colonne miliziane, ben presto militarizzate con una rigida disciplina, vedono la partecipazione indistinta di anarchici e socialisti a fianco dei meno importanti comunisti e repubblicani. Il Tribunale Revolucionario assume decisioni drastiche solo in conseguenza degli eccidi compiuti dall’esercito insorto nella vicina Galizia e delle notizie sulle numerose vittime civili dei bombardamenti. Le chiese sono chiuse, ma non saccheggiate, e il clero è ridotto allo stato civile senza essere perseguitato. La collaborazione CNT – UGT , avviata nella «Comune asturiana» dell’ottobre 1934, continua a produrre i suoi effetti unitari al punto che, dopo l’entrata della CNT nel secondo governo di Largo Caballero ai primi di novembre, il Comité de Guerra libertario e i Comités dei villaggi si sciolgono. Molti loro esponenti entrano nei Consejos Municipales: a Gijón il nuovo sindaco è il militante cenetista Avelino G. Mellada e un’analoga situazione si ripropone in altri comuni minori.

Da questa intesa sorge il Consejo de Asturias y León che ottiene un’autonomia completa nel dicembre 1936, autonomia scontata poiché ormai la regione si trova isolata dal resto della Spagna repubblicana. Nel Consejo sono rappresentate tutte le forze antifasciste e anche la FAI, ufficialmente clandestina.

L’ambiente libertario vede con favore la partecipazione della CNT al governo antifascista e solo le Juventudes vi si oppongono pubblicamente, criticando in particolare la militarizzazione in atto. Un punto di accordo fra anarchici e socialisti risiede nella condivisa ostilità verso i comunisti, che in questo territorio non riescono a trarre giovamento dal clima di emergenza bellica. Anzi, devono persino subire la censura del loro periodico mentre le altre testate escono regolarmente.

L’autonomia diventa completa sovranità per decisione del Consejo Regional nell’agosto del 1937, quando il governo centrale, dopo il maggio barcellonese, non è più del socialista Largo Caballero, relativamente vicino alla CNT , bensì di altro socialista, Juan Negrín, più vicino al PCE . A questo punto l’attività principale del Consejo consiste nell’organizzare l’evacuazione del maggior numero possibile di asturiani che fuggono davanti all’avanzata dell’esercito di Franco. L’ormai Generalísimo e Jefe (capo) de Estado, che ha concentrato su di sé tutto il comando, occupa Gijón nell’ottobre del 1937 e dà avvio a una politica di terrore capillare per impedire qualsiasi resistenza (una limitata guerriglia durerà nelle vicine montagne ancora per diversi anni).

Nella zona di Santander, compresa la città, e nelle provincie di Burgos e Palencia, escluse le capitali, esiste da tempo un predominio della UGT . Data la sua forza, in questo sindacato socialista si riscontra una particolarità: vi militano vari anarcosindacalisti sensibili all’unità di classe prima che all’appartenenza organizzativa. Solo dopo il decreto di sindacalizzazione obbligatoria dell’11 ottobre 1936 la CNT amplia le sue schiere, accogliendo la maggior parte dei lavoratori di orientamento repubblicano che hanno motivi di ostilità verso i socialisti. Le milizie sono di natura ideologicamente mista e il Comité del Frente Popular Amplio comprende esponenti della CNT e della FAI . Santander cade nell’agosto 1937, seguendo la resa dei Paesi Baschi, per la crisi irreversibile di tutto il fronte nord della Repubblica. Una larga fascia di territorio produttivo, con il carbone e i prodotti agricoli asturiani, il ferro della Vizcaya, l’industria metallurgica di Gijón e Bilbao, diventa quindi un retroterra assai utile alle truppe franchiste dal punto di vista dei rifornimenti militari e della disponibilità di uomini in divisa.

Continua nella Quarta Parte

Note al capitolo
[13] Le descrizioni seguenti, necessarie per valutare la situazione molto diversa fra regione e regione, sono sviluppate a partire soprattutto dai testi analitici di C.M. Lorenzo e di J. Peirats.
[14] C.M. Lorenzo, Los anarquistas españoles…, cit., p. 100.
[15] Ivi, p. 123.
[16] Riflessioni ampie sull’esperienza del Consejo in G. Kelsey, Anarcosindicalismo y Estado en Aragón: 1930-1938, Fundación Salvador Seguí, Madrid, 1994 e in J. Casanova, Anarquismo y revolución en la sociedad rural aragonesa, 1936-1938, Siglo XXI , Madrid, 1985.

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Il movimento anarchico e la guerra civile spagnola – Seconda Parte

Prima Parte

Nella foto a sinistra: “Biblioteca del Ateneo Libertario de la barriada del Clot” di Barcellona; nella foto a destra: Biblioteca de la Asociación Cultural Libertaria “Escuela Armonía” di Barcellona

 

Una cultura alternativa e popolare

Gli Ateneos Libertarios ( AL ) sono un importante aspetto dello sviluppo del movimento durante la Seconda Repubblica e conoscono un formidabile potenziamento nell’estate del 1936. Già agli albori del Novecento e poi soprattutto nei primi anni Trenta erano stati fondati numerosi Ateneos con il preciso intento di diffondere la cultura e l’etica antiautoritarie, nonché una socializzazione alternativa a quella borghese e a quella «finto popolare», una sorta di sottocultura prodotta in realtà dalla borghesia. Diversamente dai circoli repubblicani e socialisti, che hanno finalità parallele, nei centri anarchici sono esclusi, almeno in linea di principio, consumi ritenuti dannosi come le bevande a forte gradazione alcolica, il caffè, i giochi d’azzardo e certi balli. Vengono considerati negativamente anche quei divertimenti «disumani» o «irrazionali» promossi dalla società borghese come la corrida, gli sport di massa, il teatro frivolo e logicamente la prostituzione.

Gli AL si oppongono frontalmente ai luoghi voluti dal potere e tradizionalmente deputati ad attrarre e condizionare le masse subordinate: parrocchie e taverne. Su un altro piano, sono altrettanto disprezzati i centri ricreativi per borghesi come i casinos esclusivi e classisti. Gli AL cercano di offrire un’«etica del tempo libero» coerente con le finalità del movimento libertario inteso in senso ampio, che va oltre la CNT , la FAI e la Federación Ibérica de Juventudes Libertarias ( FIJL ), per comprendere anarcoindividualisti, antimilitaristi, esperantisti, naturisti e salutisti di vario tipo. Sullo sfondo si può intravedere l’influenza dei discorsi del militante e pensatore individualista francese E. Armand (pseudonimo di Ernest Le Juin) sul «vivere quotidianamente l’anarchia» [10] .

I valori morali proposti dagli AL si fondono con quelli dell’identità operaia libertaria e prevedono il comportamento corretto sul lavoro, l’impegno nell’attività sindacale, la dedizione alla Causa, la solidarietà con i compagni di lavoro e di sentimenti rivoluzionari. Tutto ciò in stretto collegamento con due principi di rispettabilità individuale validi per buona parte degli spagnoli: l’onestà e l’onore. In particolare quest’ultimo si ritrova molto spesso nei testi di propaganda e di dibattito interno, e ciò indica che la versione spagnola dell’anarchismo presenta caratteri radicati nella storia culturale del paese in generale e non solo delle sue classi popolari.

La parola svolge una funzione essenziale nella formazione che si acquisisce in questi centri culturali. Dalle conferenze ai dibattiti, dai corsi alle letture collettive, l’ascolto costituisce una forma di apprendimento semplice e costante. Tra l’altro, la forma di comunicazione verbale privilegiata negli AL rende accessibili i valori libertari ai frequentatori ancora in via di alfabetizzazione.

Ogni Ateneo possiede una biblioteca più o meno fornita e una raccolta di periodici, riviste e opuscoli, e spesso i suoi aderenti collaborano a una delle centinaia di testate locali, sia sindacali che edite da gruppi del movimento specifico.

A militanti, iscritti e simpatizzanti si offrono di frequente opere teatrali e cinematografiche con contenuti socialmente impegnati o, nella buona stagione, gite naturalistiche per l’apprendimento scientifico e l’ulteriore socializzazione. Avere ben presente l’influenza di questa pedagogia variamente scientista, ecologica e antireligiosa è indispensabile per capire la definizione dell’immaginario libertario, l’identità dei suoi aderenti, le forme di azioni intraprese, sia a livello di propaganda che di scontro. Come ha rilevato José Álvarez Junco, già nell’Ottocento l’anarchismo spagnolo ha prodotto un enorme sforzo culturale che ruota attorno alla scoperta della scienza come alternativa alla religione [11] . L’idea di progresso razionale, alla base della nascita di molti Ateneos, è lo strumento per demolire alcune «irrazionalità sociali»: l’autorità politica, l’esercito, la Chiesa cattolica, oltre ovviamente alla classe capitalista e alla burocrazia.

Soprattutto tra i giovani e tra le donne le proposte istruttive e di «divertimento intelligente», dall’arte alla letteratura, contribuiscono alla maturazione dei singoli, base dei movimenti collettivi di lotta antiautoritaria. Questo ambiente antagonista alla cultura dominante serve anche durante certe fasi più difficili – ad esempio durante la dittatura di Primo de Rivera – per mantenere i fili organizzativi e coltivare l’attesa di una prossima liberazione. Alcune risposte forti dell’anarchismo dopo lunghi periodi di quasi inattività, dovuti alla forzata clandestinità, sono meno sorprendenti se vengono collegati alla continuità di un quasi silenzioso sforzo culturale. Dotare gli aderenti di una visione del mondo e di un insieme di valori etici facilita la ricostruzione del movimento e il suo protagonismo in contesti storici cruciali. Così è accaduto nel 1931 e, in modo diverso, nei primi mesi del 1936.

Nascondere la rivoluzione

Uno dei principali motivi apportati da quanti sostengono l’ingresso in ambito istituzionale è la necessità di offrire all’opinione pubblica internazionale, particolarmente ai governi e ai gruppi di pressione economica e informativa europei, l’immagine di una Catalogna, e poi di una Spagna, dove tutto funziona più o meno normalmente. La situazione sarebbe sotto il controllo dei vertici politici unificati, non sono messe in discussione le proprietà straniere e la lotta contro il golpe prevede solamente la restaurazione della Repubblica democratica e niente di più. La «rivoluzione camuffata» [12] viene presentata ai militanti della CNT come un’inevitabile e astuta manovra per evitare, o quanto meno limitare, interventi ostili da parte dei paesi europei i cui interessi sono coinvolti e colpiti dalle trasformazioni collettiviste in atto. Altro motivo di scelta obbligata verso la collaborazione antifascista, e il conseguente rinvio a tempi migliori della rivoluzione libertaria, è la situazione nelle altre regioni spagnole non occupate dai golpisti.

La Catalogna resta a ogni modo fondamentale nel quadro complessivo per una serie di ragioni: è la prima a battere i militari insorti, è la più ricca di industrie e di commerci, è la più prossima alla Francia. Qui un governo di Fronte popolare, analogo quindi a quello spagnolo, dovrebbe essere solidale verso la Repubblica aggredita dall’esercito. Fino alla fine del 1938 si auspica, e ci si illude, che la Francia democratica affianchi lo sforzo del popolo lealista nella lotta per la democrazia e il progresso e contro l’espansione del nazifascismo.

Continua nella Terza Parte

Note al capitolo
[10] Un testo base è E. Armand, Vivere l’anarchia, Antistato, Milano, 1983. Sul radicamento nei quartieri della capitale catalana, si veda il recente J.L. Oyón, La quiebra de la ciudad popular, Ediciones del Serbal, Barcelona, 2008.
[11] J. Álvarez Junco, La ideología política…, cit., p. 73.
[12] La definizione è di Burnett Bolloten, autore del voluminoso e fondamentale La Guerra Civil española. Revolución y contrarrevolución, Alianza, Madrid, 1989.

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