Questione migranti. Situazione dal confine polacco-bielorusso – 4

dal canale Telegram di “No Borders Team”

–Ennesima morte al confine (14 Marzo)

Domenica (12 Marzo, ndt) abbiamo ricevuto informazioni su un’altra persona morta nella zona di confine tra Polonia e Bielorussia. Il corpo di un giovane è stato trovato dallu attivistu vicino a Białowieża. Un’altra delle tante vittime della politica anti-profughi dello Stato polacco e dell’Unione Europea…

La diga al confine tra Polonia e Bielorussia è satura di [controlli] elettronici, interamente ricoperta di filo spinato e armata con circa 2.500 telecamere.

Tutto questo è costato al governo circa 1,6 miliardi di zloty (circa 351 milioni di euro, ndt), più prodotti elettronici sul muro per circa 332 milioni di zloty (circa 72 milioni di euro, ndt). A questo si aggiunge l’acquisto di droni o immagini termiche da parte della Guardia di Frontiera – in modo che il tutto, come scrive la Guardia di Frontiera sui suoi social media, “sia sicuro”.

Ma è sicuro? Uno Stato di cartone che spende miliardi di zloty vuole convincerci che lo fa “per noi”?

L’unica cosa certa è che gli individui continuino a superare questa barriera e il suo effetto maggiore è rappresentato da pericolose fratture o ferite profonde e conseguenti traumi.

D’altro canto, i più vulnerabili – come gli anziani, i malati o i bambini – si accampano nei boschi, vicino alle campate del muro, affamati, disidratati e infreddoliti.

“Non è divertente scoprire che dall’altra parte della recinzione ci sono persone che chiedono aiuto e chiedono scarpe del numero 26…”, ha detto unu attivistu.

E non è divertente quando sai che non puoi aiutare o sostenere abbastanza le persone che il sistema e la fortezza europea ha condannato ad essere perdute…

 

–Sciopero della fame nel centro di detenzione di Krosno Odrzanskie! (25 Marzo)

Ventisei persone hanno iniziato uno sciopero della fame nel carcere per migranti di Krosno Odrzanskie, nella Polonia occidentale.

Chiedono informazioni sulla durata della loro detenzione. Sono già detenutu da 6 mesi e il tribunale ha deciso di prolungare [l’internamento] per i prossimi 3 mesi.

La prigione per migranti di Krosno Odrzanskie, a circa 50 km dal confine con la Germania, è una delle 6 prigioni per le persone in movimento in Polonia.

Niente traduzioni, niente assistenza legale, niente assistenza psicologica. Le persone detenute non conoscono il loro status legale.

Non è il primo sciopero della fame [che avviene] in questo luogo. L’anno scorso lu sostenitoru hanno organizzato una dimostrazione [a favore dellu] scioperanti, ma la polizia l’ha interrotta brutalmente.

Siamo unitu a questo sciopero!

Libertà per tuttu lu prigionieru della fortezza Europa!

–Mortu e feritu davanti alla barriera (4 Maggio)

Dopo l’inverno, il numero di persone [presenti] al confine che hanno bisogno di aiuto è aumentato drasticamente. Da molte settimane sappiamo che si tratta in media di poche o una dozzina di persone al giorno. Il muro, che nella narrazione del governo avrebbe dovuto fermare la migrazione verso l’Europa, è, come previsto dallu attivistu, la causa di molti gravi infortuni. Alcunu di loro sono statu portatu portatu alla morte, come nel caso di un siriano di 58 anni morto dopo essere stato ricoverato in condizioni critiche a Bialystok a Marzo. Le cause del decesso sono [da imputare] alle numerose ferite riportate dopo aver cercato di superare una barriera di 5 metri al confine con la Bielorussia.

Finora oltre 40 corpi di persone che hanno cercato rifugio in Europa sono state trovate sul lato polacco del muro. Sappiamo anche di diverse decine di dispersi e che i parenti stanno ancora cercando. Dalle persone che incontriamo, riceviamo informazioni su coloro che sono mortu sul lato bielorusso – corpi che giacciono nella foresta ma che non siamo in grado di confermare. Grandi gruppi di migranti accampati sul lato bielorusso non possono tornare in Bielorussia perché vengono sorvegliati dalle truppe dell’esercito. Le persone in viaggio che incontriamo nella foresta, riferiscono di casi di violenza da parte delle guardie di frontiera bielorusse e polacche.

È arrivata la primavera ma per le persone che vivono nella foresta non significa avere una vita facile – la temperatura scende sotto lo zero di notte, molte persone sono bagnate fradice e infreddolite. Alcunu si sono feritu quando hanno [provato ad] attraversare la barriera – distorsioni degli arti e tagli profondi causati dal filo spinato. Nella zona di confine vengono istituiti posti di blocco mobili per controllare determinate automobili.

Contemporaneamente è iniziata la seconda settimana di scioperi della fame nei centri di detenzione di Przemyśl e Lesznowola. In totale, 16 persone stanno partecipando allo sciopero, al quale si è unitu anche unu attivistu.

Continua il 22° mese di tragedia per chi è in viaggio e per i residenti e gli abitanti di Podlasie.

–Inumanità (9 Maggio)

Qualche giorno fa, un uomo proveniente dall’Africa subsahariana si è rotto una gamba mentre attraversava il confine. Le guardie di frontiera [polacca] lo hanno trasportato in ospedale, dove il medico ha diagnosticato una frattura complessa e la necessità di un intervento chirurgico.

Nonostante ciò, le guardie di frontiera, dopo avergli fasciato la gamba, lo hanno riportato sul lato bielorusso e lo hanno scaricato dall’altra parte del muro.

Ha trascorso le ore successive sdraiato accanto al muro e sotto la pioggia; le guardie gli hanno ordinato di tornare in Bielorussia anche se lui ha spiegato che non era in grado di camminare.

Il caso è stato pubblicizzato [dai media] e l’uomo è stato portato di nuovo in ospedale, dove speriamo che sia stato operato.

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Il governo Lula abbraccia il “Covid per sempre” in Brasile dopo che l’OMS ha abolito l’emergenza sanitaria sul coronavirus

Traduzione dall’originale “Lula government embraces “forever COVID” in Brazil after WHO scraps coronavirus public health emergency

La decisione di venerdì scorso (5 Maggio, ndt) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) – presa senza alcuna base scientifica -, di porre fine all’Emergenza sanitaria pubblica di portata internazionale sul COVID-19, è stata salutata [con favore] dal governo dei Partito dei Lavoratori (PT) del presidente Luiz Inácio Lula da Silva sulla radio e televisione nazionale brasiliana. Il Ministro della Salute Nísia Trindade ha dichiarato che “il nostro paese riceve questa notizia con speranza.”

Trindade, ripetendo il discorso dell’élite dominante durante la pandemia e costringendo la popolazione a “convivere” con il coronavirus, ha riconosciuto senza mezzi termini: “Continueremo a convivere con il COVID-19, che continua ad evolversi e a mutare”. Come ha chiarito, il governo Lula sta accettando in modo criminale che “le infezioni da SARS-CoV-2 continuino”, portando con sé morti evitabili e tutti i sintomi debilitanti associati al Long-COVID sulla popolazione.

Il ministro della Salute brasiliano, Nísia Trindade, durante il suo discorso di domenica; la didascalia recita: “Continueremo a convivere con il COVID-19”.

È significativo che in nessun punto del suo discorso di cinque minuti, Trindade abbia fatto riferimento ai pericoli posti dal Long-COVID – una condizione cronica che, secondo la stessa OMS, colpisce il 10% delle persone infettate dal coronavirus. Numerosi studi hanno dimostrato che il Long-COVID colpisce praticamente ogni organo del corpo umano e il rischio che una persona infetta sviluppi alcuni dei suoi sintomi aumenta ad ogni reinfezione.

Cinicamente, il governo del PT ha finto un atteggiamento responsabile nei confronti della pandemia, con il ministro che ha dichiarato che “dobbiamo rimanere cauti” e bisogna rafforzare “i sistemi di sorveglianza, le diagnosi, le reti di assistenza e la vaccinazione”. Tuttavia, il governo Lula ha già dimostrato che non intende adottare nessuna di queste misure.

Fin dal suo insediamento, il 1° Gennaio, l’amministrazione Lula ha mantenuto un atteggiamento di negligenza criminale nei confronti della pandemia – una cosa già vista con l’ex presidente fascista del Brasile Jair Bolsonaro, che ha apertamente promosso la dottrina omicida dell’ “immunità di gregge”.

Il governo Lula continua a rifiutare misure come i test di massa e il sequenziamento delle varianti circolanti – necessari per valutare la reale portata della pandemia -, non attuando campagne per allertare la popolazione sulla trasmissione aerosolica del COVID-19 e la conseguente necessità di mascherine di qualità.

Ciò che è stato dimostrato in realtà è come la presunta amministrazione “progressista” del PT stia portando avanti l’abbandono sistematico di ogni misura di salute pubblica contro il COVID-19. Con una decisione aspramente criticata da esperti scientifici e medici, all’inizio di Marzo il governo ha abbandonato la segnalazione dei numeri giornalieri dei contagiati da COVID-19, rendendola settimanale. Questo è avvenuto poco dopo che il governo ha ignorato i rischi dell’ondata della sottovariante XBB1.5 di Omicron durante il Carnevale.

Poco dopo aver revocato l’obbligo di indossare le mascherine negli aeroporti e negli aerei all’inizio di Marzo, l’ANVISA, l’agenzia sanitaria federale, ha dato il via libera ai governi statali e locali di revocare l’obbligo di indossare le mascherine negli affollati sistemi di trasporto pubblico brasiliani. All’inizio di Aprile, l’ANVISA ha rimosso l’obbligo delle mascherine anche negli ospedali del Paese.

Per il governo Lula, come per le élite al potere in tutto il mondo, “rimanere cauti” riguardo al COVID-19 significa esclusivamente promuovere le vaccinazioni. Ma anche questa misura, con la quale il PT ha cercato di differenziarsi dagli sproloqui anti-vaccinisti di Bolsonaro, si è rivelata un fiasco.

Alla fine di Febbraio, con il lancio del vaccino bivalente della Pfizer esclusivamente rivolto alla popolazione over 60, le persone con comorbidità, le donne in gravidanza e altri “gruppi a rischio”, il governo Lula ha dato il via al “Movimento nazionale per le vaccinazioni”. Fino al 20 Aprile, solo il 17,6% della popolazione [rientrante in quelle fasce] aveva assunto il vaccino bivalente. Di fronte a questa debacle, il governo si è mosso per offrire il vaccino bivalente alla popolazione di età superiore ai 18 anni, per il quale aveva precedentemente affermato che il vaccino non aveva “alcun beneficio dimostrato”.

Solo l’anno scorso, il Brasile ha registrato tre delle cinque ondate di pandemia finora registrate, guidate rispettivamente dalle sottovarianti di Omicron quali BA.1, BA.4/5 e BQ.1. Quest’anno, con la predominanza della sottovariante XBB.1.5, sono già stati segnalati 1.180.640 casi e 8.263 decessi, una situazione che potrebbe peggiorare con la già rilevata diffusione di XBB.1.6 e l’avvicinarsi dell’inverno. Complessivamente, il Brasile conta 37 milioni di casi e 702.000 decessi, oltre agli innumerevoli milioni di persone che soffrono di Long-Covid.

Come se questi numeri non fossero sufficienti, sono enormemente sottostimati. Uno studio condotto all’inizio di quest’anno ha stimato, sulla base dei decessi in eccesso, che alla fine del 2022 il Brasile avrebbe avuto 1,14 milioni di morti per COVID-19, un numero 1,6 volte superiore ai 693.000 registrati fino a quel momento.

Questa politica di normalizzazione della morte e della debilitazione di massa da COVID-19 è stata denunciata da molti esperti. Parlando al World Socialist Web Site, la neurologa e attivista anti-COVID Beatrice ha richiamato l’attenzione sulla “coerenza” e “continuità” di questa politica [criminale] durante i primi mesi del mandato di Lula. In risposta all’annuncio governativo di domenica, l’attivista ha dichiarato:

La ministra ha parlato della presunta “fine della pandemia” che, come tutti sappiamo, non può nemmeno essere prevista. E come se non bastasse, ha ancora criticato la “mancanza di rispetto per la scienza” da parte dei suoi predecessori [del governo Bolsonaro], un atteggiamento che di fatto continua quando cita solo le vaccinazioni come misura necessaria, quando tutti sappiamo che questo è ben lungi dall’essere sufficiente… [Lei] non menziona o informa sulla trasmissione aerea del COVID e non menziona o dà alcun orientamento sulle misure di mitigazione da tempo identificate e studiate”.

Su Twitter, Beatrice ha anche denunciato la decisione dell’OMS, mettendo in dubbio il suo impatto soprattutto sulle vaccinazioni nei Paesi poveri: “dopo aver posto fine allo status di PHEIC [Public Health Emergency of International Concern] del COVID 19 cosa succederà ai vaccini COVID!?!!? E cosa succederà al mondo ancora non vaccinato!?!?”

Il WSWS ha parlato anche con Lucas Ferrante, ricercatore dell’Università Federale di Amazonas, i cui lavori hanno mostrato il ruolo delle scuole nella dinamica pandemica a Manaus e l’emergere della variante Gamma, responsabile di due terzi delle morti di COVID-19 in Brasile.

Per quanto riguarda la situazione globale del COVID-19, Ferrante ha dichiarato: “Molti Paesi stanno ancora registrando una recrudescenza della pandemia, soprattutto in Asia….. Quindi, la pandemia non è finita, questo è molto importante da sottolineare”. Secondo lui, la diffusione del coronavirus può ancora portare “all’emergere di una nuova variante [che] può aggirare la protezione dei vaccini. Questo non può essere trascurato, e quindi è necessario tracciare le nuove varianti nel territorio brasiliano”.

Per quanto riguarda la situazione nazionale, Ferrante ha affermato che: “Il Brasile ha ancora molti casi di COVID-19 e [annessi] decessi, e questo non può essere accettato come una cosa normale”. Ha inoltre richiamato l’attenzione sulla grande carenza di informazioni in Brasile, “soprattutto [dopo che] il governo Lula ha adottato la misura di segnalare i casi [di COVID-19] su base settimanale. Questo copre molti dati”.

Ferrante ha citato un articolo pubblicato lunedì (8 Maggio, ndt) su Nature Human Behaviour che riporta la sua dichiarazione in “Il futuro della scienza brasiliana”. In esso critica la decisione iniziale del governo Lula di fornire il vaccino bivalente solo ad alcuni gruppi sociali, dopo che “gli studi avevano rilevato che la vaccinazione di almeno il 90% dell’intera popolazione è necessaria per sradicare le forme gravi di COVID-19, oltre alla necessità di un richiamo ogni quattro mesi”.

Ha anche sottolineato che, mentre “l’amministrazione del presidente Bolsonaro (2019-2022) si fosse distinta per il suo ruolo prominente nel negazionismo scientifico”, “anche i due precedenti mandati del presidente Lula (2003-2010) [] hanno mostrato preoccupanti tendenze negazioniste (come l’ignorare i rapporti tecnici e scienziati)”. Conclude l’articolo affermando che “la popolazione in generale [non] dovrebbe essere ingannata nel pensare che un cambio di amministrazione presidenziale sia sufficiente, da solo, a portare i necessari miglioramenti nella salute pubblica e nell’ambiente”.

In effetti, il governo Lula sta lavorando nel far credere alla popolazione brasiliana che la minaccia del COVID-19 sia finita. Un recente post sui social media da parte della segreteria di comunicazione del governo ha letto che “La pandemia è finita”, mentre la prima pagina del sito web del Ministero della Salute riportava, martedì mattina (9 Maggio, ndt), il logo a lettere maiuscole “FINE DELLA PANDEMIA”, che è stato modificato ore dopo.

A poco più di quattro mesi dall’inizio del governo Lula, la pandemia COVID-19 ha messo a nudo il carattere pienamente reazionario del nuovo governo del Partito dei Lavoratori. È salito al potere per difendere gli interessi dell’élite capitalista brasiliana e globale, ed è determinato a mettere i profitti privati al di sopra della vita umana.

L’unica risposta scientificamente fondata sulla pandemia, e l’unica che rappresenta gli interessi dei lavoratori e delle lavoratrici, è l’eliminazione globale del COVID-19. Il crescente movimento operaio brasiliano e internazionale deve sollevare questa richiesta di porre fine alla pandemia come parte di una più ampia lotta per il socialismo internazionale.

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La disciplina del lavoro

Presentazione
Fin dagli albori delle prime società umane, il lavoro è diventato una sorta di bene collettivo. O, per meglio dire, il motore che fa camminare un modello sociale ed economico basato sullo sfruttamento e devastazione, imbruttendo l’essere umano che, a secondo del lavoro svolto, vende la propria forza e le proprie energie.

Perchè diciamo imbruttire?
Secondo la treccani, imbruttire significa “rendere o far apparire brutto o meno bello”; come lo intendiamo a livello politico, è un qualcosa per cui un individuo si rende sgradevole, scorretto o spiacevole di fronte agli altri. Nell’ambito lavorativo si spende del tempo per la produzione di merci e servizi e si viene ripagati, in termini pecuniari o altro, per la vendita di queste energie. Come la merce prodotta e il servizio espletato, la forza lavoro viene inserita all’interno di un mercato dove il compratore ne contratta l’acquisto – giocando al ribasso su un ipotetico prezzo imposto dal venditore e/o dalle contrattazioni nazionali.

Appare chiaro come il venditore non sia la parte forte ma quella debole; l’acquirente, con i suoi mezzi economici e forze politiche, può manovrare il tutto a suo piacimento. Di conseguenza, chi vende la forza lavoro dovrà attenersi ai diktat e alle regole dell’acquirente, accettando qualsiasi forma di paga e muovendo guerra, soprattutto,verso altri suoi simili che vogliono vendersi a prezzi più economici.

La lotta per ottenere un posto di lavoro si trasforma in una specie di combattimento senza esclusione di colpi dove la principale regola è “lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit” di plautina memoria. 1

Per ottenere e mantenere un posto all’interno di questa macchina lavorativa, l’imbruttimento – e aggiungiamo la cattiveria -, giocano a favore dell’acquirente che dovrà contenere i costi (atti a sopravvivere e sottomettere i venditori) per ottenere un profitto.

L’estratto “La disciplina del lavoro” dell’opuscolo “Il lavoro attraente” di Camillo Berneri, spiega come il lavoro in un contesto di società gerarchica (sia capitalistica che “comunista” russa dei tempi) segua dei precisi disegni scientifici dei vertici dirigenziali: la quantità di merci da produrre, la divisione lavorativa all’interno delle strutture e i tempi di riposo.

La persona lavoratrice – che Berneri declina erroneamente, secondo noi, solo all’uomo-maschio 2 -, diventa in tutto e per tutto una macchina di carne, muovendosi all’interno del posto di lavoro non tanto come un mero automa – tipo il mondo operaio rappresentato cinematograficamente nei film “Metropolis” e “Tempi Moderni” -, ma come un essere che accetta felice il suo status lavorativo. La normalizzazione dei rapporti lavorativi in ambito capitalisticocon le sue invidie, i suoi imbruttimenti e le sue violenze sono così servite al dominio corrente.

Di fronte a questo stato di cose, sarebbe fondamentale per lu anarchicu denunciare non solo il mero sfruttamento ma ribadire come il lavoro – e tutto ciò che ruota intorno ad esso in un contesto capitalistico -, siano l’antitesi della vita e il trionfo di una misantropia d’accatto e pseudo-filosofeggiante. Val la pena menzionare, a questo proposito e oltre l’estratto da noi riportato, l’opera di Kropotkin, “Il mutuo appoggio fattore dell’evoluzione”, dove una società autodefinita progredita non si basa sullo sfruttamento, la paura e la sopraffazione tra i propri membri ma sul rispetto, la protezione dei propri membri e la risoluzione dei problemi attraverso un dibattito e delle pratiche atte a scardinare forme autoritarie instillateci fin dalla più tenera età.

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Quasi tutti gli anarchici sono disposti a fare proprio il monito di Mario Rapisardi: «Lasciate che l’uomo lavori quanto può e riposi quanto vuole. A voler tutto disciplinare, si fa dell’uomo una macchina e della società un convento e una galera». Come formula tendenziale, questo monito mi pare più che accettabile; ma non credo che l’officina, per quanto perfezionata, possa paragonarsi, come la paragona Kropotkin, alla biblioteca ove si entra e si esce a piacere. La mancanza di un orario lavorativo generalmente rispettato comporta uno sciupìo di forza motrice, di calore e di illuminazione là dove il lavoro individuale non è possibile: come in una fonderia di metalli.

Vero è che in certe industrie (la tessile, la tipografica, ecc.) vi è una certa autonomia per evitare l’arresto generale in caso di avarie e risparmiare le dispersioni delle trasmissioni di forza mediante cinghie e puleggie ed utilizzare la sola forza necessaria al lavoro attuale. Il motore elettrico ha sviluppato molto l’autonomia meccanica, mettendo macchine complesse a disposizioni dell’artigiano (come la linotype), e molti servizi pubblici sono soppressi da sistemi perfezionati, come il telefono a commutatori automatici che diminuisce fortemente l’importanza delle centrali telefoniche. Nell’insieme del lavoro industriale, tuttavia, i limiti dell’autonomia sono molto ristretti e rimarranno tali per molto tempo. Occorre osservare che con un orario ridotto o con le facilitazioni sopprimenti i viaggi per andare al lavoro e per ritornare a casa, il peso di un orario fisso è grandemente diminuito. La scelta del lavoro è subordinata alle necessità della produzione, ma uno sviluppato e preciso funzionamento della statistica potrà permettere a molti operai di praticare il lavoro in cui si sentono più preparati o al quale sono particolarmente disposti. Oggi moltissimi operai fanno un lavoro non corrispondente nè alle loro attitudini nè al loro gusto.

La cooperazione libera nell’industria non è cosa facilmente realizzabile. Nella fabbrica attuale l’imprenditore è l’organizzatore della gerarchia (direttori di reparto, capi operai, ecc.) e della divisione del lavoro. Gli operai lavorano insieme per uno stesso scopo, che però non è fissato da loro; «questa cooperazione non è che un semplice effetto del capitale che li occupa simultaneamente. Il legame tra le loro funzioni individuali e la loro unità come corpo produttivo si trova al di fuori di essi, nel capitale, che li riunisce e li richiede. Il concatenamento dei loro lavori ad essi appare idealmente come il piano dei capitalisti, e l’unità del loro corpo collettivo appare come la sua autorità, come la potenza di una volontà straniera che sottomette i loro atti al suo scopo… In quanto essi cooperano, non sono che un particolar modo di esistenza del capitale. La forza produttiva che dei salariati spiegano come lavoro collettivo è per conseguenza forza produttiva del capitale.» (Marx). Il sostituirsi della cooperazione libera ad una cooperazione forzata non avviene facilmente in un gruppo numeroso. Chiunque abbia un po’ di pratica del lavoro collettivo eseguito da squadre cooperative sa che i risultati sono tanto migliori quanto sono meno numerosi gli associati. Siccome il profitto di ciascuno dei componenti la squadra è determinato dal risultato del lavoro comune «i membri meno industriosi di un gruppo esteso lasciano ai loro compagni più bravi la cura di spiegare una energia particolare, e questi d’altra parte non danno tutta la forza di cui sono capaci, sapendo che il loro zelo rischia di essere neutralizzato dalla pigrizia degli altri.» (Schloss). Complesso è anche il problema della gerarchia tecnica, in quanto le capacità direttive non si associano costantemente con qualità di carattere che assicurino al più capace la nomina a funzioni direttive o che permettano al più capace di esplicare fecondamente queste funzioni. Mentre il tecnico nell’officina attuale è «un ufficiale», nell’officina di domani dovrebbe essere «un maestro». Ma questa trasformazione direttiva non sarà facile.

Un aspetto della disciplina del lavoro è quello della «razionalizzazione». Il sistema Taylor ha subito in regime capitalistico una enorme degenerazione. Il Copley, il biografo di Taylor, ha osservato che «tutto si deve chiedere al buon volere degli operai, e senza di questo a nulla giova la loro preparazione tecnica… Ogni tentativo di volgere il nuovo sistema a danno degli operai, finirebbe in un disastro».

Molti scrittori anarchici hanno criticato la pseudo-razionalizzazione del lavoro, ma pochissimi hanno impostata la questione in termini esatti.

Bisogna esaminare il problema dell’automatismo e della specializzazione se si vuole giungere a conciliare le necessità tecniche della specializzazione con la possibilità di evitare le atrofie psichiche proprie della divisione del lavoro organizzata con criteri unilateralmente economici. L’automatismo è negativo soltanto quando è fine a se stesso. L’operaio che per dieci anni ripeterà un ristretto numero di gesti finirà per diventare un automa, non perchè quei gesti siano automatici, ma perchè è meccanico, cioè monotono, il processo psichico che li determina. È il carattere semi-automatico del lavoro mancante di interesse che lo rende gravoso ed abbrutente.

Se debbo tradurre dal francese cento pagine di un libro che non mi interessa affatto, soffro una doppia pena: quella della fatica di un lavoro noioso e quella di non poter pensare, dato che il lavoro richiede attenzione, alle tante cose che si affacciano alla mia mente. Ma se debbo staccare qualche centinaio di francobolli da un album, posso sentire da noia di quella stupida occupazione, ma posso anche pensare a cose piacevoli od interessanti.

Mi pare evidente che le vere occupazioni abbrutenti non siano, quando si tratti di orarii non esagerati, quelle interamente meccaniche, bensì quelle che restringono l’attenzione in un campo ristretto e monotono e al tempo stesso richiedente intelligenza. Otto ore passate a scriver cose interessanti sono brevi; otto ore passate a fare un lavoro noioso ma che permette di chiacchierare o di fantasticare, sono lunghe; ma otto ore passate a fare un lavoro noioso e richiedente attenzione sono eterne.

I contabili soffrono di più, fisicamente ed intellettualmente, di quegli operai che fanno un lavoro completamente meccanico. L’operaio che fa un lavoro del tutto meccanico è un po’ come una donna che fa la calza. Può pensare, chiacchierare, canterellare ecc. Questo perchè i suoi movimenti sono meccanici, ed è il subcosciente che opera. (Un calzolaio, soggetto ad accessi epilettici, continuava nello stato d’incoscienza i movimenti per tagliare il cuoio). Il meccanizzarsi dell’azione porta alla diminuzione o al potenziamento dell’attività mentale a seconda che la meccanizzazione è circoscritta o si rinnova e si amplifica. Il camminare è una cosa semplice, ma c’è costato tanti sforzi l’abituarci ad esso. Altri sforzi richiede l’andare in bicicletta e ancor maggiori il camminare su una fune. Se il camminare giunge ad essere, quando ci si è messi in moto, un’azione automatica, il mantenerci in equilibrio sulla bicicletta o su di una fune richiede sempre una certa attenzione. Nessuno, credo, potrebbe leggere Kant, e capirlo, correndo in bicicletta o facendo l’equilibrista.

L’automatismo, dunque, è proprio dei movimenti semplici. Il pianista che scorre velocemente sulla tastiera con le dita, non pensa dove le fà premere, ma l’espressione della esecuzione scaturisce dall’innestarsi dell’attenzione mnemonica e del «pathos» nell’automatismo delle braccia e delle mani. Mentre il poeta può, nella fretta di esprimere graficamente l’immagine, la parola, alterare la scrittura fino a renderla… stenografica, il pianista deve dominare il processo meccanico, e tanto più sarà preciso nei movimenti e tanto più l’espressione e l’interpretazione musicale saranno complete.

E così è del disegnatore, dello scultore, ecc. La necessità di raggiungere il massimo automatismo è visto dai trattatisti della pittura, che prescrivono l’uso di copiare modelli in cui abbondano le difficoltà, per impadronirsi della parte meccanica dell’arte (esattezza e facilità), per cui «la matita o il pennello corrono da sè senza quasi alcuna fatica o impulso della facoltà inventrice», come dice l’Algarotti. Quella che il D’Annunzio chiama «facilità della consuetudine» si nota tanto nell’artista come nell’uomo di lavoro, come in quel muratore, descritto dal sopracitato scrittore, che: «maestro di cazzuola, ottimo, sol nel prendere la calcina nel vassoio con la punta della mestola e nello schiacciarla su la commettitura, rivelava una mano sapiente, nervosa e istintiva come quella di un violinista». Non vi è, dunque, lavoro automatico e lavoro non automatico, bensì lavoro piattamente meccanico e lavoro intelligentemente automatico.

Il primo è abbrutente se diventa fine a se stesso e se è eccessivo; ma nei limiti di orario proporzionali all’affaticabilità dell’individuo esso non è nè dannoso, nè penoso.

Il problema non sta tanto nell’evitare l’automatismo, sempre più imposto dallo sviluppo della meccanica, bensì nell’alternare lavoro e riposo. Questo lo ha capito anche l’intelligenza padronale. Il giornale «L’Opinion» del 12 settembre 1924 pubblicava: «Delle minuziose osservazioni condotte in un certo numero di fabbriche inglesi hanno provato che, anche nei lavori che non esigono che un debolissimo sforzo muscolare, i padroni ottengono un accrescimento di produzione concedendo al personale dei tempi di riposo. È così che per un gruppo di donne incaricate di etichettare degli imballaggi, la introduzione di parecchi riposi di dieci minuti ha portato ad un aumento produttivo di circa 13 per cento, nonostante la diminuzione del 2 per cento di lavoro giornaliero. Le stesse constatazioni sono state fatte per un gruppo di donne impiegate nei montaggio di catene da bicicletta. «Da notarsi che questi tempi di riposo non portano realmente i loro frutti che se hanno avuto luogo ad ore fisse come il lavoro. La produzione non aumenta nelle stesse proporzioni se il lavoro si arresta a seconda della fantasia individuale.»

La disciplina del riposo, dunque, è necessaria come la disciplina del lavoro.

Il problema della libertà del lavoro è quello stesso della migliore organizzazione del lavoro e della produzione. Alcuni individualisti di mia conoscenza farebbero bene a meditare quei passi degli scritti di Michele Bakunin che illustrano il problema della reale libertà, e particolarmente questo: «L’uomo crea il mondo storico colla potenza di una attività che voi ritroverete in tutti gli esseri viventi, che costituisce il fondo stesso di ogni vita organica, e che tende ad assimilarsi e a trasformare il mondo esterno secondo i bisogni di ciascuna attività, di conseguenza istintiva e fatale, antecedente ad ogni pensiero, ma che illuminata dalla ragione dell’uomo e determinata dalla sua volontà riflessa, si trasforma in lui e per lui in «lavoro intelligente e libero». «Unicamente per mezzo del pensiero l’uomo giunge alla coscienza della sua libertà nell’ambiente naturale che l’ha prodotto, ma è col lavoro soltanto che egli la realizza». L’essere pensante «conquista la sua umanità affermando e realizzando la sua libertà nel mondo» per mezzo del lavoro (Bakunin, «Opere», vol. I, pag. 109-110).

Uno scrittore dell’«Ordine Nuovo» (rassegna comunista di Torino) commentava così i passi di Bakunin sopracitati:

«L’uomo libero è quello che può inserire la sua attività di produttore e di creatore in un sistema produttivo che realizza il massimo dominio degli uomini sulla natura, e cioè «la massima libertà». Ogni rinunzia degli individui singoli allo scopo di realizzare questo massimo di libertà, è legittima come condizione di tale libertà.» In questo commento la dialettica inverte il pensiero di Bakunin in modo del tutto arbitrario. La «massima libertà» non si identifica necessariamente con il massimo dominio dell’uomo sulla natura, bensì con l’armonia tra le necessità di sviluppo dei sistemi produttivi e la libertà del produttore. La rinuncia degli individui singoli è legittima soltanto se il sistema produttivo nei quali la loro attività è inserita è tale da assicurare un reale progresso, ossia un progresso che non sia puramente «produttivo» ma anche «umano». L’uomo si emancipa mediante il lavoro «intelligente e libero» e non in un rapporto assoluto con il «massimo dominio sulla natura». La mistica della produzione, forma di illuminismo economicista che meriterebbe di essere esaminata e discussa lungamente, ha condotto la produzione… sovietica ad una pseudo-razionalizzazione del lavoro che si ricollega ben più alla schiavitù fordista che al taylorismo. Di tale degenerazione è ricca di documenti la stampa stalinista. Ecco una tra le tante notizie dall’U.R.S.S.:

«Verso i primi di marzo 1934, 5 super-Ourdarniks moscoviti (squadre di allenatori, o dimostratori, ben pagati ed usufruenti di facilitazioni speciali) del ramo calzolai si incontrarono con 5 Ourdarnicks di Leningrado per una sfida durata due giorni allo scopo di stabilire quali delle due squadre avesse prodotto più. Ecco qualche risultato: Ciceff, 200 paia di scarpe (messa in forma) in un’ora, mentre la media non è che di 81. Il metodo è in istudio, per essere applicato in tutte le fabbriche.

«Mentre in America i migliori operai su macchine semi-automatiche non arrivano a produrre mille paia di scarpe al giorno, i super-Ourdarniks Smetarrine, Dvoinoff, Smitsine e Matunine, su macchine di vecchio modello, raggiunsero 1050 e 1100 paia nel tempo il più breve.» Il movimento Stakanoff, attualmente in auge, non è che un trasferimento dello «sport» nel campo della produzione. Vi sono dei campioni che battono dei records, compensati da aumenti di salario. È il trionfo del cottimismo, ben più che della razionalizzazione.

L’idea dell’emulazione tra singoli produttori o tra squadre di produttori è una delle più intelligenti idee di Fourier, che fu ripresa dal Considérant e da lui applicata quando era ufficiale del 2.° reggimento del genio. La gara tra squadre di soldati mirava non soltanto a rendere intenso il lavoro bensì a renderlo divertente. Fu in questa direzione che il sistema fu applicato dal colonnello del genio Goujon, che riprese la tradizione fourierista applicata da Considérant. «Disciplina del lavoro» significa razionale distribuzione delle mansioni; razionale alternativa di fatica e di riposo; utilizzazione, sempre razionale, di dati istinti, di dati sentimenti, di date attitudini mentali; associazione dell’unità del processo produttivo con l’autonomia individuale, ecc.

Nota bibliografica e storica a cura del Gruppo Anarchico Galatea
Il pezzo è un estratto dell’opuscolo “Il lavoro attraente” di Camillo Berneri, pubblicato in “Biblioteca di Cultura Libertaria” da Carlo Frigerio, Ginevra, 1938. Come esposto dallo stesso curatore nell’introduzione di questo opuscolo, “Il presente lavoro — riveduto e ritoccato in seguito dall’autore — è già stato pubblicato nel 1936 sul periodico l’«Adunata dei refrattari» di Newark, New Jersey (S.U.A.), in cui apparve a puntate.”

Ne “L’Adunata dei Refrattari” venne pubblicato a puntate dal numero 37 (19 Settembre 1936) al numero 45 (14 Novembre 1936). Su “Studi Sociali. Rivista di libero esame” venne pubblicata la seguente recensione: “Questo studio di Berneri è stato pubblicato a puntate sull’ “Adunata dei Refrattari”. Rileggendolo ora, che l’opuscolo ce lo mette sotto gli occhi nella sua unità, possiamo apprezzarne meglio il valore. Il problema che vi è preso in esame, l’eterno problema dell’amore al lavoro della disciplina spontanea nella produzione, è dei più difficili e dei più discussi. Una gran parte di questo scritto, secondo la costante abitudine mentale di Berneri, è dedicata appunto allo studio di questa discussione e dell’opinione dei sociologi che vi han partecipato. Sobria, ma efficace, è la critica alla razionalizzazione borghese e allo stakanovismo russo. Lo studio attento delle statistiche, delle inchieste sulla materia e della realtà direttamente osservata, induce Berneri ad affermare che il vero fattore che rende penoso il lavoro è la noia prodotta dall’automatismo, origine di vari disturbi nervosi e muscolari. Il lavoro di creazione dà una gioia così intensa da annullare la stanchezza. Il lavoro automatico che non richiede attenzione permette di distrarre la mente in pensieri interessanti. Il lavoro veramente penoso è quello “che restringe l’attenzione in un campo ristretto e monotono e al tempo stesso richiedente intelligenza.” Questo spiega gli effetti deleteri che produce sulla salute della manodopera l’applicazione del sistema Bedaux. Le condizioni principali per rendere il lavoro attraente ed eliminare il pericolo della cosiddetta pigrizia (nome sotto cui si comprendono molti fenomeni diversi, che ubbidiscono alle più varie cause) è d’offrire a ciascuno la possibilità di scegliere l’occupazione che più risponde alle sue attitudini ed ai suoi desideri e di rendere piacevole l’ambiente della fabbrica, procurando agli operai quelle distrazioni che siano compatibili con un normale rendimento nella produzione. L’autore cita dei casi di applicazione di questo secondo principio in certe fabbriche americane. Naturalmente la durata del lavoro dev’essere proporzionata alle possibilità fisiche; le occupazioni che richiedono una somma maggiore d’energie muscolari (lavori faticosi) o d’energie nervose (lavori monotoni che esigono attenzione) devono durare meno. La pigrizia si ridurrà così al minimo. Su quel minimo che rimane si può esercitare una pressione morale ed anche economica, giacché è naturale che chi non collabora in un’opera, non abbia poi il diritto di goderne i benefici. A questo proposito l’autore cita opportunamente (p. 23) alcune frasi di Malatesta. Questo libretto non è definitivo, perché in tali questioni la tecnica ha sempre nuove parole da dire. Ma è l’espressione più compiuta del pensiero anarchico sull’argomento nel periodo in cui viviamo. E il criterio su cui si basa non potrà variare molto coll’inevitabile trasformazione dell’ambiente materiale, neppure in avvenire.

Fonti consultate
-L’Adunata dei Refrattari, nn. 37-45
-“Studi Sociali. Rivista di libero esame”, n. 10, a. 9, 16 Maggio 1938

Note della Presentazione

1Traduzione di “L’uomo è un lupo per l’uomo, non un uomo, quando s’ignora chi sia”. Estratto da “La commedia degli asini”, Atto Secondo, Scena Quarta, vv. 495-496; inserito nel libro “Plauto. Le commedie”, curato da Carlo Carena, Einaudi, Torino, 1975, pag. 83. Questa frase di Plauto venne usata in particolare da Thomas Hobbes per sottolineare la natura egoistica umana e come le relazioni tra gli esseri umani siano mosse per un mero e semplice scopo di sopravvivenza e dominio verso altri loro simili.

2Berneri, complice una sua non troppo nascosta misoginia, parla al maschile del mondo del lavoro industriale e intellettuale. In questo suo opuscolo e specie nella parte da noi citata, l’anarchico lodigiano ignora volutamente la questione del lavoro domestico svolto dalle donne e delle violenze o abusi (fisici, psicologici, culturali ed economici) a cui sono sottoposte fin dalla più tenera età. La visione cieca di Berneri sul lavoro femminile aveva trovato il suo apice ne “La garçonne e la madre” – pubblicato a puntate sul giornale “Fede! Settimanale Anarchico di Coltura e di Difesa“, dal n.110 al 118 e nn. 120 e 122, Marzo-Giugno 1926 -, dove riporta che il lavoro domestico “è specialmente preferibile a quello extra familiare per le madri, ma perchè possa conciliarsi con le necessità economiche della famiglia operaia e possa permettere alla madre l’intero adempimento della sua mansione è necessario che i lavoratori conquistino la possibilità di mantenere nel benessere la propria famiglia.” La visione dell’uomo lavoratore e della donna relegata ad “angelo del focolare” non faceva altro che confermare (e lo fa ancor oggi negli anni venti del ventunesimo secolo) una divisione lavorativa di genere, rendendo la figura femminile dipendente da quella maschile e realizzata solo nello svolgere specifiche mansioni all’interno della casa. Per una critica di questo scritto di Berneri, rimandiamo all’articolo di Carlo Molaschi, “Il problema femminile. Frammento di polemica”, pubblicato su “Pensiero e Volontà. Rivista quindicinale”, A. III, n. 14, Agosto 1926, pagg. 322-324.

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Il Primo Maggio contro il lavoro

Traduzione dall’originale “1° de Mayo contra el trabajo

Nel nuovo anniversario del Primo Maggio insistiamo con una critica spietata al lavoro. Si tratta, indubbiamente, di una provocazione. Ma è una provocazione giustificata, necessaria e rivoluzionaria che facciamo da almeno vent’anni, ad ogni commemorazione di questa data di memoria e di lotta. La prima volta che l’abbiamo resa pubblica è stata la mattina del 1° Maggio 2004 nella Plaza de la Cooperación (Rosario):

Il lavoro non dà dignità ma mortifica. Spendere il salario è dignitoso, competere è dignitoso, affaticare troppo il corpo è dignitoso, sforzare troppo la mente è dignitoso, non stare con i propri cari è dignitoso, non avere una vita al di fuori del lavoro è dignitoso, alzarsi presto per lavorare è dignitoso, dormire per tornare al lavoro è dignitoso, rischiare la vita al lavoro è dignitoso, vedere come è andata la nostra vita è dignitoso, rinunciare ai nostri sogni è dignitoso. Siamo dispostu a rimanere dignitosu in questo modo?! Non celebriamo il lavoro. Il lavoro ci sottomette e ci uccide. Il lavoro non è dignitoso.”

Pensavamo che [queste parole] potessero essere rifiutate; ma è successo il contrario. Il fatto è che chiunque lavori e vuole cambiare il mondo può sentire queste parole come proprie. Nel corso degli anni, la critica del lavoro a cui facevamo eco e che va avanti da molto tempo e in diverse parti del mondo, è diventata sempre più popolare, o almeno è cresciuta in popolarità. Questa popolarità, non di rado, l’ha distaccata dal suo aspetto rivoluzionario e trasformativo. Così il lavoro viene criticato sulla base di rimpianti personali, spesso per elogiare il tempo libero o per supporre che questa critica significhi abbandonare adesso il lavoro, individualmente o collettivamente. Una proposta inoppugnabile; ma noi cerchiamo di andare oltre. Da parte nostra, insistiamo sulla critica del lavoro come parte del nuovo mondo che vogliamo:

Mentre la maggioranza delle persone celebra la “festa dei lavoratori” o, peggio ancora, la “festa del lavoro”, alcuni rimangono convinti della necessità di liberarsene. Vale a dire, liberarci dalla forma che l’attività umana ha assunto sotto il capitalismo. (…) Miseria materiale, ma anche affettiva, sociale. La realtà [riguarda] le terribili condizioni di lavoro, i compiti estremamente alienanti, disgustosi e ripetitivi che siamo costrettu a svolgere. La realtà è che non siamo noi a decidere cosa produrre, né avere ciò che produciamo. Che si tratti di gigantesche aziende pubbliche o private, o di piccoli produttori, si tratta sempre di unità di produzione isolate, unite solo dallo scambio mercantile, basato sull’ottenimento del massimo profitto possibile. (…) Mentre vogliono convincerci delle virtù del lavoro salariato e del fatto che se lavoriamo duramente possiamo goderne, sembrano dimenticare le incessanti guerre, l’inquinamento, gli incidenti sul lavoro, i suicidi, i problemi mentali e fisici, lo sfruttamento dellu bambinu e molto altro ancora. Si dirà che questi sono tutti “dettagli” da eliminare, ma sono parte costitutiva del mondo del lavoro salariato, della sua normalità, e senza questi elementi non sarebbe ciò che è”. (La Oveja Negra nro. 8, “El trabajo no dignifica”, 2013)

Essere unu lavoratoru non è un’identità scelta: è un’imposizione di questo modo di produzione. Per questo intendiamo la critica del lavoro come una questione sociale e non solo come una sofferenza individuale:

Lu cittadinu, nella loro frenesia di consumo, consumano l’ideologia, consumano l’identità e tardano a capire che ci sono realtà imposte che non hanno acquisito nel mercato. Essere proletariu non è un’identità scelta, è una realtà sociale. Ed essere orgogliosi di questa condizione è come essere orgogliosi di essere schiavu. Non amiamo essere proletariu. E la rivoluzione non significa, in alcun modo, estendere la condizione dellu lavoratoru a tutta l’umanità”. (Cuadernos de Negación n. 4, 2010)

Critichiamo il lavoro e parliamo ancora di proletariato, perché giustamente critichiamo ciò che ci condanna a far parte di questa classe sociale. Per proletariato, ancora una volta, non intendiamo il maschio, operaio, sindacalizzato e padre di famiglia:

Data l’importanza che aveva l’operaio agli inizi delle grandi lotte proletarie, è comprensibile che molti abbiano cercato il “soggetto rivoluzionario” negli operai e che “proletariato” sia stato, in molti casi, interpretato come un sinonimo. (…) il proletario era visto come un lavoratore e un riproduttore del Capitale, e non come il suo esecutore, mentre l’importanza dei contadini veniva in molti casi liquidata e si rafforzava l’ideologia del progresso capitalista con le sue mostruose città e fabbriche, in opposizione all’ “arretratezza” delle campagne. Molti operai si sentivano parte di questo sviluppo e al massimo volevano togliere di mezzo i borghesi per poter gestire e “godere” loro stessi del progresso capitalistico. (…) L’operaismo venera il lavoro manuale, il “lavoro con i martelli”. La sua visione del proletariato è quella dell’ “uomo muscoloso”. Attraverso il rifiuto del lavoro commerciale e d’ufficio, si respingono gran parte delle lavoratrici salariate, rivelandosi, quindi, anche sessista”. (Cuadernos de Negación n. 3, 2010)

Abbasso il lavoro!

Senza dubbio, non tutto ciò che facciamo è lavoro. Fare non è sinonimo di lavorare. Il lavoro è una forma specifica di attività in una società specifica. I nostri organi non fanno il loro lavoro, né fanno funzionare un motore o altre macchine:

[La parola] lavoro” suona oggi, alle orecchie di tuttu, come sinonimo di “attività”, poiché per la maggior parte degli esseri umani il lavoro è diventato, purtroppo, la totalità della loro vita. E non parliamo solo di come trovare i soldi per sopravvivere. Tutto è vissuto come lavoro: le faccende domestiche, la creatività artistica, avere relazioni sessuali, la militanza politica, crescere unu figliu o uscire con le amiche.” (Cuadernos de Negación n. 3)

La critica del lavoro è principalmente rivolta alla critica dello sfruttamento. Per quanto riguarda la nozione di sfruttamento, non intendiamo impegnarci in una discussione morale. La riproduzione della società capitalista è orientata al massimo profitto possibile. E la principale fonte di profitto è il plusvalore che si produce attraverso lo sfruttamento del lavoro salariato:

Per “sfruttamento” si intende quasi sempre un lavoro precario e mal retribuito, che è effettivamente il caso della stragrande maggioranza dei lavoratori salariati del pianeta. Ma questa definizione restrittiva implica che creare, durante le sei ore giornaliere, software educativi in cambio di un buon salario e in un ambiente rispettoso dell’ambiente, senza alcuna discriminazione etnica, sessuale o di genere, in collegamento con gli abitanti del quartiere e le associazioni dei consumatori, non sarebbe più sfruttamento. In una parola, una società in cui tutti si divertono ad andare al mercato la domenica mattina e nessuno soffre per la legge dei mercati finanziari. In breve, il sogno delle classi medie salariate occidentali esteso a sei miliardi di esseri umani…” (Gilles Dauvé, Prefazione dell’edizione spagnola de “Declive y resurgimiento de la perspectiva comunista”).

Abbasso l’ozio!

Lavoro e ozio sono due facce della stessa medaglia. Il salario non paga il lavoro svolto ma la riproduzione della forza lavoro. [Ed è per questo] che c’è bisogno di un po’ di svago: calcio, Netflix, musica. Se il “tempo libero” esiste, è perché esiste un “tempo lavorativo” che lo definisce.

Dedichiamo un certo numero di ore a quel che definiamo svago per riprenderci dallo stress generalizzato che viviamo quotidianamente. Sospendiamo il nostro ruolo di produttoru di oggetti e servizi per lasciare il posto al nostro ruolo di consumatoru di prodotti e servizi. I momenti di svago e divertimento nella società mercantile generalizzata sono simili a quelli del lavoro dipendente: deve essere fatto bene e in fretta, diventando così ripetitivo e obbligatorio; non c’è tempo per riposare, le passioni vengono respinte e ci si adegua alla norma dell’ideologia dominante. Il divertimento sembra essere direttamente proporzionale al denaro speso; ecco perché si va in giro per centri commerciali e shopping center, ecco perché si paga per fare sport, musica o sesso, o si paga per guardare altre persone che fanno sport, musica o sesso”. (Cuadernos de Negación n. 3)

Abbasso la disoccupazione!

Finché esisteranno il denaro e la proprietà privata, non basteranno mai per tuttu. Lo stesso si può dire del lavoro:

In un mondo lavorativo non ci sarà mai abbastanza lavoro per tuttu. La disoccupazione è una condizione del mondo del lavoro. La disoccupazione è una caratteristica permanente e strutturale della società capitalista, che ha bisogno di una massa di disoccupatu per garantire bassi salari e condizioni di lavoro sempre scadenti. In altre parole, se fossimo tuttu occupatu o avessimo la possibilità di passare da un lavoro all’altro, potremmo sempre chiedere salari migliori o migliori condizioni di lavoro senza che lo spettro della disoccupazione ci assalga (…). È dalle nostre condizioni di esistenza che tiriamo fuori le lezioni per “fare teoria” e non abbiamo “principi” prima dei fatti. Il disagio e la necessità che noi lavoratoru soffriamo e le situazioni di precarietà e di pericolo a cui siamo sottopostu, ci costringono a prendere coscienza della società in cui ci troviamo e che contribuiamo quotidianamente a mantenere. Sta a noi proteggerci da chi ci vuole indirizzare e condurre in vari vicoli ciechi, oppure iniziare a pensare ed esplorare altre possibilità. Per questo è importante non confondere la difesa della forza lavoro con la difesa della fonte del lavoro. Non dobbiamo nemmeno difendere il profitto degli sfruttatori. Né dobbiamo fidarci di coloro che vivono dei nostri sforzi”. (La Oveja Negra n. 70, El trabajo es la peste, 2020)

Abbasso il lavoro domestico!

Le società classiste, nel corso della loro storia e nel perseguimento della loro riproduzione, hanno dovuto controllare quattro elementi fondamentali e inseparabili della vita della specie: il corpo, la sessualità, la riproduzione e l’allevamento dei figli. A questo punto, la divisione sessuale e il dominio specifico su coloro che hanno la capacità di generare figli diventa essenziale. Ciò che conosciamo come donne e uomini si basa su questa caratteristica anatomica (la capacità di generare figli) e sulla divisione sociale creata dalle società classiste per la crescita demografica. Il controllo delle donne (il loro corpo, la loro sessualità, la loro capacità riproduttiva) permette di controllare, allo stesso tempo, il resto della popolazione. Allo stesso tempo, è decisivo per la crescita dei figli e per sostenere la famiglia o almeno la riproduzione della forza lavoro nella società odierna.

Il lavoro salariato richiede una sfera specifica dedicata a certi compiti necessari per la riproduzione della forza lavoro: il lavoro domestico, la cui assegnazione riproduce la divisione sessuale costruita dalle diverse società classiste. L’assegnazione di determinati compiti ad un certo gruppo di persone – definite in base alla loro capacità riproduttiva -, è ciò che ha costituito storicamente le donne, e coloro che non ce l’hanno come uomini. È questa divisione sociale in due sessi che ha creato quello che conosciamo come sesso biologico, che normalizza ciò che è stato costruito socialmente. Si presume che le donne siano naturalmente inclini alla cura e ai lavori domestici. Così come si presume che gli uomini siano naturalmente portati per i lavori duri e pericolosi – i quali muoiono in massa ogni anno nei cosiddetti “incidenti sul lavoro”.

Il modo di produzione capitalista, nonostante la sua immagine razionalista e scientifica, produce anche miti. Uno di questi è che il lavoro sia estraneo alla storia, che sia sempre esistito e che quindi non possa cessare di esistere (…) Quando migliaia di proletariu in tutto il mondo insistono con lo slogan “Abbasso il lavoro!” non stanno proponendo di lasciarsi morire di freddo e di fame, ma di lottare per costituire una comunità in cui i bisogni di cibo e di riparo, così come quelli di godimento e creatività siano messi in comune senza essere un alibi per quantificarli e generare profitti (…). Un altro mito necessario per sostenere la normalità capitalista è quello di esporre il lavoro domestico come attributo naturale delle donne, che si suppone siano per natura buone cuoche, lavandaie, amanti, sensibili, deboli e, soprattutto, dipendenti. Non a caso, il primo passo verso l’addomesticamento è la creazione della dipendenza. Una dipendenza che è economica e ideologica, basata sul mito che è sempre stato il lavoratore salariato maschio a portare il pane in tavola. E nell’immaginario sociale [generale] – anche se era sotto gli occhi di tuttu ! – questo lavoratore non avrebbe avuto bisogno di cure perché era un adulto sano, in grado di badare a se stesso. Questa fallacia non solo rendeva – e rende tuttora – invisibile queste cure, ma produce anche un modello, soprattutto maschile o mascolinizzante, caratterizzato dalla pretesa di non aver bisogno di nessuno. [In parole povere,] un individuo che rifiuta l’interdipendenza umana in nome della forte e preminente indipendenza tipica del capitalismo. Come per ogni lavoro, la funzione dell’ideologia dominante è quella di naturalizzare il lavoro domestico, amalgamandolo con qualsiasi attività umana, quando in realtà si tratta di un fenomeno storico sociale e determinato. Il lavoro domestico delle donne viene maggiormente oscurato rispetto al lavoro salariato perché si considera questo, erroneamente, un attributo naturale della personalità femminile, un’aspirazione dell’ “essere donna”. Ma quello che si dimentica è che ci sono voluti secoli di espropriazione e persecuzioni misogine per creare l’immagine di questo presunto attributo naturale”. (La Oveja Negra n. 46, ¡Abajo el trabajo doméstico!, 2017)

Ciò che proponiamo è di indagare e assumere la connessione tra classe e genere in una prospettiva di abolizione del lavoro. Non si tratta, quindi, di aggiungere la “questione femminile” alla “causa operaia” come lotta parallela – ovvero come viene intesa dal riformismo.

Abbasso il proletariato!

La critica e il rifiuto del lavoro espressi nelle lotte, nelle riflessioni teoriche e nella vita quotidiana sono strettamente legati al declino dell’operaismo, dell’orgoglio e dell’identità dellu lavoratoru. Evidentemente qualcosa è cambiato nella società capitalista: precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, globalizzazione e delocalizzazione dei centri di produzione, crescente finanziarizzazione dell’economia in generale e un ruolo di primo piano dello Stato nella riproduzione della forza lavoro (sussidi, prestazioni sociali). Come risultato di queste trasformazioni, il proletariato non è affatto scomparso; ma le possibilità di lotta sono cambiate drasticamente. Non c’è più una preoccupazione predominante, all’interno delle lotte proletarie, per la gestione del mondo del lavoro. Questo era necessariamente legato ad un immaginario rivoluzionario, in cui si mantenevano molte delle caratteristiche fondamentali del modo di produzione capitalista e della sua socializzazione: la gestione dei mezzi di produzione senza metterli in discussione, lo sviluppo dell’industria, la crescita demografica, la famiglia e, nei settori più riformisti, anche il nazionalismo e lo Stato.

Abbiamo analizzato le lotte recenti e in corso, avvertendone i limiti non in relazione ad un passato idealizzato che non c’è più ma in funzione delle attuali possibilità:

Le rivolte scatenate in diverse parti del mondo negli ultimi decenni, così come i “nuovi movimenti sociali”, nonostante il carattere interclassista e cittadinista che osserviamo in molte occasioni, rendono evidente la persistenza della lotta di classe. Allo stesso tempo, ci avvertono del carattere diverso che il proletariato ha e ha avuto. La centralità della riproduzione sociale nelle lotte ci ricorda che la rivoluzione deve andare ben oltre la certezza di cibo e alloggio. Deve affrontare, non solo come punto di arrivo ma come punto di partenza, la cosiddetta questione di genere, la questione razziale, la sessualità, la famiglia, la natura di cui facciamo parte”. (La Oveja Negra nro. 76, 1° de mayo: Memoria y perspectivas, 2021)

La lotta di classe degli ultimi decenni non è stata incentrata sulle lotte operaie e sui luoghi di lavoro. Sono emersi nuovi protagonisti. Ci riferiamo alle lotte e alle proteste dellu proletariu disoccupatu, al movimento delle donne e delle soggettività transfemministe queer, alle cosiddette lotte ambientali, alle lotte antirepressive o alle lotte contro il narcotraffico e le altre mafie.

Che si manifestano nelle strade, nelle vie, fuori dalle città e persino nelle case.

Che devono necessariamente frenare la circolazione piuttosto che la produzione e che di solito si scontrano o si rivolgono allo Stato piuttosto che a un’impresa o a un datore di lavoro (e da qui la possibilità del loro carattere interclassista e cittadinista che abbiamo menzionato in precedenza). Ciò non significa che lo sfruttamento e il lavoro abbiano perso la loro centralità nella società capitalista; sono proprio le sue trasformazioni ad aver modificato e messo in luce diversi aspetti della riproduzione della forza lavorativa.

Ciò ha reso possibile non solo la critica dell’operaismo ma anche la messa in discussione della nostra esistenza come classe:

Coloro che non cercano di diventare una potenza in più tra tutte le potenze di questo mondo, coloro che aspirano a distruggere tutte queste potenze, potrebbero riassumere il loro programma così: “Abbasso il proletariato”. Ovviamente non nel senso di opposizione ai proletari come esseri umani. (…) I rivoluzionari non propongono il miglioramento della condizione proletaria. Propongono la sua soppressione. La rivoluzione sarà proletaria per coloro che la realizzano e antiproletaria per il suo contenuto. Proletari, ancora uno sforzo per smettere di essere proletari…” (Abajo el proletariado. Viva el comunismo, Les amis du potlatch, 1979).

Viva la rivoluzione sociale!

La storia non è solo il passato, e tanto meno un passato mitizzato. Possiamo fare la storia, non solo studiarla:

Se osserviamo la società moderna, è chiaro che per vivere la stragrande maggioranza delle persone è costretta a lavorare, a vendere la propria forza lavoro. L’insieme delle facoltà fisiche e intellettuali possedute dagli esseri umani, le loro personalità, che devono essere messe in moto per produrre cose utili, possono essere impiegate solo a condizione di essere vendute in cambio di un salario. La forza lavoro è generalmente percepita come una merce da comprare e vendere, proprio come le altre merci. L’esistenza dello scambio e del lavoro salariato ci sembra normale, inevitabile. Tuttavia, l’introduzione del lavoro salariato ha comportato conflitti, resistenze e massacri. La separazione del lavoratore dai mezzi di produzione, che oggi è diventata una cruda realtà accettata, ha richiesto molto tempo e poteva essere realizzata solo con la forza. (…) Attraverso il suo sistema educativo e la sua vita politica e ideologica, la società contemporanea nasconde la violenza passata e presente – su cui si poggia oggi giorno. Nasconde sia la sua origine che i meccanismi del suo funzionamento. Sembrerebbe che sia il risultato di un libero contratto in cui l’individuo, in quanto venditore della sua forza lavoro, incontra la fabbrica, l’ufficio o il negozio. L’esistenza della merce sembrerebbe essere la cosa più ovvia e naturale del mondo e i disastri che essa provoca periodicamente a diversi livelli sono spesso visti come catastrofi quasi naturali. (…) Ciò che in sostanza si tiene nascosto è che l’insubordinazione e la rivolta potrebbe essere abbastanza grande e profonda da porre fine a questa relazione e rendere reale un altro mondo. I rapporti di produzione in cui le persone partecipano sono indipendenti dalla loro volontà: ogni generazione si confronta con le condizioni tecniche e sociali lasciate in eredità dalle generazioni precedenti. Ma può modificarle. Ciò che chiamiamo “storia” è stata fatta dalle persone”. (Gilles Dauvé, Capitalismo y Comunismo, Lazo Ediciones, 2020)

In ogni epoca, la lotta del proletariato esprime e affronta nuove questioni:

Queste possono darci indicazioni importanti sulla società capitalista e sul suo superamento; la rivoluzione dipenderà in ultima analisi da ciò che possiamo fare come classe. La lotta è inevitabile e necessaria, ci trasforma e noi cerchiamo di trasformarla in modo definitivo. La nostra preoccupazione è che la lotta di classe sia in grado di produrre qualcosa di più della sua stessa continuazione. Per questo confidiamo che sia importante non solo partecipare ma anche comprendere, studiare e discutere lo sviluppo delle lotte odierne. Perché è nelle possibilità e nelle condizioni di queste lotte, nelle loro critiche e rotture, che si delinea l’orizzonte rivoluzionario”. (La Oveja Negra nro. 76, 1° de mayo: Memoria y perspectivas)

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Non ci sono abbastanza risorse per tutti, quindi i meritevoli devono riprodursi: cosa c’è dietro le idee malthusiane – Seconda Parte

Prima Parte

Eredi: chi e come utilizzano le idee di Malthus oggi giorno

Nonostante le critiche contemporanee, le idee di Malthus vennero considerate da molti scienziati e politici del XX secolo. Tra i suoi eredi ci sono stati molti storici importanti, come Fernand Braudel, un rappresentante della scuola delle “Annales”, che aveva studiato l’origine del capitalismo. Braudel prestò molta attenzione alla demografia e propose il termine “sovraccarico demografico”1, intendendo le fluttuazioni della popolazione che causano conflitti sociali ed economici. L’approccio neo-malthusiano fu seguito dal medievalista britannico Michael Postan, che studiò lo sviluppo economico e i processi demografici nelle società preindustriali.

Malthus era stato citato anche dagli economisti. Il “padre del neoliberismo” John Maynard Keynes, uno degli economisti più influenti della prima metà del XX secolo, si era ispirato alle idee malthusiane quando discusse dell’impatto della pressione demografica o della sovrappopolazione sull’economia europea. Nel suo libro “Le conseguenze economiche della pace”, Keynes osservò che Malthus “svelò il diavolo” dissipando le illusioni ottimistiche degli ideologi illuministi. Il premio Nobel Jan Tinbergen, che polemizzò con [Keynes], non solo collegò le idee malthusiane con la demografia e l’economia, ma concordò anche sulla necessità di misure di controllo delle nascite per lo sviluppo dei Paesi arretrati.

L’idea che tali controlli fossero necessari per i Paesi poveri con popolazioni in rapida crescita si era diffusa negli anni ’60 e ’70, in un periodo di rapida crescita demografica mondiale e di un ancor più rapido aumento delle disuguaglianze internazionali. Le idee neo-malthusiane presero quindi il posto dell’eugenetica, che in precedenza era servita come giustificazione per le politiche di controllo della popolazione. Queste idee furono alimentate anche dai crescenti timori circa la limitatezza delle risorse del pianeta e dei cambiamenti climatici. Nel 1968, Paul Ehrlich, biologo dell’Università di Stanford, pubblicò “The Population Bomb”, il libro che lo rese famoso, in cui descriveva i pericoli di una continua crescita della popolazione e i rischi associati ai gas serra e all’esaurimento delle risorse. Tutto questo avveniva sullo sfondo della Guerra Fredda, che stimolava l’interesse per la biopolitica globale2 e l’opportunità di influenzare la situazione sociale nei Paesi che erano diventati bersaglio della redistribuzione del potere tra USA e URSS. Meno persone, meno povertà e meno potenziali comunisti [significava] più opportunità di controllo da parte degli Stati Uniti.

Nel 1968 fu fondato il “Club di Roma”, un’organizzazione sociale internazionale creata dal magnate industriale italiano Aurelio Peccei e dal direttore generale dell’OCSE per gli affari scientifici Alexander King. Il Club riunì i rappresentanti dell’élite politica, finanziaria e scientifica mondiale interessati alle questioni ambientali e al futuro della biosfera. L’organizzazione produce tuttora rapporti e si occupa di questioni economiche, demografiche e ambientali. Il primo rapporto, “I limiti della crescita”, venne pubblicato nel 1972. In esso si sosteneva che un’ulteriore crescita della popolazione mondiale, l’industrializzazione e l’inquinamento avrebbe potuto portare all’esaurimento delle risorse e al collasso globale entro un secolo. L’unico modo per evitare un simile esito era controllare i trend di crescita. Il controllo delle nascite, giustificato in questo modo, non solo era stato discusso e promosso dai programmi internazionali, ma era stato anche utilizzato dalle leadership politiche di alcuni Paesi nei decenni successivi.

Un partito, un bambino

La “politica del figlio unico” in Cina è durata dal 1979 al 2015. Il governo cinese stima che in quel periodo siano state evitate circa 400 milioni di nascite. Il programma cinese è stato elogiato dai politici dei Paesi occidentali sviluppati e il Segretario generale delle Nazioni Unite Javier Perez de Cuellar ha sottolineato il ruolo dell’organizzazione [internazionale] nell’attuazione [di tale programma]. Ma le azioni violente del governo [cinese] sono state spesso ignorate.

Come funzionava il programma? Il programma era stato attuato dai funzionari dei singoli insediamenti che rischiavano di subire detrazioni salariali o di essere licenziati se non raggiungevano la quota locale [fissata]. I funzionari pubblici, quindi, lottavano per raggiungere gli obiettivi, spesso trascurando la salute e la dignità delle donne. Tutte le donne in età fertile dovevano sottoporsi regolarmente a test di gravidanza obbligatori; nella provincia di Jiangsu, erano costrette a farlo in un luogo pubblico due volte al mese. A partire dai primi anni ’80, il governo richiese a quelle donne che avevano avuto un parto e/o se avevano più di un figlio di mettersi dei dispositivi intrauterini o spirale intrauterina (IUD) o di sterilizzarsi chirurgicamente. Spesso queste procedure erano forzate. I dati delle Nazioni Unite del 2019 mostravano che il 18,3% delle donne cinesi di età compresa tra i 15 e i 49 anni erano sterilizzate e il 34,1% aveva uno IUD: si tratta di centinaia di milioni di persone.

Le donne con lo IUD venivano controllate periodicamente con radiografie per assicurarsi che la spirale fosse al suo posto. I design delle spirali erano state modificate in modo tale da poter essere rimosse solo chirurgicamente.

Le donne che violavano il limite del figlio unico dovevano pagare multe salatissime, superiori al reddito annuale della famiglia. I bambini nati senza il permesso dello Stato, chiamati popolarmente “heihaizi” o “bambini neri”, non potevano essere registrati ufficialmente, il che significava che non potevano andare a scuola o trovare un lavoro. Oggi in Cina vivono circa 13 milioni di persone non registrate.

Un’altra forma di intervento riproduttivo, oltre alle spirali e alla sterilizzazione, era l’aborto, anche quello forzato. Più di 300 milioni di essi sono stati praticati durante la “politica del figlio unico”. Allo stesso tempo, la procedura era diventata selettiva ed era stata eseguita sulla base del genere. Le famiglie spesso decidevano di abortire quando scoprivano che la madre aspettava una bambina, oppure uccidevano un bambino già nato. A causa di ciò, la Cina ha il rapporto sessuale più sbilanciato del mondo, con solo 100 femmine per ogni 121 maschi nati nel 2004.

Questi metodi violenti di controllo riproduttivo continuano a essere utilizzati anche dopo l’allentamento del 2015 – ovvero con l’introduzione della “politica dei due figli”. Finora, le famiglie che hanno superato il limite devono pagare multe salatissime e le donne di alcune province sono state sottoposte ad esami regolari o aborti forzati. Inoltre, secondo uno studio dell’Associated Press pubblicato nel 2020, il controllo riproduttivo viene utilizzato dal governo della Repubblica Popolare Cinese per opprimere la minoranza uigura nella regione dello Xinjiang. Negli ultimi anni, gli uiguri hanno dichiarato di essere stati sterilizzati con la forza e rischiano di essere inviati in campi penali se violano le restrizioni sul controllo delle nascite.

India: stato di emergenza

Nel Giugno 1975, il governo di Indira Gandhi impose lo stato di emergenza in risposta agli scioperi e alle proteste di massa scoppiate nel paese. Lo stato di emergenza durò quasi due anni, fino a quando il partito di Indira perse le elezioni contro una coalizione di opposizione nel Marzo 1977. Durante questo periodo, oltre alle persecuzioni politiche e all’aumento della censura, il governo effettuò una sterilizzazione di massa delle donne indiane.

A metà degli anni ’70, le idee sui pericoli della sovrappopolazione erano in aumento e l’India sembrava essere uno dei Paesi chiave per l’attuazione delle politiche di controllo delle nascite. Il Paese ricevette aiuti nell’ordine dei miliardi di dollari dagli Stati Uniti e dalle organizzazioni internazionali come la Fondazione Ford e l’UNFPA per programmi umanitari, compresi quelli volti a regolare la sfera riproduttiva. Il presidente della Banca Mondiale Robert McNamara, di ritorno da un viaggio in India nel 1976 e nel bel mezzo dello stato di emergenza, lodò la mossa del Paese di affrontare il suo “problema demografico”, senza menzionare le misure repressive adottate. Tra il 1975 e il 1977 circa 11 milioni di donne indiane vennero sterilizzate forzatamente e ad un altro milione di donne vennero applicati degli IUD.3 Secondo la BBC, quasi duemila donne sono morte a causa delle operazioni sbagliate. Come in Cina, l’attuazione del programma fu affidata ai funzionari e agli insegnanti di base, che dovettero a loro volta sottoporsi alla sterilizzazione e diventare un modello per la popolazione.

La popolazione indiana è più che raddoppiata di 700 milioni di unità negli ultimi 40 anni. Ma il tasso di fertilità complessivo del Paese è in calo: nel 2017 era di 2,24 nascite per donna e continua a diminuire. Come in altri Paesi, in seguito alla crescita economica e all’aumento del benessere, il tasso di fertilità potrebbe scendere a 2,1 nascite per donna senza misure coercitive.

Contraccezione in Perù

A metà del XX secolo, un’esplosione demografica è stata osservata non solo in Asia e in Africa, ma anche in America Latina. In Perù, ad esempio, la popolazione è cresciuta di oltre 2,5 volte in 40 anni, passando dagli otto milioni nel 1950 a 21,5 milioni all’inizio degli anni Novanta. Tuttavia, la situazione demografica del Perù e di altri Paesi della regione aveva attirato l’attenzione di politici e aziende, soprattutto statunitensi.4 Ad esempio, Clarence Gamble, erede della statunitense “Procter & Gamble”, approvava le idee eugenetiche e sosteneva la distribuzione di contraccettivi e le politiche di controllo delle nascite nei Paesi poveri. Nel 1957 aveva fondato il “Pathfinder Fund”, ancor oggi esistente, che finanzia quelle ONG che si occupano di salute riproduttiva in 60 Paesi del mondo.

L’attuazione di programmi di controllo delle nascite è sempre stata associata, nel lavoro delle ONG e degli Stati, all’educazione riproduttiva. Una pioniera in questo campo in Perù era stata Irene Silva de Santolaya, la prima donna eletta al Senato peruviano nel 1956. Promosse l’ “educazione familiare”, che comprendeva la formazione per la diffusione delle informazioni sulla contraccezione e sulla salute riproduttiva nelle scuole, raggiungendo così i bambini e i loro genitori, soprattutto quelli che vivevano nei villaggi. Oltre che nelle scuole, gli specialisti di questi programmi tenevano lezioni nelle cliniche per il controllo delle nascite – aperte in America Latina negli anni Sessanta.

Oltre a proclamare la protezione delle famiglie dalle malattie e dalla povertà, promuovevano attivamente l’uso di contraccettivi ormonali. La loro distribuzione era percepita dallo Stato, dagli operatori sanitari e dai rappresentanti delle ONG come un beneficio e persino un obbligo per le donne, ma non tutte ne avevano diritto.

Alcuni ricercatori hanno definito l’attuazione del “Programma di Salute Riproduttiva e Pianificazione Familiare” (in spagnolo: “Programa de Salud Reproductiva y Planificación Familiar”) come un genocidio deliberato. Il programma è stato il culmine delle idee eugenetiche già documentate nel Codice Penale del Perù del 1924, che divideva i peruviani nelle seguenti categorie: “civilizzati”, “semi-civilizzati” e “selvaggi”. Le discussioni sul controllo delle nascite si concentravano regolarmente sui poveri e sugli indigeni, i “selvaggi”, la cui riproduzione doveva essere controllata. All’inizio del secolo, il controllo riproduttivo prese la forma della sterilizzazione forzata. I medici venivano dalle città e convincevano le donne dei poveri insediamenti rurali a sottoporsi all’operazione. Spesso ricorrevano all’inganno, chiamandola sterilizzazione per rimuovere un tumore e sostenendo che la donna sarebbe stata in grado di partorire in futuro. La barriera linguistica tra i medici di lingua spagnola e i pazienti di lingua quechua aveva aggravato la situazione. Tra il 1996 e il 2001, circa 300.000 donne peruviane erano state sterilizzate nell’ambito della politica neo-malthusiana di Alberto Fujimori.

[Conclusione]

I programmi di sviluppo internazionale portati avanti dalle multinazionali, fondazioni e ONG possono assumere molte forme nei singoli Paesi, spaziando dalle politiche conservatrici e neoliberali a progetti socialdemocratici. Il persistente sistema globale di disuguaglianza mantiene le condizioni in cui molti Paesi e popoli sono costretti a tentare di modernizzarsi e superare la loro situazione [di povertà]. Tuttavia, l’attuazione di questi programmi avviene spesso a spese delle popolazioni più vulnerabili e addirittura aumenta la vulnerabilità di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. In questa situazione ricorrente, ci sarà sempre un posto per le idee di Thomas Malthus, che vedeva la via del benessere sociale attraverso metodi di controllo duri e spesso disumani.

Gli ultimi due secoli hanno dimostrato che il limite posto da Malthus può essere superato dallo sviluppo tecnologico e dai cambiamenti nelle istituzioni sociali. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo ha registrato negli ultimi 50 anni lo stesso declino della fertilità che si è verificato in Europa – dove, con l’esplosione demografica del XIX secolo legata alla rivoluzione industriale, è seguita una stabilizzazione della popolazione. Inoltre, i cambiamenti culturali e sociali della fine del XX secolo – idee individualiste, crisi del matrimonio, vulnerabilità economica giovanile – hanno portato, secondo la seconda fase della transizione demografica, alla riduzione della fertilità nella maggior parte dei Paesi sviluppati.

Nonostante queste tendenze, la paura persistente della sovrappopolazione sta diventando la base per l’attuazione di politiche che portano non tanto a sostenere le società in via di sviluppo quanto a rafforzarne il controllo. Progetti benintenzionati ispirati alle idee neo-malthusiane – aumentare la prosperità, salvare il clima, conservare le risorse – finiscono spesso per affiancarsi ad un crescente sfruttamento, interventi chirurgici forzati e ad un’eugenetica appena celata. La difesa della libertà riproduttiva e dell’integrità corporea, insieme alla continua sfiducia dell’opinione pubblica verso la buona fede degli Stati e delle organizzazioni internazionali, sono considerate l’unico modo per non esacerbare le discriminazioni esistenti.

Bibliografia
Follett С., “Neo‐Malthusianism and Coercive Population Control in China and India: Overpopulation Concerns Often Result in Coercion”, 2020;
Fong M., “One child: The story of China’s most radical experiment”, Simon and Schuster, 2016;
Johnson K. A., “China’s Hidden Children: Abandonment, Adoption, and the Human Cost of the One-Child Policy”, 2020;
Mara Hvistendahl, “Unnatural Selection: Choosing Boys over Girls, and the Consequences of a World Full of Men”, New York: Public Affairs, 2012.
Diamond J., “Collapse: How societies choose to fail or succeed”, New York:Viking Press, 2005

Note del Gruppo Anarchico Galatea e di Nikita Shevchenko

1Una popolazione in ascesa vede modificarsi i propri rapporti con lo spazio che occupa, con le ricchezze di cui dispone; cammin facendo supera le «soglie critiche» ed ogni volta la sua intera struttura è rimessa in discussione. In una parola, il gioco non è mai semplice, univoco: un sovraccarico sempre maggiore di uomini finisce spesso, finiva sempre ieri, col superare le possibilità alimentari delle società. Questa verità, banale prima del Settecento, è valida oggi ancora per alcuni paesi arretrati. Si rivela così invalicabile un certo limite di miglioramento materiale. Perché, quando si aggravano, le spinte demografiche provocano un deterioramento del livello di vita, aumentano il numero sempre impressionante dei sottoalimentati, dei miserabili, degli sradicati.” (estratto dal libro di Fernand Braudel, “Civiltà materiale, economia e capitalismo. Le strutture del quotidiano (secoli XV-XVIII)”, Einaudi, Torino, 2006, Capitolo Primo “Il peso del numero”, pag. 44)

2Vedere Schlosser, Kolson. “Malthus at Mid-Century: Neo-Malthusianism as Bio-Political Governance in the Post-WWII United States.” Cultural Geographies, vol. 16, n. 4, 2009, pp. 465–84.

3Vedere Vicziany, Marika. “Coercion in a Soft State: The Family-Planning Program of India: Part I: The Myth of Voluntarism.” Pacific Affairs, vol. 55, n. 3, 1982, pp. 373–402.

4Vedere Hall, M.-Françoise. “Population control: Latin America and the United States”, International Journal of Health Services, vol. 3, no. 4, 1973, pp. 725–30.

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Non ci sono abbastanza risorse per tutti, quindi i meritevoli devono riprodursi: cosa c’è dietro le idee malthusiane – Prima Parte

Traduzione dall’originale Ресурсов не хватит на всех, поэтому плодиться должны достойные: что стоит за идеями мальтузианства”

L’antropologa Nikita Shevchenko parla della teoria di Thomas Malthus e delle sue implicazioni politiche nel Sud globale.

La sovrappopolazione della Terra è una delle maggiori preoccupazioni del XXI secolo. Ai dibattiti scientifici e alle dichiarazioni di climatologi e di politici vengono affiancate le citazioni dei cattivi di Hollywood e le varie decine di idee cospirazioniste sul «miliardo d’oro» che controlla la distribuzione delle risorse. Questo discorso risale alle idee dell’economista inglese Thomas Malthus, vissuto a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo. Marx e Lenin criticarono la sua teoria come disumana, ma le organizzazioni internazionali e molti governi hanno ripreso le idee malthusiane. L’antropologa Nikita Shevchenko esamina se stiamo effettivamente crescendo più velocemente di quanto riusciamo a sfamarci, se esiste una via d’uscita dalla “trappola malthusiana”, quali crimini sono disposti a commettere i governi nel controllare la fertilità e come il neo-malthusianesimo sia diventato, oggi giorno, una forma accettabile di eugenetica.

Il padre della crescita

Thomas Robert Malthus (1766-1834) è stato un economista e demografo inglese. Nato in una famiglia di discendenti di farmacisti reali, Malthus ottenne un master al Jesus College di Cambridge, rimanendovi come insegnante. Otto anni dopo la laurea, nel 1798, pubblicò la sua opera più famosa, “Saggio sul principio di popolazione”, in cui rispondeva all’eccessivo ottimismo delle idee illuministe sullo sviluppo della società. L’opera venne approfondita per tutto il resto della sua vita, affinando le sue argomentazioni e rispondendo alle critiche. L’ultima, la sesta edizione, venne pubblicata nel 1826.

L’idea di base del lavoro di Malthus è che la crescita della popolazione superi sempre la crescita della produzione alimentare, il che porta inevitabilmente alla crisi. La crescita della forza lavoro riduce i costi e aumenta la povertà.”

Quando Malthus era ancora in vita, le sue opinioni influenzarono le politiche pubbliche. Il “Saggio” contribuì al “Census Act” del 1800, dopo il quale l’Inghilterra iniziò a condurre un censimento nazionale ogni dieci anni. Malthus faceva da consulente ai politici sulla povertà, sovrappopolazione e migrazione e prima di morire divenne uno dei primi membri della Royal Statistical Society, che esiste ancora oggi. Fu uno dei critici della “Poor Law” e sostenne che aiutare i poveri avrebbe portato all’inflazione e peggiorato la loro situazione nel lungo periodo. Influenzato dalle idee di Malthus, la legge fu modificata nel 1834: invece di aiuti in denaro e cibo, i poveri venivano ora mandati nelle case di lavoro e costretti ai lavori forzati. Lo scienziato sostenne anche l’introduzione della “Corn Laws”, che limitò le importazioni e aumentò notevolmente il prezzo del cibo per la popolazione. Le restrizioni durarono dal 1815 al 1846 e furono revocate solo dopo la “Grande Carestia irlandese”, che uccise oltre un milione di persone.

La trappola malthusiana

La prostituzione, che nuoce alla procreazione, tende evidentemente ad affievolire i più nobili affetti del cuore e degradare il carattere. Ogni illecito commercio (se non si adoprino turpi mezzi riprovati dalla morale) non è, meno del matrimonio, efficace ad accrescere la popolazione, e presenta una maggiore probabilità di vedere i figli posti a carico della società di cui dovevano essere membri. Le quali considerazioni provano che la castità non è, come taluni suppongono, una virtù forzata, inventata da un sistema di società puramente artificiale, ma una solida base nella natura e nella ragione: infatti, costituisce il solo mezzo legittimo di evitare i vizii e le calamità che il principio della popolazione trascina seco.” (Malthus Thomas Robert, “Saggio sul principio della popolazione”, Stamperia dell’Unione Tipografico-Editrici, Torino, 1868, Libro IV “Delle speranze di potere in futuro guarire o attenuare i mali che il principio della popolazione trascina”, Capitolo II “Effetti della restrizione morale sulla società”, pag. 342)

I timori di Malthus erano giustificati? Secondo lui, la popolazione cresceva geometricamente e la produzione alimentare cresceva aritmeticamente, con un inevitabile ritardo. Questo ritardo era dovuto ai limiti naturali dell’agricoltura tradizionale: le dimensioni della terra coltivabile e la fertilità del suolo.

Quando la drammatica crescita della popolazione non poteva essere compensata da un aumento della produzione alimentare, la società cadeva nella cosiddetta “trappola malthusiana.”

Malthus vedeva due soluzioni a questo problema, entrambe legate al controllo della popolazione. La prima era il controllo preventivo, che prevedeva la riduzione della fertilità. Questo metodo prevedeva sia restrizioni morali e la diffusione nella società di alcuni atteggiamenti e idee che incoraggiavano le persone a non avere figli o a non sposarsi, sia mezzi medici: contraccezione e aborto (anche se Malthus stesso, da ardente cristiano, fosse contrario a queste cose). Il secondo metodo era il controllo positivo, cioè azioni o fattori mirati che aumentavano la mortalità: guerre, epidemie, carestie.

Malthus credeva che entrambi i metodi avrebbero ristabilito l’equilibrio tra popolazione e risorse, aumentando la quantità di cibo per persona e, quindi, migliorato il benessere della società. I critici sottolineavano questo paradosso nella sua teoria: i disastri naturali e sociali aumentavano il benessere umano, mentre la riduzione della mortalità, cioè l’accesso all’assistenza sanitaria, alla sicurezza, all’alimentazione adeguata, lo peggioravano.

Sebbene Malthus era ascoltato dai politici, gli scienziati percepivano il suo lavoro in modo ambiguo. Ebbe molti seguaci (le sue idee ispirarono la teoria della selezione naturale di Charles Darwin e la teoria dell’evoluzionismo dell’antropologo Alfred Wallace) e molti critici. L’economista americano Henry George riteneva che Malthus trascurasse la differenza essenziale tra gli esseri umani e le altre specie viventi – una mente in grado di controllare la riproduzione. Per lo stesso motivo fu criticato da Marx ed Engels, nonché da tutta la tradizione socialista: le accuse ai poveri erano inaccettabili in quanto la radice della povertà dei lavoratori, secondo la teoria [socialista], era lo sfruttamento capitalistico, non l’eccessivo tasso di natalità.

Ma a criticare le idee di Malthus erano soprattutto i progressi tecnologici e la rivoluzione industriale del XIX secolo, che avevano portato ad un enorme aumento della produzione alimentare e di merci in generale in Europa e in America. L’economista non era riuscito nemmeno a prevedere la transizione demografica che ne era seguita, specie quando una parte minore della popolazione forniva cibo al resto e il reddito cresceva nonostante l’aumento della popolazione. L’esplosione demografica che si era verificata nell’Europa del XIX secolo e, nel XX secolo, nella maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, dimostrava che il limite posto dalla teoria malthusiana era superabile.

Tuttavia, la teoria malthusiana descriveva abbastanza accuratamente la situazione in Europa dal Medioevo fino all’inizio del XIX secolo, quando gli alti tassi di natalità erano compensati da alti tassi di mortalità infantile, carestie ed epidemie. Inoltre, i moderni Paesi del Terzo Mondo, soprattutto nell’Africa tropicale, si trovavano ad affrontare un problema malthusiano: la diminuzione della mortalità dovuta alla diffusione dei moderni mezzi medici si combinava con un alto tasso di natalità ed uno scarso sviluppo economico, con conseguente sovrappopolazione, fame e povertà. L’antropologo americano Jared Diamond suggerisce di considerare i massacri ruandesi come conseguenze della moderna crisi malthusiana.

Il genocidio in Ruanda come “trappola malthusiana”

Il massacro del popolo tutsi in Ruanda avvenne dal 6 Aprile al 18 Luglio 1994. Si stima che il genocidio abbia provocato tra le 500mila e 1 milione di vittime, quasi l’11% della popolazione totale del Paese e tre quarti della popolazione tutsi. Il genocidio faceva parte di una guerra civile iniziata nel 1990 tra il governo hutu e il Fronte Patriottico Ruandese, composto principalmente da rifugiati tutsi. Gli Hutu erano un popolo di agricoltori e i pastori tutsi costituivano la maggioranza della popolazione del Paese.

Le uccisioni erano iniziate il 6 Aprile 1994 quando l’aereo in cui viaggiavano il presidente-dittatore ruandese Habyarimana e il neo-presidente del Burundi Ntaryamira (il presidente precedente era stato ucciso dai ribelli tutsi l’anno prima), era stato abbattuto da due missili mentre atterrava all’aeroporto della capitale ruandese. Il genocidio fu condotto in gran parte dal governo hutu. Vennero coinvolte le forze militari e di polizia e si mobilitarono anche i cittadini comuni, il cui odio fu alimentato dai media – in particolare da “Radio Télévision Libre des Mille Collines” che invitava a uccidere gli “scarafaggi”.

A metà Luglio 1994, le truppe tutsi riuscirono a conquistare la capitale dopo un’offensiva vittoriosa. Furono uccise tra le 25mila e le 60mila persone come rappresaglia; ma dopo il massacro finì.

Perché è successo questo? Oggi il genocidio ruandese è un esempio di come la propaganda politica abbia alimentato l’odio tra i popoli. In Ruanda, come nel vicino Burundi, il conflitto etnico e l’intolleranza erano scoppiati nel periodo post-coloniale, quando gli hutu di entrambi i Paesi avevano combattuto per rovesciare i tutsi – portati al potere dai belgi che consideravano i tutsi più “europei” e dalla pelle chiara.

In Burundi, molti hutu erano stati uccisi durante i disordini, ma il governo tutsi rimase in carica. In Ruanda, invece, gli hutu ebbero la meglio, uccidendo decine di tutsi nel 1963. Ma il conflitto non si limitò all’odio reciproco tra i due popoli. Diamond osserva che nel nord-ovest del Ruanda, gli Hutu massacrarono anche altri Hutu. Durante il massacro furono uccisi molti Pigmei, che rappresentavano l’1% della popolazione del Paese. Senza sminuire l’odio etnico e le azioni criminali della leadership politica ruandese, Diamond suggerisce di cercare le radici di quanto accaduto nella demografia e nella geografia della regione.

L’Africa tropicale ha una forte crescita demografica (in Uganda, ad esempio, la popolazione cresce del 3% all’anno). L’esplosione demografica che si era verificata nei Paesi della regione nella seconda metà del XX secolo, era avvenuta grazie alla diffusione delle coltivazioni provenienti dal Nuovo Mondo (mais, fagioli, manioca), alle vaccinazioni e al miglioramento delle condizioni igieniche, nonché all’istituzione dei confini nazionali. Il problema della crescita demografica in questi Paesi era spesso descritto come “malthusiano”, perché la crescita della popolazione superava la produzione alimentare. Lo stesso vale per il Ruanda.

Il Ruanda e il vicino Burundi sono, ancor oggi, i Paesi più popolosi dell’Africa e tra i più popolosi del mondo. Il Ruanda è 10 volte più popolato rispetto alla vicina Tanzania e tre volte più della Nigeria. Anche dopo il genocidio, nel 1999, il Ruanda ha raggiunto una densità di popolazione di 760 persone per miglio quadrato, per una popolazione totale di otto milioni. Questa cifra si colloca tra il Regno Unito (610) e i Paesi Bassi (950), paesi con un’agricoltura incommensurabilmente più produttiva, dove una piccola percentuale della popolazione può fornire cibo al resto. In Ruanda l’agricoltura non era meccanizzata: invece di mietitrebbie e trattori, si usavano zappe e forconi. Grazie al disboscamento intensivo e all’espansione dei terreni coltivabili, la produzione alimentare pro capite era aumentata dal 1966 al 1981, per poi crollare ai livelli dei primi anni Sessanta. La trappola malthusiana aveva funzionato: la popolazione cresceva, ma la produzione alimentare no. Questa strategia agricola aveva provocato l’erosione del suolo e la conseguente siccità – causando la carestia del 1989.

La comunità di Kanama, nel nord-ovest del Ruanda, era l’area più densamente popolata del Paese. Si era raggiunta la cifra record di 2.040 persone per miglio quadrato nel 1993. Ciò era dovuto ai terreni fertili di origine vulcanica. La popolazione era abbastanza omogenea: l’area era popolata prevalentemente dagli Hutu, il che non aveva impedito loro di uccidere circa il 5% della popolazione locale nel 1994. Perché era successo questo?

L’economista belga Catherine André e il suo insegnante, Jean-Philippe Plato, avevano condotto una ricerca a Kanama nel 1988 e nel 1993. André aveva intervistato i rappresentanti delle famiglie numerose locali e apprese che, a causa del boom demografico della regione, le proprietà terriere si erano ridotte continuamente: nel 1993, c’erano solo 0,07 acri (283 metri quadrati) di terra per ogni contadino. Una quantità del tutto insufficiente per sfamarsi. Inoltre, a causa della mancanza di lavoro disponibile, i giovani e le ragazze erano rimasti a vivere con i genitori, aumentando le tensioni sociali.

Ma c’erano anche proprietari di appezzamenti relativamente grandi, e il divario tra loro e i contadini poveri si era allargato col tempo. Anche i proprietari di grandi appezzamenti, spesso, non disponevano di risorse. Come ha raccontato un insegnante tutsi, miracolosamente sopravvissuto ma che aveva perso la moglie e i quattro figli nel massacro del 1994, al ricercatore francese Gerard Prunier: “Le persone che erano costrette a mandare i propri figli a scuola e a piedi nudi, uccidevano coloro che potevano comprare le scarpe ai loro figli”.

Le dispute sui terreni erano diventate la causa di numerosi conflitti e l’aggravarsi delle questioni ereditarie aveva portato ad una crisi delle relazioni familiari. I tassi di criminalità erano aumentati costantemente fino al 1994 e nel Kanama e in altre regioni erano associati all’eccessiva densità della popolazione e [all’accesso al cibo]. Tutto questo aveva creato le premesse per gli omicidi di massa. Catherine André, dopo aver appreso del destino degli abitanti di Kanama a seguito del genocidio, aveva concluso che erano stati soprattutto i grandi proprietari terrieri, le persone coinvolte in numerose cause legali e i giovani provenienti dalle famiglie impoverite ad unirsi attivamente nella milizia: mentre alcuni regolavano vecchi conti, i più poveri della regione morivano di fame, avendo perso i loro ultimi beni in mezzo al caos e alle uccisioni.

Il principale oppositore della “trappola malthusiana” è la transizione demografica globale: una diminuzione dei tassi di crescita della popolazione associata a matrimoni tardivi, il rinvio della nascita del primo figlio, l’aumento degliintervalli tra le nascite e l’aumento della percentuale di persone senza partner e figli.

In Uganda, Kenya, Ruanda e altrove in Africa, i tassi di crescita sono diminuiti di poco ogni anno. Nonostante questo, la popolazione ha continuato a crescere: il Ruanda conta oggi 13,5 milioni di persone.

Le ragioni economiche e demografiche che hanno contribuito al coinvolgimento del Ruanda nel massacro del 1994, osserva Diamond, non assolvono in alcun modo la leadership politica coinvolta nel fomentare la discordia. Ma la conoscenza di queste ragioni può essere utilizzata per prevenire situazioni che potrebbero portare a tragedie simili.

Continua nella Seconda Parte

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Banche sull’orlo del baratro? Origini, natura e traiettoria della crisi

Banche sull’orlo del baratro? Origini, natura e traiettoria della crisi

Nota introduttiva critica

L’intervista che presentiamo è stata fatta da Spectre a Michael Roberts, un’economista marxista, riguardo le ultime vicende legate alla Silicon Valley Bank tra mancanza di liquidità e, più in generale, la debolezza del sistema bancario internazionale. L’istituzione bancaria, da quando esiste, è sempre stata fondamentale per l’attuale economica capitalistica e, più in generale, per il sistema statale vigente attraverso i prestiti e la circolazione di liquidità monetaria. Vari pensatori e rivoluzionari anarchici (da Proudhon a de Santillan) hanno cercato di trasformare la banca in uno strumento di aiuto sociale e non speculativo, gestendolo a livello cooperativo e collettivo. Il problema che sorge con una visione del genere è come questo strumento debba in qualche modo rapportarsi con un mercato basato su un modello produttivo e distributivo capitalistico. Di conseguenza, l’accumulazione, la speculazione e lo sfruttamento sono sempre dietro l’angolo. Se questo è il limite che pensatori e rivoluzionari anarchici hanno riscontrato nei periodi storici da loro vissuti (che fossero in tempi di pace e/o di guerra guerreggiata), la soluzione che propone Roberts è ancor più limitante e “utopica” di costoro: il controllo statale delle banche. Lo Stato, secondo Roberts, può essere inteso come una sorta di entità pubblica e controllata da una collettività democratica che, a sua volta, regolamenterà l’istituzione finanziaria creditizia, evitando attività speculative bancarie e distribuendo collettivamente i guadagni in modo equo. Su un piano reale e pratico, però, la regolamentazione verrebbe fatta da un’istituzione violenta, verticistica e fortemente classista qual è lo Stato, lasciando de facto invariato la concezione di prestito e di circolazione monetaria – che, a sua volta, dovrà attenersi agli andamenti dei mercati interni ed esterni e, quindi, ad un modello produttivo e distributivo o di scambio basato sullo sfruttamento.

Usare uno strumento di derivazione capitalistica finanziaria qual è la banca e per giunta regolamentata o controllata da uno Stato, non potrà portare mai ad una forma di liberazione dell’individuo dalle catene di oppressione e sfruttamento vigente. In un momento storico come quello odierno fatto di crisi, repressioni statali e proteste sempre più marcate a livello internazionale, occorre ripensare in modo netto e radicale a dei modelli sociali e di produzione, gestione e distributivi alternativi orizzontali, scevri da istituzioni violente, classiste e coercitive.

Traduzione dall’originale Banks on the Brink? The Origins, Nature, and Trajectory of the Crisis”

Il settore bancario è stato colpito da una serie di fallimenti, salvataggi governativi e acquisizioni. La crisi di queste banche ha mandato in tilt i mercati azionari di tutto il mondo. Cosa ha causato tutto questo? È una crisi passeggera? Che impatto avrà sull’economia reale? Ashley Smith di Spectre intervista Michael Roberts, ponendogli queste e altre domande sul capitale finanziario e sul capitalismo globale di oggi.

Michael Roberts è l’autore di “The Long Depression: Marxism and the Global Crisis of Capitalism” (Haymarket 2016) e, con Guglielmo Carchedi, di “Capitalism in the 21st Century” (Pluto 2022). Scrive regolarmente commenti e analisi sul suo blog, The Next Recession.

Quali sono state le cause immediate di questa serie di fallimenti bancari?

La causa immediata dei recenti fallimenti bancari, come sempre, è stata la perdita di liquidità. Cosa intendiamo con questo? I depositanti della Silicon Valley Bank (SVB), della First Republic e anche della banca di criptovalute Signature hanno iniziato a ritirare i loro contanti e queste banche non avevano la liquidità necessaria per soddisfare le richieste dei depositanti.

Perché? Per due motivi fondamentali. In primo luogo, gran parte del contante depositato presso queste banche era stato reinvestito in attività che hanno perso enormemente valore nell’ultimo anno o giù di lì. In secondo luogo, molti dei depositanti di queste banche, soprattutto piccole aziende, si sono accorti che non stavano più realizzando profitti o ricevendo finanziamenti supplementari dagli investitori, ma avevano ancora bisogno di pagare le bollette e il personale. Così, hanno iniziato a ritirare contanti anziché accumularli.

Perché le attività delle banche hanno perso valore? La causa è da ricercare nell’aumento dei tassi d’interesse nel settore finanziario, indotto dalle azioni della Federal Reserve che ha aumentato il tasso di riferimento in modo brusco e rapido, presumibilmente per controllare l’inflazione. Come funziona?

Per fare soldi, le banche offrono ai depositanti un interesse del 2% all’anno sui loro depositi. Devono coprire questo interesse facendo prestiti ai clienti ad un tasso più alto, oppure investendo i contanti dei depositanti in altre attività che fruttano un tasso d’interesse più alto. Le banche possono ottenere questo tasso più alto, acquistando attività finanziarie che pagano più interessi o che possono essere vendute con un profitto (ma potrebbero essere più rischiose), come obbligazioni societarie, ipotecarie o azioni.

Le banche possono acquistare obbligazioni, che sono più sicure perché le banche ottengono il rimborso integrale alla scadenza del titolo – ad esempio cinque anni. Inoltre, ogni anno la banca riceve un tasso di interesse fisso più alto del 2% – rispetto a quello che ricevono i suoi depositanti. Ottiene un tasso più alto, quindi, perché non può riavere il suo denaro immediatamente ma deve aspettare – anche degli anni.

Le obbligazioni più sicure da acquistare sono i titoli di Stato, perché lo Zio Sam (probabilmente) non si renderà inadempiente nel rimborsare l’obbligazione dopo cinque anni. I dirigenti della SVB pensavano quindi di essere molto prudenti acquistando titoli di Stato. Ma ecco il problema. Se si acquista un titolo di Stato per 1.000 dollari che “matura” tra cinque anni (cioè si recupera l’intero investimento in cinque anni) e che paga un interesse, ad esempio, del 4% all’anno, allora i clienti depositanti ottengono solo il 2% all’anno; in tal caso, come banca, si sta guadagnando.

Ma se la Federal Reserve aumenta il tasso di interesse dell’1%, le banche devono aumentare di conseguenza anche i tassi sui depositi, altrimenti perdono clienti. Il profitto della banca si riduce. Ma peggio ancora, il prezzo dell’obbligazione da 1.000 dollari esistente sul mercato secondario delle obbligazioni (che è come il mercato delle auto di seconda mano) scende. Perché? Perché, sebbene il vostro titolo di Stato continui a pagare il 4% all’anno, il differenziale tra l’interesse del vostro titolo e quello dei contanti o di altre attività a breve termine si è ridotto.

Se dovete vendere il vostro titolo sul mercato secondario, un potenziale acquirente non sarà disposto a pagare 1.000 dollari per il vostro titolo, ma solo 900 dollari. Questo perché l’acquirente, pagando solo 900 dollari e ottenendo un interesse del 4%, può avere un rendimento di 4/900 o 4,4%, rendendo più conveniente l’acquisto. SVB aveva un carico di obbligazioni acquistate “alla pari” (1.000 dollari) ma di valore inferiore sul mercato secondario (900 dollari). Aveva “perdite non realizzate” nei suoi libri contabili.

Ma che importanza ha se non deve venderle? SVB potrebbe aspettare che le obbligazioni giungano a scadenza, e poi riavrebbe tutto il denaro investito più gli interessi in cinque anni. Ma ecco la seconda parte del problema per SVB. Con il rialzo dei tassi da parte della Fed e il rallentamento dell’economia (che si dirige verso la recessione), in particolare nel settore delle start-up tecnologiche in cui SVB era specializzata, i suoi clienti stavano perdendo profitti e quindi erano costretti a bruciare più contanti e a ridurre i loro depositi presso SVB.

Alla fine SVB non disponeva di liquidità sufficiente per far fronte ai prelievi; invece, aveva un sacco di obbligazioni che non erano maturate. Quando la cosa divenne evidente ai depositanti, quelli che non erano coperti dall’assicurazione statale sui depositi (qualsiasi cifra superiore ai 250.000 dollari) furono presi dal panico e si verificò una corsa alla banca. Questo è diventato evidente quando SVB ha annunciato che avrebbe dovuto vendere gran parte dei suoi titoli per coprire i prelievi. Le perdite sembravano essere così grandi che nessuno avrebbe immesso nuovo denaro nella banca e SVB ha dichiarato bancarotta.

La mancanza di liquidità si è quindi trasformata in insolvenza, come sempre accade. Quante piccole imprese hanno scoperto che se solo avessero ottenuto un po’ di più dalla loro banca o da un investitore, avrebbero potuto superare la mancanza di liquidità e rimanere in attività? Invece, se non ricevono altri aiuti, devono ripiegare. È quello che è successo alla SVB, alla Signature, la banca di deposito di criptovalute, e ora alla First Republic, una banca per le medie imprese e i ricchi di New York.

Cosa hanno fatto gli Stati Uniti e altri Stati per fermare la crisi finanziaria? Questo lavoro per prevenire altri fallimenti bancari e per calmare i mercati azionari funzionerà?

Il governo, la Fed e le grandi banche hanno fatto due cose. In primo luogo, hanno offerto fondi per soddisfare la richiesta di contanti da parte dei depositanti. Sebbene negli Stati Uniti i depositi in contanti superiori ai 250.000 dollari non siano coperti dal governo, quest’ultimo ha rinunciato a tale soglia e ha dichiarato che coprirà tutti i depositi come misura di emergenza.

In secondo luogo, la Fed ha istituito uno speciale strumento di prestito chiamato “Bank Term Funding Program”, grazie al quale le banche possono ottenere prestiti per un anno, utilizzando le obbligazioni come garanzia alla pari per ottenere liquidità e far fronte ai ritiri dei depositanti. In questo modo, non sono costrette a vendere le loro obbligazioni sotto la pari. Queste misure mirano a fermare il “panico” bancario. Ma ovviamente non risolvono i problemi di fondo in cui si trovano le banche a causa dell’aumento dei tassi di interesse e del calo dei profitti per le aziende che si servono di queste banche.

Alcuni sostengono che SVB e le altre banche sono piccole realtà e piuttosto specializzate. Quindi, non riflettono problemi sistemici più ampi. Ma questo è da mettere in dubbio. In primo luogo, SVB non era una banca piccola, nemmeno specializzata nel settore tecnologico: era la sedicesima banca più grande degli Stati Uniti e la sua caduta è stato il secondo crollo più grande nella storia finanziaria degli Stati Uniti. Inoltre, un recente rapporto della Federal Deposit Insurance Corporation mostra che SVB non è l’unica ad avere enormi “perdite non realizzate” nei propri libri contabili. Il totale di tutte le banche è attualmente di 620 miliardi di dollari, pari al 2,7% del PIL statunitense. Questo sarebbe un potenziale colpo per le banche o per l’economia se queste perdite diventassero realtà.

In effetti, il 10% delle banche ha perdite non riconosciute maggiori di quelle della SVB. SVB non era nemmeno la banca peggio capitalizzata, con il 10% delle banche con una capitalizzazione inferiore a quella di SVB. Uno studio recente ha rilevato che il valore di mercato delle attività del sistema bancario è inferiore di 2.000 miliardi di dollari rispetto al valore contabile delle attività, che tiene conto dei portafogli di prestiti detenuti fino alla scadenza.

Le attività bancarie valutate sul mercato sono diminuite in media del 10% per tutte le banche, con il 5º percentile inferiore che registra un calo del 20%. Peggio ancora, se la Fed continuerà ad alzare i tassi di interesse, i prezzi delle obbligazioni scenderanno ulteriormente, e le perdite non realizzate aumenteranno con un numero maggiore di banche che si troverà ad affrontare la mancanza di liquidità.

Le misure di emergenza potrebbero quindi non essere sufficienti. Attualmente si sostiene che la liquidità aggiuntiva può essere finanziata da banche più grandi e più forti che rilevano quelle deboli e ripristinano la stabilità finanziaria senza colpire i lavoratori e le lavoratrici. Questa è la soluzione di mercato in cui i grandi avvoltoi cannibalizzano le carogne morte: per esempio, il ramo britannico della SVB è stato acquistato dalla HSBC per 1 sterlina. Nel caso del Credit Suisse (CS), le autorità svizzere stanno cercando di imporre un’acquisizione da parte della più grande banca UBS per un prezzo pari ad un quinto dell’attuale valore di mercato del CS.

Tuttavia, se l’attuale crisi diventasse sistemica, come nel 2008, questo non sarà sufficiente. Si dovrà invece procedere alla socializzazione delle perdite subite dall’élite bancaria attraverso salvataggi governativi, facendo lievitare il debito del settore pubblico (già a livelli record), che dovrà essere ripagato da tuttu noi attraverso un aumento della tassazione e un’ulteriore austerità nella spesa e nei servizi sociali.

La Federal Reserve e le altre banche centrali continueranno ad alzare i tassi d’interesse per combattere l’inflazione o faranno marcia indietro per prevenire ulteriori crisi bancarie?

Sembra molto probabile che le banche centrali continueranno ad aumentare i tassi di interesse nella loro impossibile ricerca di controllare l’inflazione. Si fermeranno solo se si verificherà un’ulteriore serie di crolli bancari. In quel caso potrebbero essere costrette a invertire le loro politiche di restrizione monetaria per salvare il settore bancario.

Al momento, però, fanno la faccia coraggiosa e sostengono che il sistema bancario è molto “resistente” e in condizioni migliori rispetto al 2008. Al contrario, un’inversione della stretta monetaria sarebbe disastrosa per la credibilità delle banche centrali, in quanto metterebbe in luce queste istituzioni che non controllano l’offerta monetaria, i tassi di interesse o l’attività bancaria.

Quali sono le cause più profonde dell’inflazione e dell’instabilità finanziaria odierna?

Prendiamo innanzitutto l’instabilità finanziaria. Il capitalismo è un’economia monetaria. La produzione, al momento dell’utilizzo, non è destinata al consumo diretto. La produzione di beni è destinata alla vendita su un mercato e scambiata con denaro. Il denaro è necessario per acquistare le merci.

Il denaro e le merci non sono la stessa cosa, quindi la circolazione del denaro e delle merci è intrinsecamente soggetta a rotture. In qualsiasi momento, i detentori di denaro contante non possono decidere di acquistare le merci a prezzi correnti e di accumularle. Allora chi vende le merci deve ridurre i prezzi o addirittura fallire. Molte cose possono innescare questa ripartizione nello scambio di denaro e materie prime, o di denaro per attività finanziarie come le obbligazioni o le azioni – il capitale fittizio, come Marx lo ha chiamato. E può accadere all’improvviso.

Ma la causa principale sarà la sovra-accumulazione di capitale nei settori produttivi dell’economia o, in altre parole, la diminuzione della redditività degli investimenti e della produzione. I clienti delle aziende tecnologiche della SVB avevano iniziato a perdere profitti e stavano subendo una perdita di finanziamenti da parte dei cosiddetti “venture capitalist” (investitori in start-up) perché gli investitori vedevano i profitti in calo. Per questo motivo le aziende tecnologiche hanno dovuto ridurre i loro depositi in contanti. Questo ha distrutto la liquidità di SVB e l’ha costretta ad annunciare la vendita delle sue attività obbligazionarie.

Nel crollo finanziario del 2008, la crisi di liquidità è stata causata dal crollo del mercato immobiliare, non da quello tecnologico come ora. Molti istituti di credito hanno subito gravi perdite nelle obbligazioni ipotecarie e i derivati di tali obbligazioni hanno moltiplicato gli effetti in tutto il settore finanziario e a livello internazionale. Ma il crollo del mercato immobiliare in sé era dovuto a una flessione della redditività dei settori produttivi dell’economia a partire dal 2005-2006, che alla fine ha provocato un vero e proprio crollo dei profitti totali che ha riguardato anche il settore immobiliare.

Questa volta il crollo monetario è stato innescato dall’impennata dell’inflazione a livello globale dopo la fine della pandemia COVID. Questo è stato determinato, soprattutto, dagli enormi aumenti dei costi energetici e alimentari delle catene di approvvigionamento internazionali che si sono interrotte durante la COVID e non si sono più riprese.

Le aziende che hanno riaperto si sono trovate nell’impossibilità di far fronte alla ripresa della domanda; non sono riuscite a far funzionare di nuovo correttamente le navi, i container, i porti e le piattaforme petrolifere. Le forniture di cibo ed energia si sono prosciugate e i prezzi sono aumentati, anche prima che la guerra tra Russia e Ucraina intensificasse il crollo della catena di approvvigionamento dei prodotti di base. Al di là del cibo e dell’energia, l’inflazione di fondo è accelerata a causa della crescita generalmente bassa della produttività nelle principali economie: le aziende capitalistiche non sono riuscite a trovare abbastanza personale qualificato dopo la pandemia da COVID e non hanno investito in nuove capacità di produzione; per cui la crescita della produttività lavorativa non è stata sufficiente a soddisfare la ripresa della domanda.

Ciò che è chiaro è che l’accelerazione dell’inflazione non è stata causata dall’aumento del costo del lavoro (cioè dall’aumento dei salari); al contrario, i lavoratori e le lavoratrici erano (e sono) molto indietro rispetto alla spirale inflazionistica per quanto riguarda la compensazione dei salari. Invece, l’aumento dei costi delle materie prime e la loro carenza hanno permesso a quelle aziende col potere di determinare il prezzo – tipo le grandi multinazionali -, di aumentare i prezzi e di far salire i margini di profitto a livelli record – in particolare le aziende del settore energetico e alimentare. È stata una spirale prezzo-profitto.

Ciononostante, le autorità monetarie di tutto il mondo hanno ignorato o negato che l’accelerazione dell’inflazione fosse un problema dell’offerta (come di solito avviene nel modo di produzione capitalistico). Al contrario, hanno sostenuto che [l’inflazione] fosse dovuta ad una domanda eccessiva che induceva ad una spirale salari-prezzi. La risposta è stata: l’innalzamento dei tassi di interesse, invertire le precedenti politiche di “quantitative easing” (QE) con un “quantitative tightening” (QT) e ridurre la liquidità (contanti e credito a basso costo). Così il costo dei prestiti per gli investimenti delle imprese o i pagamenti dei mutui delle famiglie sono aumentati bruscamente e il sistema bancario si è spezzato.

L’ironia della situazione è come l’aumento dei tassi continuerà ad avere uno scarso effetto diretto sui tassi d’inflazione; al contrario, questa politica sta comprimendo i profitti e i salari, accelerando così la crisi economica – proprio come è accaduto sotto il regime della Fed di Volcker alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli anni ’80, che ha portato ad una crisi profonda tra il 1980 e il 1982.

In che modo questa crisi è diversa da quella del 2008 e dalla Grande Recessione? Cosa ha ripristinato la crescita allora? E questi mezzi sono oggi a disposizione dei capitalisti e dei loro Stati?

La produzione e gli investimenti capitalistici soffrono di crolli regolari e ricorrenti. Si tratta di un correttivo necessario nel tempo della tendenza alla riduzione della redditività. I crolli eliminano i rami morti e permettono ai più forti di conquistare i mercati dei più deboli, riducendo il costo del lavoro attraverso un aumento della disoccupazione e gettando così le basi per una maggiore redditività e per la ripresa economica. Questo processo è stato definito “distruzione creativa”.

La Grande Recessione del 2008-2009 ha raggiunto in parte questo obiettivo, ma solo in parte. La redditività del capitale nelle principali economie è rimasta al di sotto dei livelli registrati alla fine degli anni Novanta. Ciò ha mantenuto deboli gli investimenti nei settori produttivi. Le aziende sono dipese dal credito a basso costo o quasi nullo per andare avanti – la quota di “aziende zombie” che sopravvivono semplicemente indebitandosi di più ha raggiunto circa il 20%. Il crollo pandemico del 2020 ha dimostrato che un capitalismo depresso e stagnante non si è ancora ripreso – nessuna distruzione creativa quindi.

Quali soluzioni offre oggi l’establishment capitalista? E funzione?

La soluzione mainstream ai crolli bancari è sempre la stessa: una migliore regolamentazione. Anche gli economisti mainstream più radicali, come Joseph Stiglitz, o i politici come Bernie Sanders o Elizabeth Warren, spingono per questa soluzione. Eppure la regolamentazione di un settore finanziario intrinsecamente instabile e speculativo non funziona.

La storia della regolamentazione è una storia di ignoranza, elusione e bugie. Prendiamo la SVB: le autorità di regolamentazione non si sono accorte del rischio di tasso di interesse che il consiglio di amministrazione della SVB stava correndo acquistando così tante obbligazioni, nonostante gli avvertimenti provenienti da varie fonti. E più e più volte sono emersi scandali bancari che i regolatori non hanno colto.

Invece di regolamentare, è necessario rendere di proprietà pubblica le principali istituzioni bancarie e finanziarie, che saranno gestite e controllate democraticamente dai lavoratori e dalle lavoratrici di tali istituzioni e dell’economia in generale. Dobbiamo chiudere le banche d’investimento speculative come Goldman Sachs o i megaliti dell’investimento come BlackRock. Dobbiamo porre fine ai grotteschi stipendi e bonus dei dirigenti bancari e dei trader dell’investment banking.

Il settore bancario dovrebbe essere un servizio pubblico come l’istruzione o lo smaltimento dei rifiuti, non un centro per scommettere al casinò finanziario con i nostri soldi. Ah, dicono alcuni, anche se le banche statali si limitassero a raccogliere i depositi e a concedere prestiti alle imprese per gli investimenti e alle famiglie per l’acquisto di beni di prima necessità, si potrebbe comunque verificare una fuga dei depositanti.

Sì, può darsi. Ma è molto improbabile se i depositanti sanno che i loro soldi sono al sicuro perché vi è lo Stato dietro la banca; le banche non speculano più e sono gestite in modo democratico e trasparente. Se i tassi di interesse aumentano e le banche di proprietà dello Stato subiscono perdite sui titoli di Stato in loro possesso, tali perdite verrebbero condivise equamente dalla società e non dai lavoratori e dalle lavoratrici per salvare i ricchi depositanti e le aziende a spese dal resto della collettività. Ma la proprietà pubblica delle banche è un tabù per tutte le opinioni, anche per quelle socialiste.

Qual è la probabile traiettoria del capitalismo globale?

I primi due decenni di questo secolo hanno dimostrato che il capitalismo ha superato la sua data di scadenza. La crescita economica è rallentata e le economie hanno subito due grandi crolli (2008-2009 e 2020), compreso il più grande crollo finanziario della storia. Gli investimenti nei settori che creano valore e che potrebbero aumentare i redditi e ridurre le ore di lavoro non hanno avuto luogo.

Il riscaldamento globale e il cambiamento climatico non sono stati arginati e ci stiamo dirigendo verso una catastrofe esistenziale. La povertà nel cosiddetto Sud globale sta peggiorando e la disuguaglianza dei redditi e della ricchezza sta aumentando ovunque. Il capitalismo è bloccato in una lunga stagnazione o depressione.

Questa situazione potrà essere superata (e solo temporaneamente) solo se il capitale distruggerà il tenore di vita dei lavoratori e delle lavoratici in modo sufficiente da aumentare la redditività e a ripristinare la crescita degli investimenti. Ma qualsiasi tentativo di fare ciò potrebbe provocare un conflitto di classe senza precedenti. Finora, quindi, gli strateghi del capitale hanno preferito strisciare e non afferrare il nodo della liquidazione e della distruzione creativa. Ma ci sono forze là fuori che vogliono fare ciò

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Lu attivistu della “resistenza” sudanese si mobilitano con l’aggravarsi della crisi

Traduzione dall’originale “Sudan ‘resistance’ activists mobilise as crisis escalates

Gruppi di attivistu in tutto il Sudan hanno creato reti di medici, infermieri e ingegneri per rispondere alle esigenze dei cittadini.

Quando il 15 Aprile è scoppiato il conflitto in Sudan, lu attivistu di centinaia di quartieri si sono mobilitatu per creare comitati di medici, infermieri e ingegneri in tutto il Paese. I loro compiti variano dall’offrire riparo alle persone sfollate, alla riabilitazione degli ospedali e al salvataggio di vite umane in mezzo a bombardamenti e spari.

Gli sforzi provengono dai “comitati di resistenza” del Sudan, gruppi di quartiere che hanno guidato il movimento pro-democrazia nel Sudan dal 2019.

Ogni comitato di coordinamento ha fatto una scansione degli ospedali funzionanti. Anche gli ospedali che non funzionavano prima della guerra li abbiamo fatti funzionare portando medici, carburante ed elettricità”, ha dichiarato Ahmed Ismat, portavoce di uno dei gruppi del sud di Khartoum, la capitale. “Quello che manca in questo momento sono i rifornimenti, dai farmaci ai kit di pronto soccorso, alle garze. In ogni quartiere mancano queste cose”, ha aggiunto.

Da quando una violenta lotta per il potere è esplosa in un conflitto armato tra l’esercito e i paramilitari delle Rapid Support Forces (RSF), almeno 413 persone sono state uccise, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

La violenza ha spinto i gruppi di aiuto a sospendere le operazioni, ma i comitati di resistenza hanno lavorato per riempire il vuoto, mobilitando le reti informali che un tempo venivano utilizzate per organizzare le proteste antigovernative. Secondo gli analisti, oltre all’assistenza medica, [i comitati] hanno coordinato le evacuazioni per i civili assediati e diffuso messaggi contro la guerra, e i loro sforzi hanno aumentato il loro sostegno tra la popolazione.

I comitati di resistenza mantengono la loro legittimità perché fanno qualcosa di diverso rispetto alle élite politiche di questo Paese, ovvero forniscono servizi. Hanno sempre incentrato tutto il loro lavoro politico sui servizi e lo stanno facendo molto di più ora, durante [questa fase di] guerra”, ha dichiarato Kholood Khair, direttore fondatore di Confluence Advisory, un think tank di Khartoum.

L’evacuazione dei civili

I combattimenti hanno sconvolto i quartieri urbani di Khartoum, mettendo molti civili in difficoltà. Sui social media, centinaia di persone affermano che è troppo pericoloso lasciare le proprie case per cercare rifugio altrove; ma restare a casa è impossibile a causa della carenza di acqua, cibo ed elettricità.

Tuttavia, coloro che sono alla disperata ricerca di un rifugio si affidano ai comitati di resistenza per procurarsi il carburante per le auto e le moto, ha dichiarato Zuhair al-Dalee, membro di un comitato di resistenza nel distretto del Nilo orientale di Khartoum.

C’è un’area nel nostro quartiere vicino agli scontri, ma non c’è carburante [per soccorrere le persone]. Abbiamo dovuto comprarlo al mercato nero per portare i residenti in aree più sicure. [I comitati] lavorano in modo unitario. Le persone ci stanno facendo delle donazioni per comprare del cibo per i bambini e, in generale, per fare tutto il necessario per aiutare la gente”, ha detto ad Al Jazeera.

Per coordinare la risposta umanitaria sono stati creati numerosi gruppi WhatsApp, pagine e hashtag sui social media. Molti usano l’hashtag #NotoWar. e pubblicano informazioni aggiornate su quali strade e vie secondarie siano sicure per sfuggire ai pesanti scontri.

Nei primi giorni del conflitto, queste pagine informavano le famiglie di dirigersi verso sud, nello Stato di Gezira, un’area relativamente lontana dagli scontri in corso. In seguito, i comitati di resistenza della città di Madani hanno avvertito la popolazione di non percorrere la strada Khartoum-Madani dopo che gli scontri erano improvvisamente scoppiati in quella zona.

I comitati di resistenza di quartiere hanno questi meccanismi di coordinamento che utilizzano per cooperare tra loro, consentendogli di scambiare informazioni e di mantenere viva la nostra rete di protezione e sostegno sociale verso i civili”, ha detto ad Al Jazeera Hamid Murtada, analista sudanese e membro di un comitato di resistenza, dalla sua casa di Khartoum.

Rimanere neutrali

Oltre a fornire servizi e vie di fuga, i comitati di resistenza svolgono anche un ruolo nel mantenere la coesione sociale dei loro quartieri. Murtada ha sottolineato che lu attivistu hanno esortato le loro comunità a non schierarsi né con le RSF né con l’esercito, poiché entrambe le parti potrebbero sfruttare la retorica etnica per reclutare più combattenti.

I comitati di resistenza di quartiere possono svolgere un ruolo enorme nel garantire che… le narrazioni dell’esercito e delle RSF… non portino alla divisione delle comunità”, ha detto Murtada.

Hanno un ruolo importante nel sensibilizzare le loro circoscrizioni e nel sostenere iniziative che pongano immediatamente fine alla guerra. Quello che succederà dopo è una storia di un altro giorno”.

I comitati di resistenza si sono dimostrati all’altezza della situazione, con attività quali i messaggi contro la guerra dipinti con le bombolette spray sui muri delle case e degli edifici e la formazione di gruppi sui social media per esortare i loro coetanei ad unirsi alla risposta umanitaria – e non ai combattimenti.

Nonostante gli sforzi eroici, Khair afferma che i comitati di resistenza hanno ricevuto scarso sostegno dalle Forces for Freedom of Change – Central Command (FFC-CC), un blocco di partiti politici che condividevano il potere con l’esercito in un governo di transizione prima del colpo di stato militare dell’Ottobre 2021.

Anche le RSF e l’esercito non hanno fornito alcun supporto in quanto terrorizzano i civili.

Khair ha dichiarato ad Al Jazeera che con gran parte del Sudan dipendente dai comitati di resistenza, la comunità internazionale dovrebbe impegnarsi efficacemente anche con loro. Tuttavia, prevede che i funzionari occidentali continueranno a favorire le élite politiche e i generali quando si tratterà di prendere decisioni politiche.

[La comunità globale] trova scuse per non trattare con [i comitati di resistenza]… perché non si sforza di capirli. Capiscono solo i militari e dove ci sono persone che comandano e persone che stanno sotto di loro”, ha detto.

Ma quando si dispone di organizzazioni indipendenti e solide che possono dare impulso al cambiamento e non si trova il modo di impegnarsi con esse…Beh, questo è quasi criminale”.

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Spari a Khartoum

Traduzione dall’originale “Gunshots in Khartoum

Il 15 Aprile, a Khartoum, capitale del Sudan, sono iniziati gli scontri tra le Forze Armate Sudanesi (SAF), fedeli ad Abdel Fattah al-Burhan, il generale che guida il consiglio di governo del Paese, e le forze paramilitari del suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti” (piccolo Mohamed), il pretendente bonapartista al trono del Sudan. Inizialmente, le milizie di Hemedti, note come RSF (Rapid Support Forces), sembravano in vantaggio; hanno preso il controllo di diverse basi aeree e si sono piazzate nei quartieri residenziali di Khartoum, facendo presagire una difficile campagna di guerra urbana per Burhan. Verso la fine del 16 Aprile, tuttavia, la superiorità delle armi delle SAF si è fatta sentire: i jet da combattimento hanno bombardato le caserme delle RSF e hanno allontanato le forze paramilitari dalle posizioni prese in città. Gran parte della situazione rimane incerta, anche per chi è sul posto. Tutto quello che posso dirti, mi ha scritto un amico, è da dove proviene il fumo. A differenza del colpo di Stato dell’Ottobre 2021, internet funziona ancora, ma non ha portato molta chiarezza. I fatti sono nascosti da affermazioni e controaffermazioni, tutte veicolate da post su Facebook.

Ciò che è chiaro è il motivo per cui è scoppiato questo scontro. Le tensioni tra le due parti erano aumentate dopo la firma di un accordo nel Dicembre 2022, il cosiddetto “Accordo quadro”, che avrebbe dovuto aprire la strada verso la transizione di un governo a guida civile e all’abbandono del potere da parte della giunta militare che governava il Sudan dall’Ottobre 2021. L’accordo ha messo in secondo piano tutte le questioni più spinose. In particolare, non ha affrontato l’integrazione delle RSF nell’esercito – uno sviluppo per il quale Burhan auspicava due anni e Hemedti dieci. Il processo politico avviato ha avuto la rara caratteristica di essere estremamente vago e del tutto irrealistico.

Secondo un programma creato in gran parte per attirare l’attenzione internazionale, i [risultati] dei compromessi delicati [tra le due parti] erano attesi in poche settimane [– quando, invece,] avrebbero richiesto dei mesi.

Queste richieste hanno acuito le tensioni latenti tra le due parti, spingendo le RSF a credere che l’Egitto – da sempre sostenitore dell’esercito sudanese – sarebbe intervenuto. Hemedti ha schierato le sue forze vicino alla base aerea di Merowe all’inizio del Ramadan, fornendo il catalizzatore per gli attuali scontri.

***

Per capire le radici della lotta tra l’esercito e le RSF, bisogna risalire alla formazione dello Stato sudanese. La prima guerra civile del Sudan era iniziata nel 1955, un anno prima dell’indipendenza dall’Impero britannico. Le lotte postcoloniali avevano seguito i lineamenti del dominio coloniale, con un’élite politica ripariale 1 a Khartoum e nelle sue città satellite, dominata da poche famiglie, in lotta contro le “periferie” multietniche del Paese – sfruttate per il lavoro e le risorse. Ad una guerra civile (1955-1972) ne seguì presto un’altra (1983-2005). Negli anni ’80, una crisi del debito aveva quasi mandato in bancarotta il Sudan e Khartoum aveva faticato a pagare il suo esercito, mentre il conflitto continuava nella “periferia” del Paese, soprattutto nel sud.

Da queste basi poco promettenti, Omar al-Bashir, allora feldmaresciallo dell’esercito che prese il potere con un colpo di Stato nel 1989, aveva forgiato una forma di governo duratura. Invece di fornire servizi alle “periferie”, aveva usato le milizie per condurre una controinsurrezione a basso costo, mettendo i numerosi gruppi etnici del Sudan gli uni contro gli altri. Aveva privatizzato lo Stato, suddividendolo in feudi governati dai suoi servizi di sicurezza – moltiplicati e frammentati per rendere il suo regime a prova di colpo di Stato. L’esercito sudanese si era trovato presto a competere con il National Intelligence and Security Service (NISS) e, successivamente, si era confrontato con le RSF di Hemedti, per citare solo alcuni degli organi di sicurezza. Ciascuna di queste forze aveva costruito il proprio impero economico. I militari sudanesi gestivano imprese di costruzione, servizi minerari e banche, mentre le RSF avevano preso il controllo dell’estrazione dell’oro e dei lucrosi servizi mercenari.

Bashir aveva stretto un patto faustiano con le città del Sudan: far accettare il terrore alla “periferia” del Paese in cambio di prodotti di base a basso costo e sussidi per il carburante e il grano, la cui importazione richiedeva valuta estera ottenuta dalla vendita delle risorse prodotte nelle “periferie”. Il petrolio aveva iniziato a fluire nel 1999, in gran parte dal Sudan meridionale. I proventi della vendita sovvenzionavano i consumi urbani e ingrassavano gli ingranaggi di una macchina transazionale al cui centro c’era Bashir, che fungeva da faccendiere per un’ingombrante coalizione politica e di servizi di sicurezza. Se la “periferia” fosse stata in grado di controllare le proprie risorse, questa macchina si sarebbe fermata inevitabilmente. Pertanto, i loro interessi erano strutturalmente opposti a quelli del “centro” – un rapporto di classe articolato come antagonismo geografico.

Nel 2003, mentre la guerra nel Sudan meridionale volgeva al termine, era scoppiata una nuova guerra nel Darfur. Bashir decise di ripetere il trucco usato nel sud – dove le milizie avevano combattuto contro una forza ribelle meridionale – e di armare le comunità arabe del Darfur per combattere i ribelli non arabi. Soprannominate “Janjaweed” (i cavalieri del male), queste milizie si erano rapidamente trasformate in una forza di decine di migliaia di persone che avevano condotto una guerra feroce contro i ribelli e i civili del Darfur. Questa era la guerra in cui “nacque” Hemedti: commerciante di cammelli della piccola tribù Mahariya (etnia araba Rizeigat), che vivono sia in Ciad che in Darfur, era diventato un signore della guerra, mettendo insieme e rapidamente una forza di 400 uomini. Nel 2007 era diventato per breve tempo un ribelle, ma solo per far leva sulla violenza ed ottenere una posizione migliore nel governo. Cinque anni dopo, quando il controllo di Bashir sui Janjaweed vacillava, Hemedti si era presentato come l’uomo in grado di combattere le ribellioni del Sudan, capeggiando le neonate RSF – che avevano assorbito gran parte dei Janjaweed.

Hemedti si era avvicinato a Bashir e divenne rapidamente il suo scagnozzo prediletto. Si dice che Bashir si fosse affezionato così tanto a Hemedti da chiamarlo affettuosamente “Himyati” (il mio protettore). Tuttavia, mentre Hemedti infliggeva una serie di sconfitte ai movimenti ribelli del Darfur, il regime di Bashir era in difficoltà. Nel 2005, sotto la pressione internazionale, il governo sudanese aveva firmato un accordo di pace con i ribelli del sud, con la promessa di un referendum sull’indipendenza. Nel 2011, il Sudan meridionale aveva votato per la secessione, privando Khartoum del 75% delle sue entrate petrolifere. Senza liquidità in dollari, la macchina transnazionale di Bashir aveva iniziato a bloccarsi.

Il regime aveva cercato di diversificare la propria base economica vendendo terreni agli Stati del Golfo e dedicandosi all’estrazione dell’oro. Hemedti aveva aperto la strada, usando la sua posizione di capo delle RSF per costruire un impero economico, fondando una holding chiamata “al-Jineid” e rilevando la miniera d’oro più redditizia del Sudan. Come tutti i grandi imprenditori della violenza, Hemedti aveva ampliato ben presto i suoi interessi: al soldo degli Emirati, egli inviò i miliziani delle RSF come mercenari per combattere contro gli Houthi nello Yemen. Era stato anche coinvolto nell’organizzazione del passaggio dei migranti nel Sahel: prima fermando i migranti che attraversavano il Paese (un’impresa un tempo finanziata dall’UE), poi costringendo gli stessi migranti a comprare la loro libertà. Nel 2018, Hemedti gestiva un impero commerciale che comprendeva immobili e produzione di acciaio e aveva costruito una rete clientelare che rivaleggiava con quella di Bashir. Pochi nel “centro” erano contenti. Sia per l’élite politica ripariale che per l’esercito sudanese, Hemedti era un usurpatore analfabeta, proveniente dalla “periferia”. Sebbene fosse arabo, non proveniva dalla ristretta cerchia di famiglie che avevano governato a lungo il Sudan e il suo impero economico era una minaccia diretta al dominio militare sudanese.

Nonostante gli sforzi di Bashir per trovare fonti alternative di valuta estera, nel 2018 l’economia era in picchiata. Disperato, il dittatore aveva tagliato i sussidi per il grano e il carburante, rompendo il patto con le città del Sudan. Le proteste sono iniziate nelle “periferie” e si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese. La Sudan Professionals Association (SPA), un gruppo-ombrello di sindacati dei colletti bianchi, ha aperto la strada e ha iniziato a chiedere le sue dimissioni. A Gennaio, si è unita ad una coalizione di partiti politici di opposizione, formando un gruppo chiamato “Forces of Freedom and Change” (FFC).

Le proteste a Khartoum sono state organizzate da una serie di comitati di resistenza e hanno assunto un’atmosfera carnevalesca, offrendo mutuo aiuto e assistenza sanitaria gratuita come esplicito rimprovero verso la violenza e la repressione del regime. Con l’intensificarsi della rivolta, i sostenitori di Bashir nel Golfo temporeggiavano e i militari si sono trovati sempre più a disagio. Una cosa era uccidere le persone nelle “periferie”, un’altra era falciare i giovani urbani di Khartoum, molti dei quali provenivano dalle famiglie dei soldati stessi. Il 10 Aprile 2019, Bashir avrebbe dato l’ordine di aprire il fuoco sul sit-in. Hemedti sostiene di aver rifiutato l’ordine e il giorno dopo Bashir era sparito.

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I servizi di sicurezza speravano che deponendo Bashir avrebbero potuto conservare il controllo dei loro imperi economici. Per un momento, i soldati sono stati degli eroi ed Hemedti ha persino trovato un certo sostegno popolare a Khartoum, una città che lo ha sempre considerato un estraneo. Ma è stato solo un momento. I manifestanti volevano un governo civile, non un nuovo dittatore militare, e invece di disperdersi hanno inscenato un sit-in davanti al quartier generale militare di Khartoum. I servizi di sicurezza hanno giocato d’anticipo, sperando di riuscire a logorare i manifestanti, ma con il passare dei mesi i militari si sono allarmati e le SAF e le RSF hanno trovato una causa comune nel reprimere i disordini civili.

La mattina presto del 3 Giugno 2019, i servizi di sicurezza, comprese le RSF, hanno tentato di sciogliere il sit-in. Alla fine della giornata, circa 200 manifestanti erano morti e circa 900 erano feriti.

Tuttavia le proteste sono continuate. Il 30 Giugno, nel trentesimo anniversario della salita al potere di Bashir, un milione di persone ha marciato contro la giunta. Eppure la leadership politica dell’opposizione era divisa su come procedere. Molti comitati di resistenza ritenevano che il massacro del 3 Giugno avesse distrutto la credibilità dell’esercito e che fosse giunto il momento di preparare uno sciopero generale per estrometterlo dal potere. Ma la FFC aveva avviato dei negoziati con l’esercito – messo sotto pressione dagli Stati Uniti e Gran Bretagna attraverso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti -, per la formazione di un governo di transizione civile. Il 1° Luglio, l’ASP ha annunciato due settimane di proteste che sfoceranno in uno sciopero generale. Pochi giorni dopo, la FFC ha annunciato un accordo verbale con i militari e l’ASP ha cambiato rotta.

Gli accordi firmati nell’Agosto 2019 hanno portato la FFC ad un governo di transizione con i militari, ma hanno rinviato le questioni più sostanziali del Sudan, che sarebbero state risolte in un futuro lontano. Le elezioni si sarebbero tenute nel 2022 e fino ad allora il Paese sarebbe stato governato da un consiglio sovrano composto da ufficiali militari e politici civili, con Burhan a capo e Hemedti come suo vice, e che avrebbe supervisionato un gabinetto tecnocratico guidato dall’ex economista delle Nazioni Unite Abdalla Hamdok.

In ritardo, l’Occidente si è interessato alla lotta per l’indipendenza del Sudan. La posta in gioco era il riallineamento regionale – il Sudan doveva normalizzare le relazioni con Israele – e la riforma dell’economia nazionale. Ascoltare i diplomatici e i funzionari della Banca Mondiale che avevano invaso i caffè climatizzati di Khartoum dopo la rivoluzione, significava ritornare alla fine della Storia. Per loro, un’utopia democratica sarebbe sorta attraverso l’austerità e l’eliminazione dei sussidi. Il gabinetto di Hamdok si è convertito presto a questa dottrina, anche se ciò significava calpestare gli obiettivi socio-economici della rivoluzione che aveva rovesciato Bashir. Appena insediato, il primo ministro delle Finanze, Ibrahim Elbadawi – un ex allievo della Banca Mondiale – annunciava che l’obiettivo della rivoluzione era quello di liberare il Paese dalla crisi del debito tagliando i sussidi.

Molte delle azioni della FFC sembravano destinate ad attrarre un pubblico internazionale; l’organizzazione era ostacolata nella sua agenda interna da un establishment militare che, lungi dallo smantellare il motore economico del vecchio regime, era intenzionato a raccoglierne gli scarti. Le finanze militari non erano di competenza della parte civile del governo e la riforma del settore della sicurezza non era mai stata avviata. Hemedti continuava ad accrescere il suo potere militare ed economico: le RSF reclutavano in tutto il Paese, Darfur compreso, portando alcuni suoi sostenitori ad affermare che erano i paramilitari, e non le SAF, a costituire le vere forze armate del Sudan.

Hemedti ha assunto anche un ruolo guida nell’affrontare le “periferie”. L’accordo dell’Agosto 2019 aveva messo da parte il “Sudan Revolutionary Front”, un raggruppamento di ribelli armati provenienti dalla “periferia” del Paese. Ancora una volta, il potere è stato accaparrato dal “centro”. Per questo motivo, alcuni comandanti ribelli vedevano la FFC solo come l’ultima iterazione del dominio ripariale e speravano che Hemedti, pur avendo inflitto loro gravi sconfitte nel decennio precedente, potesse essere qualcuno con cui fare affari. Sebbene sia stato il governo civile ad assumere formalmente la guida dei successivi negoziati con i ribelli, Hemedti ha esercitato un controllo informale sul processo. Nell’Ottobre 2020, è stato firmato un accordo tra il governo di transizione e i ribelli che garantiva loro dei seggi nel governo e prometteva una maggiore devoluzione politica. Alla fine, quasi nessuna delle misure più ambiziose dell’accordo era stata attuata. Invece, l’integrazione dei ribelli nel governo di Khartoum ha permesso a Hemedti di usare il manuale di Bashir – frammentare le forze di opposizione e metterle l’una contro l’altra – contro i suoi rivali. Dall’Ottobre 2020 in poi, Hemedti ha usato i ribelli per dividere il “centro”.

A questo punto, la frustrazione dell’opinione pubblica nei confronti del governo di Hamdok stava crescendo, con alcuni manifestanti che chiedevano le sue dimissioni e l’esercito che aumentava la pressione. I ribelli, ormai incorporati nel governo, hanno organizzato delle “proteste Potemkin”2 davanti al quartier generale dell’esercito, imitando quelle che avevano portato alla caduta di Bashir. Sostenevano che il governo di Hamdok avesse perso la bussola: era interessato solo al “centro”, non alla giustizia per il Darfur o a cambiare le disuguaglianze geografiche che da tempo affliggevano il Paese. Questa retorica era molto veritiera, ma sotto di essa si nascondeva una motivazione politica diversa: destabilizzare il Paese e gettare le basi per un colpo di Stato.

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Il colpo di Stato, previsto da tempo, è stato uno shock solo per gli apparati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, i quali non avrebbero mai immaginato che i militari potessero rinunciare agli investimenti internazionali – e che si sarebbero esauriti in caso di una loro presa di potere. Burhan e Hemedti, a cui erano stati promessi i fondi dai paesi del Golfo, non hanno avuto esitazioni di questo tipo. Il 25 Ottobre 2021, Burhan ha ringraziato Hamdok per il suo servizio e ha dichiarato lo stato di emergenza. I commentatori internazionali hanno deplorato questo susseguirsi di colpi di Stato avvenuti in Sudan, Myanmar, Mali e Guinea. Ma in realtà, il colpo di Stato del Sudan non avrebbe mai dato vita ad una dittatura militare di stampo egiziano. A differenza del regime di Bashir, che ha governato con l’assistenza degli islamisti sudanesi, almeno per il primo decennio, la giunta di Burhan non aveva un’ideologia, tanto meno una vera base sociale. La loro presa di potere è stata di fatto una mossa negoziata e progettata per spingere Hamdok a tornare al governo con un gabinetto indebolito, preservando la base del potere militare.

Hamdok era tornato regolarmente in carica un mese dopo il colpo di Stato, per poi dimettersi sei settimane dopo a causa delle continue proteste di piazza. Nell’Ottobre 2022, era chiaro che il regime militare si stava sfaldando. Il Golfo non aveva mantenuto le promesse finanziarie fatte alla giunta, l’inflazione e la fame stavano aumentando vertiginosamente e le manifestazioni pubbliche non accennavano a diminuire. Il colpo di Stato ha dimostrato che l’antagonismo di base della rivoluzione sudanese era rimasto intatto. Da una parte c’era il Consiglio di sicurezza di Bashir (trasformato solo nominalmente in assenza dello stesso Bashir). Dall’altra, con la FFC messa da parte, c’erano i cittadini urbani del Sudan, fedeli al governo civile e rappresentati dai vari comitati di resistenza.

Per gli americani e i britannici, i militari non stavano andando da nessuna parte; la realtà dei fatti richiedeva un nuovo governo di transizione civile-militare. Nei circoli diplomatici, Burhan non era considerato un islamista e quindi era una persona che l’Occidente poteva tollerare. Da parte sua, la giunta ha ritenuto che il modo migliore per preservare il colpo di Stato fosse quello di porvi fine e formare un nuovo governo di transizione – dove i militari avrebbero potuto successivamente attribuire la responsabilità dei crescenti problemi economici del Sudan. Questo è stato il contesto dell’Accordo quadro, firmato il 5 Dicembre 2022, che ha riunito alcuni partiti politici sudanesi e della FFC in un nuovo governo con i militari. I funzionari delle Nazioni Unite e i diplomatici occidentali si sono dichiarati soddisfatti, mentre in tutto il Sudan l’accordo è stato accolto dalle proteste.

Ancora una volta, l’accordo non affrontava le questioni più urgenti del Paese. Le dinamiche del settore della sicurezza, la posizione delle RSF e il ruolo dei militari nel governo sono stati lasciati alla “Phase II”, a cui era stato dato il termine assurdamente breve di un mese. L’accordo ha messo in primo piano Hemedti, che si è preoccupato di criticare il colpo di Stato e ha cercato di posizionarsi il più vicino possibile con i civili della FFC. Ciò ha preoccupato l’Egitto, che temeva l’emarginazione delle SAF e ha quindi creato un quadro di negoziati separati al Cairo, includendo alcuni dei gruppi ribelli che si erano uniti al governo prima del colpo di Stato.

Con la firma dell’Accordo quadro, l’opposizione civile-militare che aveva precedentemente dominato la politica sudanese si è notevolmente complicato. Burhan e Hemedti hanno iniziato a cercare il sostegno sia dei civili che dei ribelli, cercando anche dei sostenitori regionali. Ciò significava che la riforma delle forze di sicurezza era quasi impossibile da prevedere, poiché i due principali attori militari del Paese erano sempre più ai ferri corti: l’Egitto si era allineato con Burhan, mentre Hemedti era in affari con il Gruppo Wagner della Russia.

A Marzo erano stati avviati provvisoriamente dei seminari sulle questioni più profonde del conflitto nel Paese, tra cui il posto delle RSF all’interno dell’esercito sudanese. Il capo della missione ONU in Sudan, Volker Perthes, ha annunciato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 20 Marzo, di essere “incoraggiato da quanto poche siano le differenze sostanziali tra i principali attori”. Tuttavia, il resto del Sudan non era convinto. I miei amici che vivono a Khartoum ritengono che un conflitto tra Burhan e Hemedti sia ormai inevitabile.

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E così è stato. Il barattolo, calciato a lungo sulla strada, ha sbattuto contro un muro. Burhan ha espulso i rappresentanti delle RSF da un incontro sulla riforma del settore della sicurezza, mentre le RSF hanno iniziato a consolidare le proprie forze intorno a Khartoum in preparazione dei futuri scontri. I programmi arbitrari dei diplomatici, che volevano un governo entro la fine del Ramadan, hanno senza dubbio intensificato queste divisioni. Ora, mentre i combattimenti entrano nel loro terzo giorno (17 Aprile, ndt), ci sono poche possibilità di un cessate il fuoco nell’immediato futuro. La retorica di entrambi gli uomini è bellicosa. Per Hemedti questa è, con ogni probabilità, la sua prima e unica possibilità di governare. Se verrà sconfitto e le RSF verranno sciolte nell’esercito, la sua base di sostegno verrà erosa e seguirà la dissoluzione del suo impero economico. Per Burhan, sostenuto dall’Egitto, rimangono più opzioni di negoziazione, ma non bisogna sottovalutare il profondo rancore provato dall’esercito nei confronti del darfuriano Hemedti. Nonostante la forza delle SAF – e il sostegno egiziano – è improbabile che sia una battaglia facile. Le RSF sono radicate nelle aree civili di Khartoum e alcuni dei combattimenti più letali si sono già verificati in Darfur, nel territorio di origine di Hemedti.

Qualunque sia l’esito del conflitto – ed è probabile che porterà ad una devastante perdita di vite umane – segnerà una nuova era per il Sudan. Le tre guerre civili precedenti sono state combattute nelle periferie e hanno preservato le relazioni di classe geograficamente associate a Bashir. Al contrario, questa guerra civile – se avverrà – si svolgerà a Khartoum e nelle sue città satellite. Hemedti, che è salito alla ribalta grazie alla politica transazionale di Bashir e alla sua strumentalizzazione delle milizie, ha ora una vita politica sua. Il suo status di outsider è una sfida all’elitarismo ripariale del Sudan, che si gioca nelle strade e nei cieli dei suoi spazi urbani.

Note del Gruppo Anarchico Galatea

1Ci si riferisce a “riva” o “sponda” e viene indicato come il contatto tra il terreno ed un corso d’acqua. Nel caso sudanese specifico ci si riferisce a quei gruppi di potere presenti nelle città che sorgono lungo il percorso del fiume Nilo

2Proteste atte a voler sovvertire l’ordine costituito

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La Duma di Stato ha adottato degli emendamenti per la notifica via elettronica delle convocazioni [militari]

Traduzione dall’originale “Госдума приняла поправки о вручении электронных повесток

Cosa cambierà con la legge sulla coscrizione militare e come può essere evitata.

L’11 Aprile la Duma di Stato ha adottato in seconda e terza lettura gli emendamenti sulla legge “Sul dovere militare e il servizio militare”. Durante la seduta parlamentare, alcuni deputati hanno dichiarato di non aver avuto il tempo di leggere il documento. DOXA racconta tutto quello che si sa sul progetto di legge in questo momento, con i commenti congiunti dell’avvocato Maxim Olenichev del “Dipartimento Uno” e del progetto “Chiamata alla coscienza” su cosa si può fare per evitare il servizio militare.

Cosa ha preceduto l’adozione degli emendamenti?
Il 21 Settembre 2022, Vladimir Putin ha annunciato l’inizio della “mobilitazione parziale”. Sebbene i funzionari avessero dichiarato che [la mobilitazione riguardava] le persone che avevano completato l’addestramento militare e avevano una specializzazione professionale militare, il decreto stesso non specificava chi esattamente sarebbe stato chiamato per la guerra. In pratica, le convocazioni sono state inviate a uomini e donne non idonei al servizio militare, a persone senza esperienza di servizio militare e a genitori con molti figli.

Il documento non specificava inoltre una data per la fine della mobilitazione, e Putin non aveva firmato un decreto separato sulla sua fine; la mobilitazione, quindi, sarebbe continuata [senza una fine prefissata].
A metà Marzo, due settimane prima dell’inizio della “chiamata di primavera”, gli uffici di registrazione e arruolamento delle forze armate russe avevano iniziato ad inviare le convocazioni.
Le autorità di alcune regioni avevano inviato delle mail per l’imminente addestramento militare.

Per legge [queste operazioni] possono essere effettuate solo con decreto presidenziale – di cui attualmente non si sa nulla. Secondo il parere dellu attivistu per i diritti umani, [il decreto in questione] può essere stato classificato o destinato ad uso interno governativo. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli uffici militari hanno iniziato ad inviare le convocazioni per la “riconciliazione dei dati”.

Maxim Olenichev, un avvocato che lavora con il “Primo Dipartimento”, ha suggerito, durante un intervento a “Dožd’”, che i comitati militari stanno controllando gli indirizzi di lavoro e di residenza per poter poi emettere ordini di mobilitazione e convocazioni il più velocemente possibile. “Questa è una preparazione alla mobilitazione, anche se viene negata dalle forze armate”, ha detto nell’intervento.

Quali sono le modifiche proposte alla legge?
-Gli uffici di reclutamento militare potranno inviare le convocazioni per via elettronica: si considereranno notificate dal momento in cui appariranno nell’account di posta personale;
-Inoltre gli uffici di reclutamento potranno anche inviare le convocazioni per posta raccomandata. La convocazione si considera notificata sette giorni dopo l’invio, anche se la persona non l’ha ricevuta di persona;
-Gli uffici di reclutamento avranno il diritto di inviare le convocazioni verso il luogo di residenza effettiva e non a quella registrata nei comuni;
-Le informazioni sui coscritti saranno prese dalle università, dai college, dalle commissioni elettorali, dal Fondo pensioni e previdenza sociale, dai tribunali e da altre agenzie statali.
-I cittadini della Federazione Russa potranno richiedere la notifica per il servizio militare attraverso il “Servizio Pubblico”.

Come saranno consegnati i mandati di comparizione?

In base ai nuovi emendamenti, gli uffici di registrazione e arruolamento militare potranno inviare le convocazioni via e-mail ai coscritti. In precedenza, in base alla legge “Sul dovere militare e sul servizio militare”, un ufficio di arruolamento militare poteva consegnare una convocazione a un coscritto solo di persona e dietro rilascio di una ricevuta. In una dichiarazione rilasciata a DOXA, Maxim Grebenyuk, partner del progetto “Difensore civico militare”, ha suggerito che gli emendamenti sulle convocazioni elettroniche potrebbero essere utilizzate sia in caso di arruolamento che di mobilitazione, mentre le altre innovazioni probabilmente riguarderanno solo i coscritti.

Il documento pubblicato sul sito web della Duma afferma che per l’invio delle convocazioni elettroniche verrà utilizzato il registro militare. Vi si potrà accedere attraverso un account personale autorizzato dal Ministero della Difesa, dal “Gosuslugi” (Servizio Pubblico, ndt) o dall’MFC (acronimo per Centro Multifunzionale, ndt). Ufficialmente il registro non esiste ancora, ma la sua creazione è prevista nel disegno di legge.

Il registro sarà integrato con dati provenienti da [istituzioni e] agenzie statali, tribunali, organizzazioni mediche e università. In questo modo, saranno raccolte tutte le informazioni disponibili sul coscritto: l’indirizzo del luogo di registrazione e la sua residenza effettiva, le informazioni sulla sua salute, il lavoro e/o gli studi che svolge.

Inoltre, le convocazioni saranno inviate per raccomandata. Le convocazioni inviate in questo modo si considereranno consegnate il giorno stesso della consegna. Se [il coscritto] si presenta dopo la data di scadenza al centro di reclutamento, dovrà recarsi all’ufficio di registrazione e arruolamento militare entro tre giorni lavorativi per ricevere una nuova convocazione.

Tuttavia, anche se un coscritto non ricevesse la convocazione di persona, per posta raccomandata o per via elettronica, [la consegna del documento] sarà notificata come “ricevuta” automaticamente anche dopo sette giorni che è apparsa nel registro delle convocazioni.

L’avvocato Maksim Olenichev sottolinea che se si accede al registro tramite l’MFC, l’ufficio di reclutamento militare riceverà una notifica in tal senso, ma ciò non equivale alla ricezione di una convocazione

Quali sono le restrizioni per la mancata comparizione?

Secondo il documento con le modifiche pubblicate, al coscritto sarà vietato lasciare il Paese dal momento della “consegna ufficiale” della convocazione. Inoltre, se un coscritto non si presenta all’ufficio di registrazione e arruolamento militare entro venti giorni dal ricevimento della convocazione, gli sarà proibito:
-Registrare una ditta individuale e avere un lavoro autonomo;
-Immatricolare e guidare un veicolo;
-Registrare beni immobili e iscriverli al catasto.
-Stipulare contratti di prestito e di credito.

Il divieto di lasciare la Federazione Russa rimarrà in vigore fino a quando la persona non si presenterà all’ufficio di arruolamento militare; oppure non si presenterà ma fornirà una prova valida per la mancata presentazione. Se si presenterà, il divieto sarà revocato entro 24 ore”, ha dichiarato Maxim Olenichev a DOXA.

La polizia avrà il potere di rintracciare e arrestare gli evasori. Le autorità e i datori di lavoro saranno obbligati a trasmettere al commissariato militare le informazioni relative dei futuri coscritti.

Secondo Maksim Olenichev, le misure restrittive nei confronti dei cittadini potranno essere introdotte piuttosto rapidamente in quanto il commissariato militare potrà adottare automaticamente [le scelte da seguire]: “Oggi i canali di comunicazione elettronica sono utilizzati in modo massiccio tra le agenzie governative: ad esempio, tra i tribunali e il servizio giudiziario, il Rosreestr e l’ispettorato fiscale. Pertanto, non dovrebbero esserci problemi nel trasmettere le decisioni sull’introduzione delle restrizioni.”

Cosa fare dopo l’approvazione della legge?


L’11 Aprile, la Duma ha adottato immediatamente gli emendamenti alla legge in seconda e terza lettura. La legge sarà presto sottoposta al Consiglio della Federazione e probabilmente a Vladimir Putin per la sua firma. Secondo Andrey Kartapolov, presidente della commissione “Difesa” della Duma ed uno degli autori degli emendamenti, le nuove norme non si applicheranno alla chiamata di primavera – che si terrà fino al 15 Luglio. Tuttavia, nel documento stesso è scritto che entrerà in vigore non appena verrà approvato.

Secondo la normativa, la pena per la mancata presentazione alla convocazione presso l’ufficio di registrazione e arruolamento militare rimane la stessa: una multa che oscilla tra i cinquecento e i tremila rubli. All’atto pratico, dall’inizio della mobilitazione gli uffici di registrazione e arruolamento militare sono stati così sovraccarichi che praticamente non ritengono responsabili le persone [che non si presentano].

L’avvocato Maxim Olenichev ritiene che, dopo l’adozione degli emendamenti legislativi, i coscritti avranno tre possibili opzioni per evitare il servizio militare:
-prendere tempo per lasciare il Paese;
-non lasciare la Russia e non presentarsi alla convocazione, specie se si hanno diritti limitati o privati;
-evitare possibili persecuzioni e interazioni con lo Stato rimanendo in Russia.

Se una persona scopre che le informazioni sulla convocazione sono presenti nel registro [militare], ha sette giorni di tempo per lasciare il paese. Se non lo fa [entro quel lasso di tempo], il divieto di uscire dal paese sarà applicato fino a quando non si presenterà all’ufficio di arruolamento militare. Ma quando ci si reca all’ufficio di registrazione e arruolamento militare, è possibile che si ricevi una nuova convocazione e che venga emesso un nuovo divieto di viaggio”, spiega Maxim Olenichev.

Inoltre, i coscritti possono ancora fare domanda per il servizio civile alternativo (ACS), ha dichiarato a DOXA il progetto “Chiamata alla coscienza”. La decisione di rifiutare il servizio militare per il servizio civile alternativo può essere impugnata e ciò sospende l’arruolamento. Per saperne di più sul servizio civile alternativo, consultare questo sito.

A chi rivolgersi per chiedere aiuto?
-Il numero verde del “Difensore civico militare” per modificare la legge sulle convocazioni;
-Agorà;
-Madri dei soldati di San Pietroburgo;
-Scuola di leva;
-Andare nella foresta;
-Chiamata alla coscienza;
-Il vero esercito;
-Movimento degli obiettori di coscienza

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