Sacco e Vanzetti

Copertina tratta da “L’Adunata dei Refrattari” del 13 Agosto 1927. In questo numero vengono pubblicati diversi articoli contro il governatore del Massachusetts, Fuller, e il giudice che condannò i due anarchici, Thayer. Dieci giorni dopo questa pubblicazione, i due anarchici vennero giustiziati.

 

Sacco e Vanzetti erano due anarchici attivi in molte lotte operaie: nel 1916, Nicola Sacco fu arrestato per aver partecipato ad una manifestazione in solidarietà con i lavoratori in sciopero nel Minnesota. Nello stesso anno partecipò a uno sciopero in una fabbrica di Plymouth, nel Massachusetts, dove conobbe Bartolomeo Vanzetti, uno dei principali organizzatori di quello sciopero.

Durante il primo conflitto mondiale, i due anarchici italiani si opposero attivamente alla guerra e scapparono in Messico per evitare la chiamata alle armi.

La grave povertà del dopoguerra fece sì che molti lavoratori fossero insoddisfatti dello status quo. Le autorità istituzionali, la borghesia e i mass media erano terrorizzati dal fatto che i lavoratori potessero seguire l’esempio della Rivoluzione russa e facevano di tutto per attaccare le teorie anarchiche e comuniste – bollandole come “antiamericane” e propaganda “rossa”.

Queste modalità esclusiviste politiche non erano di certo una novità negli Stati Uniti: l’Immigration Act del 1903 (chiamato anche “Anarchist exclusion Act) “era stata concepita principalmente per codificare la legge esistente [quella del 1891, ndt], anche se aumentò le classi di inammissibili, includendo gli epilettici, coloro che avevano avuto uno o più attacchi di pazzia a cinque anni dall’ingresso, i mendicanti, gli anarchici e gli importatori di donne che si prostituiscono.” (cit. Bill Ong Hing, “Defining America. Through Immigration Policy”, Temple University Press, Philadelphia, 2004, pag. 210)

Nel periodo in cui erano attivi Sacco e Vanzetti era stata aggiornata l’Immigration Act (1918) dove si “autorizzava l’esclusione e l’espulsione degli anarchici e di altre persone le cui attività erano “pregiudizievoli per l’interesse pubblico o avrebbero messo in pericolo il benessere o la sicurezza degli Stati Uniti”. (ibidem, pag. 210)

Questa ondata repressiva legalizzata portò, il 3 Maggio 1920, alla defenestrazione di Andrea Salsedo dal 14° piano del Dipartimento di Giustizia di New York.

In questo frangente, Sacco e Vanzetti, insieme ad altri compagni, convocarono immediatamente un incontro pubblico a Boston per protestare contro questo omicidio di Stato.

Mentre erano in giro a parlare con le persone, furono arrestati dalla polizia perché sospettati di “pericolose attività radicali”. Ben presto si ritrovarono accusati di una rapina avvenuta nell’aprile precedente, durante la quale erano state uccise due guardie di sicurezza.

Il processo si svolse nel giugno 1921 e durò sette settimane. L’accusa dello Stato contro i due anarchici era inesistente: dodici clienti di Vanzetti (che lavorava come venditore di pesce) testimoniarono che stava consegnando loro del pesce al momento del delitto; un funzionario del Consolato italiano a Boston testimoniò che Sacco si era visto con lui per un passaporto in quel periodo. Inoltre, un’altra persona confessò il crimine e disse che né Sacco né Vanzetti avevano nulla a che fare con esso.

Il giudice del caso, Webster Thayer, disse di Vanzetti:

Quest’uomo, anche se non ha commesso il crimine che gli è stato attribuito, è comunque moralmente colpevole, perché è un nemico delle nostre istituzioni esistenti”.

Un amico del presidente della giuria, un poliziotto in pensione, aveva affermato che secondo lui Sacco e Vanzetti potessero essere innocenti. Il presidente della giuria rispose “Che siano maledetti. Dovrebbero essere impiccati comunque”.

Dopo aver condannato a morte i due anarchici, il giudice si vantò con un amico: “Hai visto cosa ho fatto a quei bastardi anarchici l’altro giorno?

Non c’erano dubbi sul fatto che Sacco e Vanzetti fossero sotto processo per le loro convinzioni politiche.

I due trascorsero i successivi sei anni in prigione, mentre gli appelli per la revisione del loro processo e le richieste di grazia vennero respinti.

Il 23 agosto 1927, Sacco e Vanzetti furono giustiziati.

Lo Stato e la borghesia statunitense, dopo la morte di Salsedo, gli arresti e le deportazioni (come quella di Galleani) e le morti di Sacco e Vanzetti, aveva mandato un chiaro messaggio al movimento anarchico, socialista e operaio: se vi mettete contro di noi, verrete repressi e uccisi.

Lo Stato, quindi, ha mostrato quel che è realmente: il principale ed unico detentore della violenza, favorendo i privilegi di pochi e annichilendo tutto il resto.

Tentativi come il proclama d’assoluzione del 23 Agosto 1977 da parte dell’allora governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, o la strumentalizzazione che fossero stati uccisi perché italiani, palesa i tentativi di nascondere, revisionare e modellare a proprio piacimento queste due figure anarchiche ed un intero movimento di lotta contro lo sfruttamento capitalistico.

Per questo diciamo che la nostra Storia fatta di militanti, gruppi e lotte, non è di appannaggio di entità verticiste violente e privilegiate.

Se qualcosa ci ha trasmesso questa Storia è quella di andare avanti contro un modello dove l’ecosistema e l’individuo umano e non umano sono considerati merci.

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Ecuador: la sciopero nazionale dimostra che la resistenza al neoliberismo si rafforza

Disegno di Vilma Vargas

Tradotto da Federica

Articolo originale: Ecuador: el paro nacional demuestra que la resistencia al neoliberalismo se fortalece

La Confederazione delle nazionalità indigene dell’Ecuador (CONAIE) ha ottenuto dal governo ecuadoriano una piccola riduzione del prezzo del carburante e la promessa di fermare lo sviluppo di nuovi progetti estrattivi. Le manifestazioni sono scoppiate nella maggior parte delle province dell’Ecuador il 13 giugno e sono proseguite il 30 giugno, quando il governo ha firmato un accordo con la CONAIE.
La Conferenza Episcopale Ecuadoriana funge da mediatore tra il governo e la CONAIE. E manterrà questo incarico con un tavolo tecnico per monitorare l’attuazione dell’accordo con il governo.

Tuttavia, il presidente della Conaie, Leonidas Iza Salazar, ha affermato che una mancata    implementazione degli accordi  entro 90 giorni dalla firma porterebbe a una nuova mobilitazione nazionale a fine settembre.

Le manifestazioni dei leader dell’organizzazione indigena iniziano il 13 giugno 2022. Rapidamente, le organizzazioni civili e studentesche si sono unite al movimento indigeno, sostenendo le richieste di quest’ultimo. La CONAIE ha presentato al governo un elenco di 10 richieste, tra cui il blocco dei prezzi del diesel e della benzina, una moratoria del debito e la cancellazione del debito per i piccoli e medi produttori, prezzi equi per i prodotti legati alla mancata sottoscrizione di trattati di libero scambio, il diritto di sindacalizzarsi e il rispetto dei diritti di tutti i lavoratori, la fine dell’espansione della “frontiera mineraria” e dell’industria estrattiva e la preservazione dei boschi e dell’acqua, il rispetto dei 21 diritti collettivi dei popoli indigeni in Ecuador, e la fine della privatizzazione del “patrimonio ecuadoriano” come dighe idroelettriche, autostrade, banche e sistema sanitario.
Altre richieste includono: politiche sui prezzi che mettano fine alla speculazione sui prezzi del cibo e di altri beni di prima necessità, garantiscano a tutti gli ecuadoriani l’accesso all’istruzione superiore e un investimento nelle infrastrutture scolastiche (college e università) – oltre che il sistema educativo sia inclusivo e interculturale -, e l’approvvigionamento del sistema sanitario in termini di medicinali e personale ospedaliero. Hanno anche chiesto di porre fine alla violenza scatenata dalle bande di trafficanti di droga e dalla criminalità organizzata in Ecuador.

È importante sottolineare che la piattaforma di lotta proposta dalla CONAIE ha chiaramente un carattere nazionale, poiché racchiude le richieste sentite dell’intera popolazione ecuadoriana“, ha affermato Inti Cartuche V., ricercatore e attivista indigeno ecuadoriano Kichwa, in un saggio analitico sullo sciopero nazionale e pubblicato su Indymedia Argentina.

Queste rivolte hanno toccato una delle note dolenti del Paese, intendo il colonialismo e il razzismo delle classi dirigenti”.

La risposta iniziale del governo ecuadoriano è stata la repressione, con il dispiegamento della polizia antisommossa, gas lacrimogeni e forza fisica. Durante i 18 giorni di sciopero nazionale, almeno 6 persone sono morte e fino a 500 persone sono rimaste ferite, secondo BBC Mundo. All’inizio dello sciopero nazionale, la Polizia nazionale con il supporto militare ha fatto sparire il presidente della CONAIE, Leonidas Iza Salazar, il 14 giugno per quasi 15 ore. Un giudice ha dichiarato la sua detenzione legale e i pubblici ministeri del governo hanno avviato un procedimento penale contro di lui per il suo ruolo nell’organizzazione delle manifestazioni. In una denuncia pubblicata il 22 giugno, la Conaie ha sottolineato che l’arresto del suo presidente è stato “un chiaro esempio di criminalizzazione e un tentativo di reprimere l’esercizio del diritto universale alla protesta sociale incarnato nel leader del Movimento Indigeno”.

Nonostante la firma di un accordo con la CONAIE, il governo prosegue il processo legale contro Leonidas Iza Salazar. Tuttavia, il 4 luglio, il caso contro di lui è decaduto ed è stato liberato. Il governo deve decidere se vuole riprovarci e se la Corte Costituzionale decide di procedere [contro Iza Salazar].

Il governo ecuadoriano è guidato dal nuovo presidente Guillermo Lasso, che in precedenza era un banchiere. La sua coalizione di destra ha vinto le elezioni del 12 aprile 2021 con un piccolo margine.

Nonostante la sospensione dello sciopero nazionale, il governo ha avviato un’altra strategia per screditare la CONAIE e la sua dirigenza. In un’intervista televisiva all’argentina Infobae, il presidente dell’Ecuador ha accusato il movimento indigeno di essere sostenuto e finanziato dai trafficanti di droga, con l’appoggio dell’ex presidente Rafael Correa. Finora, nessuna prova concreta è stata apportata a sostegno di questa affermazione. Inoltre, il controllo della criminalità organizzata e del potere dei narcotrafficanti è stata una delle richieste chiave dello stesso sciopero nazionale.

Come vicepresidente della CONAIE, come donna, respingiamo categoricamente le affermazioni di Lasso Guillermo basate sulla sua totale ignoranza sui popoli, le nazionalità e la storia dell’Ecuador. Siamo predisposti al dialogo, ma non staremo mai in ginocchio“, ha detto Zenaida Yasacama, vicepresidente di Conaie, che ha risposto alle interviste e su Twitter.

La Conaie ha denunciato su Twitter: “Lo Stato ecuadoriano stigmatizza e criminalizza le guardie indigene, generando seri rischi per la loro integrità e quella di chi fornisce supporto tecnico”.

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Arriverà a toccare tutti, in particolare le donne

Articolo di Rita Dvorkina. Pubblicato su “Zhenskaya pravda”, n. 8, 8 Agosto 2022

Un’esplosione di armi nucleari in un’area popolata non risparmierebbe nessuno.
Ma, come nel caso dell’esposizione ad altre armi, le conseguenze possono essere diverse per uomini e donne. “Zhenskaya pravda” ha esaminato i danni specifici che l’uso delle armi nucleari può causare alle donne.

Fortunatamente, il mondo non è [più] stato testimone dell’utilizzo di armi nucleari dal 1945.
Tuttavia, gli effetti del bombardamento nucleare di due città giapponesi, più di 2.000 test di armi nucleari da allora, e diversi gravi incidenti alle centrali nucleari, hanno provocato un significativo rilascio di radiazioni nell’ambiente.
Uno studio sulla durata di vita dei sopravvissuti [e delle sopravvissute] agli attacchi nucleari del 1945 a Hiroshima e Nagasaki in Giappone, ha scoperto che le donne avevano quasi il doppio delle probabilità, rispetto agli uomini, di sviluppare e morire di cancro a causa dell’esposizione alle radiazioni.
Dal disastro di Chernobyl nel 1986, si è registrato un aumento dei casi di cancro alla tiroide tra i bambini e gli adolescenti, soprattutto nelle aree adiacenti alla centrale nucleare.

L’aumento dei casi di cancro alla tiroide in Bielorussia tra i bambini di età inferiore ai 10 anni al momento della diagnosi era significativamente più elevato tra le femmine che tra i maschi.
Se una donna incinta è esposta ad alte dosi di radiazioni, questo porta allo sviluppo di difetti e disabilità mentale del nascituro/della nascitura.
Anche ad un certo livello di radiazione c’è un alto rischio di aborto spontaneo e di bimbi/e nati/e morti/e.
Le donne che sono state esposte alle radiazioni si scontrano con una serie di particolari conseguenze psicologiche e sociali.

Tutti i giapponesi sopravvissuti ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki si sono scontrati con le pressioni sociali, sono stati considerati “infetti”, trattati con paura e sospetto.
Sebbene, però, il rifiuto è stato provato [sia] dagli uomini che dalle donne, spesso è successo che dell’infertilità e delle anomalie della prole siano state accusate proprio le donne, e non gli uomini.

A causa della credenza del “sangue contaminato” la maggior parte delle donne sopravvissute non poteva sposarsi ed era condannata a vivere in povertà.
Le donne che hanno sperimentato la ricaduta radioattiva durante i test nucleari nelle Isole Marshall, durante il processo di evacuazione hanno raccontato la vergogna vissuta quando sono state soggette ad ispezione: vennero spogliate nude, esaminate e lavate con un liquido speciale in presenza dei loro parenti maschi e personale maschile.

Scene di ispezioni umilianti sono state citate anche nei racconti dei sopravvissuti giapponesi agli attacchi nucleari di Hiroshima e Nagasaki.
Gli effetti psicologici dell’esposizione alle radiazioni possono anche essere più gravi per le donne.
Dopo l’incidente di Chernobyl, le donne nella maggior parte dei paesi europei hanno riportato più stress rispetto agli uomini.

Le madri con figli di età inferiore ai 18 anni nella città di Homel’ (seconda città più popolosa della Bielorussia, ndt), [che dista a] circa 110 km a nord di Chernobyl, hanno avuto la più alta diffusione di problemi di salute mentale.
Noi abbiamo elencato le conseguenze che le donne possono affrontare qualora sopravvivano “fortunosamente” ad un attacco nucleare.
Ma un’esplosione nucleare è ugualmente mortale per tutti, senza eccezioni. La guerra nucleare è una terribile catastrofe per l’umanità, e tutti gli sforzi dovrebbero essere diretti ad impedirla.

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Marcinelle del Belgio, Marcinelle di Sicilia

Sono passati 66 anni dal disastro di Marcinelle in cui morirono 262 persone; la maggior parte di questi morti erano di nazionalità italiana.

Ma come si arrivò ad una situazione simile?

Ricorrendo ad un vecchio trucco già sperimentato decenni addietro dalle classi dominanti italiane, si aprirono le frontiere in uscita per poter ridurre la pressione sociale all’interno del paese.

Così, grazie al “Protocollo italo-belga” del 23 Giugno 1946, migliaia di famiglie italiane emigrarono in Belgio in cerca della cosiddetta fortuna (fatta di un tetto sopra la testa e di cibo tre volte al giorno) che nell’Italia post-guerra mancava.

I lavoratori, iper-sfruttati e multati per qualsiasi assenza ingiustificata ed errore commesso in questi pozzi di carbone, fecero la fortuna dei padroni e dei politicanti belgi ed italiani.

L’ “imprevisto” di Marcinelle e la messa in discussione del sopracitato protocollo italo-belga non posero dei problemi strutturali al trattato di Parigi del 1951 che istituì la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio).
Questo documento venne lodato dalle classi dominanti europee come il primo tentativo continentale di unirsi a livello economico, puntando ad una cooperazione tra i vari Stati coinvolti (specie Germania, Belgio e Francia) nei mercati internazionali di carbone e acciaio.

Oltre allo scopo prettamente economico, l’avvio di questa cooperazione tra Stati doveva avere funzioni deterrenti circa eventuali nuove intenzioni bellicose della Germania. Per fare questo si pensò allora alla “messa in comune” dei bacini minerari, beninteso tutto a vantaggio dei borghesi dei vari paesi coinvolti.

Se a ciò aggiungiamo che l’Europa post-bellica era ridotta ad un cumulo di macerie, e che bisognava ricostruire tutto il prima possibile per poter rientrare rapidamente sui mercati internazionali, si capisce perché gli anni post bellici furono così turbolenti, tra incidenti sul lavoro, sommosse e manifestazioni e scioperi di massa.

Lo sfruttamento lavorativo (con relative tragedie mortali) in ambito minerario e siderurgico era, dunque, servito.

I pianti ipocriti su Marcinelle da parte delle istituzioni politiche italiane, così come quelle belghe, accompagnati dallo strombazzamento mass-mediatico dei tempi, furono capaci di distogliere abilmente il lucro e le violenze a cui erano sottoposti quotidianamente i lavoratori (non solo italiani) presenti in quel pozzo minerario -e anche in tanti altri sparsi per il Belgio e nel resto di quei paesi aderenti alla CECA.

Per ricordare quegli eventi, presentiamo in questo post ben due articoli pubblicati su Umanità Nova il 26 Agosto del 1956.

Il primo articolo, dal titolo “Marcinelle” apparve nella prima pagina del giornale, mentre il secondo, dal titolo “La Marcinelle di casa nostra. Ruberie sui minatori in Sicilia”, a pagina quattro.
In “Marcinelle”, ci si sofferma sulla morte violenta dei lavoratori e sull’ipocrisia delle figure di potere e del Capitale – veri responsabili di questo omicidio di massa.

Non era la prima volta che veniva pubblicato un simile attacco contro il Capitale minerario: un anno prima, Attilio Sassi, sindacalista anarchico interno alla CGIL e segretario della Federazione Italiana Minatori e Cavatori, scrisse un articolo dal titolo “Da Ribolla a Margnano”, pubblicato su Umanità Nova, n. 13 del 28 Marzo 1955:
“Non si è ancora calmato il dolore dei lavoratori d’Italia e particolarmente dei minatori per la sciagura di Ribolla che una nuova sventura è avvenuta ad aggravare le preoccupazioni di quei lavoratori che vivendo in zone ove non esistono altre industrie, per procurarsi un tozzo di pane sono costretti ad entrare nelle miniere. Stamane, martedì 22 corrente circa alle ore sei nella miniera di Morgnano vicino a Spoleto è avvenuto uno scoppio che ha provocato la morte di 22 minatori e altrettanti sono i feriti fino alle indagini odierne.
La Radio sempre disposta a divulgare le comunicazioni che gli provengono dalla classe padronale, ha comunicato che lo scoppio è stato provocato dal grisù. Nella miniera di Morgnano non esistono gas di qualsiasi specie, e tanto è vero che i minatori adoperano le lampade acetilene, non esiste neppure quantità di polverino o altro elemento che può contribuire allo scoppio.
Nel luogo – andando alla ricerca delle cause – si parla di un certo cavo scoperto che potrebbe aver sprigionato delle scintille. Accettando questa tesi si sarebbe verificato un incendio, ma perché si giungesse allo scoppio come è avvenuto occorreva che nei pressi dell’incendio vi fossero depositi di gelatine o di altre materie esplosive. La Società Terni ha voluto – con la comunicazione alle Radio – cercare di mettersi al riparo, dalle cause, questo lo vedranno i tecnici.
La Società che ha già chiusa la miniera del Bastardo di sua proprietà facendola occupare dalle forze della Repubblica, e che sta smantellando le sue industrie, e che aveva – nel periodo delle vacche grasse richiamato nella cittadino che porta lo stesso nome una popolazione di 100 mila abitanti, vuole ridurla ora ad un piccolo paese.
Tornando alla catastrofe ai morti e ai feriti ci pensano gli Istituti di infortunii, e la Società darà qualche cosa alle famiglie, per dimostrare la sua generosità, e cercherà di incaricare un suo rappresentante a porgere un saluto compiendo in codesto modo l’ultima delle ipocrisie innanzi alle salme delle vittime.”

Ne “La Marcinelle di casa nostra. Ruberie sui minatori in Sicilia”, firmato da Antonio Vella, fratello di Randolfo, viene descritta la violenza economica a cui erano stati sottoposti dei lavoratori dello zolfo della provincia agrigentina.
Da ex zolfataio che era, Vella riporta lo sciopero dei lavoratori che stava avvenendo nel suo paese natale (Grotte) dove il sindaco di allora, il comunista Salvatore Carlisi, e altri del suo partito natii dell’agrigentino ed eletti all’Assemblea Regionale Sicilia (come Francesco Renda e Giuseppe Palumbo), mossero accuse ben precise contro la gestione di una miniera di zolfo e i finanziamenti milionari (chiamati “rimborsi”) che il gestore, Giuseppe Vassallo, aveva richiesto ed ottenuto dalla regione Sicilia.
Lo stato di cose che vi era a Grotte, quindi, era comune a tutto il territorio siciliano: ciò lo si riscontrava all’interno della pubblicistica anarchica siciliana, in particolare nei vari articoli di Franco Leggio sulla gestione speculatoria e sfruttatrice nelle miniere di “asfalto” nel ragusano.

Oggi giorno questa situazione non è affatto mutata. Allo sfruttamento umano si accompagna una devastazione dei territori per l’estrazione dei materiali considerati preziosi per l’oreficeria e le industrie elettroniche, edili, energetiche, siderurgiche e belliche.

Soprattutto in tempi di crisi economica come quella che viviamo, abbiamo visto come le classi dominanti abbiano buttato via qualsiasi velleità pseudo-ecologista come quella espressa con la transizione verde. Ad oggi, per far fronte alle richieste di un sistema socio-economico sempre più energivoro, è ritornato in auge lo sfruttamento di materiali (carbone, uranio ecc) pericolosi per la salute umana e per l’ecosistema in cui viviamo in generale.

Articoli come questi ci ricordano che il problema non è dato solo dalle ipocrisie tipiche delle classi dominanti o dall’ottenimento per le persone sfruttate di un contentino economico: il problema è dato da un sistema volto al profitto e all’alienazione, che non tiene in conto i bisogni umani e la necessità di conservare l’ecosistema per il proseguimento della vita sul pianeta.

Fonti consultate
-Chapter 14 “Two treaties (1951)” del libro Jean Monnet, “Memoirs”, William Collins Sons & Co. Ltd, Glasgow, 1978
-Una breve descrizione biografica Antonio Vella è presente alla voce “Randolfo Vella” in Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, BFS, Pisa, 2003
-(a cura di) Sacchetti Giorgio, “Attilio Sassi detto Bestione. Autobiografia di un sindacalista libertario (1876-1957)”, Zero In Condotta, Milano, 2008
-Leggio Franco, “Le parole e i fatti. Cronache, polemiche, reportages. 1946-1959”, Sicilia Punto L, Ragusa, 2007
-XXV “Seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana” del 28 Ottobre 1955
-LI “Seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana” del 6 Febbraio 1956
-CXIII “Seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana” del 27 Settembre 1956

 

Marcinelle
da “Umanità Nova Settimanale Anarchico”, 26 Agosto 1956

Un settimanale zoppica di fronte al precipitarsi degli avvenimenti. Avevamo appena data un’occhiata alle prime copie del nostro numero 33 quando la stampa tutta dava i primi rintocchi funebri per il disastro minerario di Marcinelle.
La cronaca ha percorso una decina di giorni in gramaglia e tutte le lacrime hanno chiesto altre lacrime, e tutti i pianti altri pianti e tutte le disperazioni altre disperazioni. E tutte le messe altre messe.
Tra poco anche di questo non si parlerà più. Ministri, prelati della Chiesa, banchieri, società di affari hanno piegato le ginocchia alle bare, dove di bare si è potuto ordinare la sfilata, o alla bocca infernale della miniera che è la bara di quelli che non dovevano nemmeno restituire le loro ossa alla pietà dei parenti e dei figlie delle spose.
Hanno fatto tutti la loro bella parte sociale. Anche “lasagnone” s’è mosso da Cascais, il putrido Savoia che, quando il fascismo seppelliva gli operai nelle rovine delle Case del Popolo, strizzava gli occhi a quella santa di sua nonna e invocava l’aiuto di Dio per la salvezza delle camicie nere.
Vogliamo dire subito che per noi non c’è questione di speculazione nazionale a scopi di odio.
Persino per la sventura dell’ “Andrea Doria”, si è soffiato e si soffia sul fuoco dell’odio deviato. Per noi è ancora vero la voce spenta nell’afa dell’opportunismo marxista.
“I nemici e gli stranieri non sono lungi ma son qui”
Andate in giro per le contrade d’Italia, scendete nelle tane dei senza casa, nelle caverne dei senza baracca, nelle miniere della cara Patria – della carissima Sicilia, anche fatta autonoma! – e ne sentirete e ne vedrete delle belle!
E chi li ha presi a calci quei poveri diavoli perchè chiedessero alle miniere del Belgio la pietà che chiede il mendicante al crocevia o su la porta del Tempio di Cristo?
Chi li ha strappati dalle braccia delle loro donne?
Chi li ha presi pel collo, quando aspettavano il neonato; quando aspettavano che la mamma o la nonna guarita di un male che non trovava ospedale che lo curasse; chi li ha messi nella necessità di andare lontano lontano, non per visitar monumenti, non per arricchirsi la fantasia di visioni nuove della bellezza naturale o artistica; ma per scendere nelle viscere della terra per scavare immensi tesori per gli oziosi; per degli oziosi esosi al punto di divenir scellerati per l’abbandono in cui lasciavano le pericolose viscere della miniera?
Noi piangiamo gli operai italiani e quelli di ogni altra contrada che sono periti a Marcinelle. Piangiamo è un modo di dire, di cui vorremmo scolparci, perchè saremmo in troppi a rubacchiarci le lacrime. Noi soffriamo del castigo che ci infligge questo mondo di pecore matte, che van dietro a pastori ladri e bugiardi in tutti i campi; soffriamo di vedere la impotenza degli uomini utili contro gli uomini perniciosi del mondo parassitario. Ci fosse pure una tragedia che fosse l’ultima; l’ultima per i suoi effetti redentori, per i rimorsi che suscitasse per la coscienza che risvegliasse, per lo spirito di rivolta che accendesse. Ci fosse e fosse l’ultima e travolgesse per primi noi. Purchè fosse foriera di salute dello spirito, di redenzione sociale, di liberazione reale dell’uomo dal dominio dell’uomo.
Purtroppo non sono spenti i ceri della cerimonia funebre di questi, che incomincia a la tragedia degli altri.
Non c’è stato che a Londra alla famosa conferenza dove non si è pensato a mandare una corona di fiori a Marcinelle.
Ah, se un minatore avesse ricordato Rapisardi e avesse accoppato una delle sanguisughe pre-responsabili di tanto strazio, avrete visto Scepilof, Eden, i figli di Marx e i figli di Danton a stringersi in un pianto comune, magari accanto a Nasser il loro apparente nemico e apparente amico e apparente salvatore del popolo egiziano e musulmano e arabo. Ah Rapisardi, canta ancora tu la marsigliese del minatore contro il suo vampiro.

Tu il granitico monte
che al cielo erge la testa
io la mazza modesta
che ti fiacca la fronte,
tu la valanga
io l’abisso che t’ingoia
tu il despota ed il Dio
ed io d’entrambi il boia!
(estratto da “Duetto” in“Giustizia. Versi di Mario Rapisardi”, Niccolò Giannotta, Catania, 1883)

 

La Marcinelle di casa nostra. Ruberie sui minatori in Sicilia.
Sottotitolo: Dove si scassa la Cassa del Mezzogiorno – Un sindaco intervistato – Sia notato il nome del signorotto Giuseppe Vassallo

Articolo scritto da Antonio Vella, Rubrica “Notiziario di “Umanità Nova”, “Umanità Nova Settimanale Anarchico”, 26 Agosto 1956

In un articolo pubblicato tempo fa su queste stesse colonne, nel descrivere la misera di Palermo, abbiamo domandato dove andavano a finire gli aiuti della Cassa del Mezzogiorno ed un signore ci ha risposto che finivano – quasi sempre – “nelle tasche di impresari senza scrupoli”.
La conferma di questa risposta ce la dà lo sciopero dichiarato il 6 corrente dai lavoratori di una miniera di zolfo a Grotte (Agrigento).
Gli scioperanti raccolti sotto la caserma dei carabinieri chiedevano semplicemente di essere pagati per intero del lavoro già fatto.
Incuriositi di questo strano sciopero, ci siamo recati dal Sindaco, signor Salvatore Carlisi, per avere degli schiarimenti.
Ci colpì innanzi tutto il fatto di trovare un giovane operaio disinvolto ed intelligente. Diciamo ci colpì, perchè credevamo trovare il solito signorotto furbo e senza scrupoli, come sono molti Sindaci nei paesi della Sicilia.
Per essere brevi, il Sindaco, signor Carlisi, ci accolse cordialmente e ci mise al corrente di questo sciopero in poche parole.
Prima d’ogni altro ci disse che gli scioperanti erano dei minatori della miniera di zolfo Quattrofinaiti, distante 5 chilometri circa dal paese. E la miniera gestita dal concessionario Giuseppe Vassallo, il quale arbitrariamente, da oltre un anno, non paga con regolarità i salari agli operai, dà soltanto degli acconti. Per cui lo sciopero è stato dichiarato affinchè il concessionario, Vassallo, paghi tutti gli arretrati.
Nei soli mesi di Agosto e Settembre dell’anno scorso, gli scioperanti ricevettero in media un acconto di circa 650 lire al giorno, mentre avrebbero dovuto essere pagati a prezzo di tabella e cioè 1400 lire. Dal Settembre del ’55 fino ad oggi, tutti gli operai della suddetta miniera hanno ricevuto dei miseri acconti, senza regolari buste paghe, come stabilisce la legislazione del lavoro. Oltre questo arbitrio, il signor Vassallo si è permesso di non pagare nemmeno gli assegni familiari. Egli non può prendere la scusa che il prezzo dello zolfo è inferiore a quello di costo, perchè la Regione Siciliana gli ha elargito la somma di 43 milioni di lire per ricompensarlo di 100000 lire per tonnellata nel caso che avesse subito qualche piccola perdita. Questi 43 milioni (ch’è egli incassò in quest’ultimi tempi) non furono elargiti soltanto ad integrazione dello zolfo prodotto e da produrre, ma con l’imposizione di rispettare le tabelle salariali, come prevede l’articolo 15 della legge del 26 Marzo 1955. Il concessionario riconobbe – per un istante – le disposizioni di questa legge tanto che in una riunione (crediamo tra datori di lavoro e lavoratori) avvenuta a Palermo nel corrente anno, firmò un verbale con il quale s’impegnava tassativamente di regolare i pagamenti del mese di Agosto e Settembre ’55, in base alle tabelle salariali.
Egli, però, non solo non ha assolto l’impegno, ma tergiversa in modo di non volerlo assolvere. Ed intanto i poveri minatori si sono coperti di debiti ed ora non sanno cosa fare per vivere…
Questo ci ha detto – su per giù – il sindaco di Grotte, il quale prima di separarci ha voluto commentare:
“Se i 43 milioni fossero stati elargiti al Cantiere del Lavoro, avremmo fatto lavorare, per tre anni almeno, 100 operai con grande beneficio del paese che avrebbe avuto molte vie riparate.”
Ma la Regione Siciliana – a quel che abbiamo compreso – preferisce dare i milioni ai poco scrupolosi industriali…
Dopo questa battuta e di averci messo al corrente dei buoni propositi per rialzare le sorti del paese di Grotte, il Sindaco ci salutò affabilmente, lasciando nel nostro animo una profonda simpatia.
Non crediamo fare alcun commento, perchè tutto quello che ci disse il Sindaco, non solo lo riconosciamo giusto, ma crediamo sia sufficiente a dimostrare come l’arbitrio di un signorotto lascia nella miseria centinaia di famiglia. Solamente facciamo rilevare che l’agire del concessionario, Giuseppe Vassallo, non resta un episodio isolato, perchè non è raro in Sicilia che i datori di lavoro defraudano gli operai impunemente. Nella nostra isola, non sono pochi i proprietari di miniere di zolfo, compresa la Montecatini, ed i proprietari di altre industrie, incassano centinaia di milioni dalla Regione, con lo scopo preciso di migliorare il tenore di vita degli operai, mentre invece se ne servono per diventare più ricchi e più potenti. Senza che le autorità governative intervengano per far cessare questo arbitrio.
Si ricordino, però, questi signorotti, che una tale situazione non può durare eterna, non si gioca a lungo con la miseria, perchè l’arbitrio è sempre un’ingiustizia che suscita risentimento e reazione. Non è escluso, quindi, che da un momento o l’altro i colpiti non perdano la pazienza e facciano rinsavire – una volta e per sempre – i profittatori.

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Come è successo che nel XXI secolo le donne si ritrovano di nuovo a dover combattere per il diritto di abortire? – Terza Parte

Seconda Parte

Capitolo 3: L’Europa tra destra e sinistra

Il 19 luglio 1979 Simone Veil, il ministro francese della Salute responsabile dell’approvazione della leggendaria legge nazionale che depenalizzava l’aborto nel 1975 [16], è stata eletta primo Presidente donna del Parlamento europeo.

A quel tempo, la vittoria del diritto di disporre del proprio corpo sembrava innegabile. Ma quasi mezzo secolo dopo, nel 2022, il posto di Weil è stato preso da un’altra donna, la parlamentare di centrodestra maltese [17], Roberta Metsola, che si oppone all’aborto.

L’elezione di Metsola è un esempio dei processi in atto nell’Europa moderna. Mentre alcuni paesi (e istituzioni) stanno cercando di diventare più liberali e democratici per rispettare i valori europei, in altri c’è una svolta conservatrice, che invariabilmente colpisce il diritto delle donne ad abortire. Questo è quello che è successo in Polonia, per esempio.

-Polonia
A fine gennaio 2021 è entrata in vigore in Polonia la decisione della Corte Costituzionale di vietare gli aborti per malattia incurabile o grave patologia del feto.

Da allora, ufficialmente, l’aborto può essere praticato solo in caso di minaccia per la vita e la salute della donna incinta, nonché se la gravidanza è avvenuta a seguito di stupro o incesto. Un aborto richiede non solo il parere di un medico, ma anche il permesso di un pubblico ministero. I giudici della Corte costituzionale hanno scritto, nella motivazione pubblicata [riguardante] il divieto [all’aborto], che “ogni individuo ha diritto alla vita dal momento del concepimento” e hanno fatto riferimento all’articolo 38 della Costituzione polacca. [18]

Le proteste di massa contro l’inasprimento della legislazione sull’aborto sono iniziate nell’Ottobre 2020, quando è diventata nota la decisione della Corte costituzionale, e sono proseguite nel gennaio 2021, quando la legge è entrata in vigore. Ma i manifestanti non sono riusciti a influenzare la decisione di giudici e deputati.

Nel novembre 2021, dopo la notizia della morte per sepsi di una donna di 30 anni di nome Isabella, avvenuta alla 22a settimana di gravidanza, migliaia di donne sono scese nelle strade delle città polacche per protestare. I parenti della defunta erano sicuri che la morte fosse il risultato del ritardo di medici che non osavano abortire per paura di infrangere la legge.

Sostenitori e sostenitrici del diritto all’aborto con i ritratti di Isabella nel centro di Varsavia. 6 novembre 2021

Secondo la legge polacca vigente [19], i medici [che praticano] aborti illegali rischiano fino a otto anni di carcere. Pertanto, se una donna necessita di un intervento medico legato al corso della gravidanza, i medici attendono la morte del feto affinché l’operazione non sia più considerata un aborto. Ecco cosa è successo nel caso di Isabella: i medici hanno aspettato fino all’ultimo momento che il cuore del feto si fermasse, cosa che alla fine ha portato alla morte della donna stessa.

La legge polacca sull’aborto, con l’influenza particolarmente forte della Chiesa cattolica, è rimasta una delle più conservatrici in Europa negli ultimi 30 anni. I primi tentativi di liberalizzazione si ebbero dal 1929 al 1932 nell’ambito della riforma del codice penale. Quindi la proposta di legalizzare l’aborto per motivi socio-economici (tra questi, ad esempio, la povertà o le precarie condizioni di vita) era stata respinta e la nuova versione del codice del 1932 consentiva l’aborto solo nei casi in cui la gravidanza era avvenuta a seguito di violenza o minacce per la vita e la salute di una donna.

Questa legge era in vigore sia durante l’occupazione tedesca che dopo l’instaurazione del regime filo-sovietico nel paese. Nel 1955 l’aborto fu legalizzato in URSS e solo un anno dopo la legge fu adottata in altri paesi del blocco socialista, inclusa la Polonia. La legge sovietica consentiva l’aborto per motivi socioeconomici.

Nel 1959 la procedura era stata resa più accessibile in Polonia; infatti le donne avevano il diritto di abortire senza alcun obbligo da parte dello Stato. Allo stesso tempo, come in URSS, l’aborto era visto come una necessità per prevenire il rischio per la vita e la salute di una donna, e non come un suo diritto a disporre del proprio corpo.

Ma negli anni ’80 in Polonia era iniziato un processo inverso: sullo sfondo delle proteste contro tutto ciò che era sovietico nel paese; per la prima volta si era iniziato a parlare del fatto che la legge che regolava l’aborto dovesse essere inasprita.

I cambiamenti erano stati sollecitati da membri dell’opposizione anticomunista, che avevano avuto il sostegno della Chiesa cattolica romana e personalmente da papa Giovanni Paolo II, nato lui stesso in Polonia.

Nel 1993, il diritto all’aborto era stato nuovamente limitato legalmente: le “circostanze di vita difficili” erano state rimosse dai motivi per cui alle donne era consentito abortire.

Secondo Michelle Rivkin-Fish, professoressa di antropologia all’Università della Carolina del Nord che studia l’aborto nei paesi post-sovietici, la criminalizzazione dell’aborto nella Polonia post-socialista è stato il prezzo pagato dal partito anticomunista Solidarnosc che aveva formato il primo governo – ed era sostenuto dalla Chiesa cattolica.

Grazie agli sforzi delle femministe polacche, la nuova disposizione adottata nel 1993 era ancora più morbida di quella avanzata all’inizio degli anni ’90. Ma gli aborti per motivi sociali erano vietati. La discussione è continuata per diversi anni: hanno cercato di annullare la legge, ma dalla seconda metà degli anni ’90 le modifiche sono state sancite dalla decisione della Corte costituzionale e nel Paese è comparso un mercato per aborti clandestini costosi e pericolosi.

Da allora, i conservatori hanno ripetutamente cercato di limitare ulteriormente l’accesso all’aborto da parte delle donne. Nel 2016, una proposta per il divieto totale dell’aborto, approvata dai parlamentari in prima lettura, ha portato a proteste di massa – e il disegno di legge è stato bocciato.

In soli tre anni la situazione è cambiata. Dopo la vittoria alle elezioni parlamentari del 2015 del partito di destra Diritto e Giustizia (37,5% dei voti) – che ha posto fine al periodo di potere del partito liberale Piattaforma Civica -, la normativa sull’aborto è stata comunque inasprita. La disposizione per l’aborto qualora il feto risultasse avere una disabilità grave e irreversibile o una malattia pericolosa per la vita – presente nella legge sull’aborto del 1993 -, è stata eliminata.

[Fino al] 2019, [quindi], il 98% di tutti gli aborti eseguiti nel paese erano stati fatti seguendo quella disposizione [; cambiando la legge,] è entrato in vigore un divieto quasi totale.

Le leggi adottate in Polonia destano preoccupazione nell’Unione Europea. Anche prima dell’inasprimento delle leggi sull’aborto, nel 2017 la Commissione Europea ha concluso che l’indipendenza dei tribunali polacchi era minacciata. Secondo la Commissione, il partito al potere Legge e Giustizia, ha potere sulla Corte Costituzionale. Ciò significa che il giudice non può valutare oggettivamente la legittimità delle misure proposte dai legislatori.

Nell’Ottobre 2021 anche la Polonia ha abbandonato lo stato del diritto europeo, annunciando che il Paese non è obbligato a rispettare leggi che contraddicono la sua costituzione. L’Unione Europea ha risposto a questo tagliando i sussidi dal bilancio generale dell’UE.

Secondo Marta Lempart, co-fondatrice del movimento femminista polacco Strajk Kobiet (“Sciopero delle donne”), l’approvazione di una legge sull’aborto è “un esempio di ciò che accade quando le autorità minano lo stato di diritto e l’indipendenza della magistratura.” Secondo lei, il tribunale che ha deciso sugli aborti è “illegale” e “politicizzato”.

Nel novembre 2021, un anno dopo l’adozione di una legge che ha criminalizzato la maggior parte degli aborti in Polonia, i deputati hanno approvato una risoluzione che condanna la decisione della Corte Costituzionale polacca e invita il governo polacco a concedere a tutte le donne il diritto a un aborto sicuro, legale e gratuito .

Durante i primi 10 mesi dell’inasprimento della legge in Polonia, solo 300 donne polacche hanno potuto abortire negli ospedali del paese a causa della minaccia alla loro vita e alla loro salute. Allo stesso tempo, circa 120.000 cittadine polacche ogni anno si sottopongono a questa procedura all’estero.

In queste condizioni, le donne cercano aiuto da organizzazioni senza scopo di lucro, gruppi indipendenti e iniziative che le aiutano a ottenere cure mediche all’estero. Possono solo sperare che la pressione finanziaria dell’Unione Europea influenzi in futuro le decisioni del governo conservatore e aiuti a superare l’influenza della Chiesa cattolica.

-San Marino
Nel settembre 2021 San Marino, uno degli stati più piccoli d’Europa, completamente circondato dall’Italia, ha tenuto un referendum che ha sollevato la questione se l’aborto debba essere consentito. Al referendum hanno partecipato il 40% dei cittadini del Paese – su una popolazione di 33.000 persone. Il 77% degli elettori ha sostenuto la legalizzazione. Secondo i membri della comunità di attivisti dell’Unione delle Donne – che hanno raccolto le firme per organizzare il referendum -, la maggior parte dei giovani del Paese condivide una posizione pro-aborto, che potrebbe avere un impatto significativo sui risultati del referendum.

Una sostenitrice del diritto all’aborto incolla un poster dove si chiede di votare per il referendum sulla legalizzazione dell’aborto. 9 settembre 2021

Scheda elettorale per il referendum sammarinese sull’abolizione del divieto di abortire. 26 settembre 2021

La Repubblica di San Marino è stato uno degli ultimi Stati europei in cui l’aborto era completamente bandito. L’aborto era regolato da una legge del 1865, che puniva l’interruzione della gravidanza con la reclusione da tre a sei anni per i medici e da tre a sei mesi per le pazienti. In caso di gravidanza indesiderata, le donne erano costrette a recarsi in Italia – dove l’aborto era stato legalizzato dopo il referendum del 1978 -, pagando tra i 1500-2000 euro per la procedura [di interruzione di gravidanza].

Secondo i risultati del referendum, l’aborto a San Marino è stato completamente legalizzato fino a 12 settimane; [oltrepassato questo periodo, la procedura di interruzione si applica] in caso di minaccia per la salute e la vita della donna incinta, nonché in caso di violazioni nello sviluppo del feto che può causare danni fisici o psicologici alla madre.

La Repubblica di San Marino è uno Stato tradizionalmente conservatore e sotto la forte influenza della Chiesa cattolica: qui le donne hanno ottenuto il diritto di voto solo nel 1964 (18 anni dopo rispetto all’Italia), e il divorzio è stato ufficialmente consentito solo nel 1986. Da 20 anni nel Paese è al potere il Partito Democratico Cristiano di San Marino, principale oppositore della legalizzazione dell’aborto.

Tuttavia, le attiviste sammarinesi sono riuscite a spingere l’idea del diritto all’aborto fuori dal consueto dibattito politico e presentare la questione come comune a tutte le donne. Un esempio importante per le attiviste sammarinesi sono stati i precedenti dell’Irlanda cattolica, dove si è tenuto un referendum sull’aborto nel 2018 e si è concluso con la sua legalizzazione, e di Gibilterra, dove l’aborto è stato depenalizzato a seguito di un referendum nel giugno 2021.

Note

[16] Nota come “Legge del velo”, consentiva l’aborto in Francia. Le femministe si sono battute per questo diritto negli anni ‘70. Il Ministro della Salute francese, Simone Veil, è stata determinante nel far approvare la legge nonostante lo scetticismo iniziale della maggioranza degli uomini del Parlamento nazionale.
[17] Malta è l’unico Paese dell’UE in cui l’aborto non è mai stato legale. Nel 2004, lo Stato ha dovuto negoziare separatamente la possibilità di ottenere il diritto esclusivo di aderire all’UE mantenendo la clausola anti-aborto.
[18] Art. 38: “La Repubblica di Polonia assicura la protezione giuridica della vita di ogni essere umano.”
Fonte
“Costituzione della Repubblica di Polonia” (1997)
Link: https://www.sejm.gov.pl/prawo/konst/angielski/kon1.htm
[19] L’articolo 152 del Codice penale prevede una pena di tre anni di reclusione per i medici che praticano aborti illegali. Se il feto è in grado di vivere autonomamente al di fuori del corpo della gestante, la pena può arrivare fino a otto anni.

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Come è successo che nel XXI secolo le donne si ritrovano di nuovo a dover combattere per il diritto di abortire? – Seconda Parte

Prima Parte

Capitolo 2: L’aborto in America Latina

-Messico
Il 7 settembre 2021, la Corte suprema messicana ha dichiarato incostituzionale il divieto di aborto nello Stato di Coahuila, dove, secondo una legge del 2017, gli aborti illegali erano punibili fino a tre anni di carcere.
Una causa contro diverse disposizioni del codice penale dello Stato era stata avviata nel 2017 dall’allora procuratore generale messicano Raúl Cervantes con la motivazione che violavano l’autonomia e la libertà riproduttiva delle donne. Due giorni dopo, la Corte costituzionale ha anche invalidato la parte della costituzione statale di Sinaloa che proteggeva la vita [del nascituro] dal momento del concepimento.

Per la società messicana, questo è un grande risultato. Come negli Stati Uniti, le leggi sull’aborto in Messico sono regolamentate a livello statale. In quattro [Stati] era consentito l’aborto [11]; nei restanti 28, invece, era proibito. Le donne messicane hanno chiesto la liberalizzazione della legge sull’aborto del 1931 dall’inizio degli anni ‘70, quando la procedura è stata legalizzata con successo nei vicini Stati Uniti. Tuttavia, i cambiamenti sono stati raggiunti solo negli anni 2000, quando, per la prima volta, la posizione governativa del Partito Rivoluzionario Istituzionale [12] si è indebolita in parlamento.
Il punto di svolta nella lotta per l’aborto è stato il caso “Paulina Ramirez v. Messico”, ampiamente trattato dai media. Nel 1999, una ragazza di 13 anni della Bassa California è rimasta incinta a causa di uno stupro, ma i funzionari e i medici conservatori hanno cercato di dissuaderla dall’aborto, usando ostacoli burocratici. Nel 2000, gruppi femministi messicani hanno intentato una causa contro il Messico presso la Commissione interamericana per i diritti umani. [13]

[La Commissione] ha rilevato nel 2007 che il governo [messicano] avesse violato i suoi obblighi di garantire l’accesso delle donne ai servizi di salute riproduttiva.
Allo stesso tempo i sondaggi condotti nel paese come parte di uno studio nel 2000, hanno mostrato che il 69% dei messicani concordava sul fatto che l’aborto dovesse essere consentito in determinate circostanze.
A Città del Messico, questa cifra ha raggiunto l’80%. La protesta pubblica suscitata dal “caso Paulina” ha avviato il processo di liberalizzazione della legge.
Era guidato dalla prima donna sindaco di Città del Messico, Rosario Robles.

Clinica MexFam nella città messicana di Tlapa, nello stato di Guerrero. Lì, il 6 agosto 2007, la dottoressa Fanny Rodarte Hernández ha praticato un aborto alla dodicenne Isamar Franco, rimasta incinta in seguito a uno stupro da parte di un parente più anziano.

Sculture nel cimitero dei bambini non nati fondato dalla Chiesa cattolica a Città del Messico

Nel 2000, nella capitale del Paese, è stato consentito l’aborto in caso di malformazione fetale e rischio per la salute e la vita della donna incinta. Inoltre, la legge Robles, per la prima volta nella storia del diritto messicano, ha chiarito la procedura per autorizzare e praticare un aborto in caso di stupro. Ma è stato solo nel 2007 che l’assemblea legislativa della città ha legalizzato l’aborto fino a 12 settimane di gestazione [all’interno del] distretto federale di Città del Messico (46 voti a favore e 19 contrari), stabilendo un precedente per l’intero Paese.
Oggi, l’aborto è ancora un argomento polarizzante in Messico. Secondo un sondaggio del marzo 2021 pubblicato da “El Financiero”, il 53% dei messicani è contrario all’aborto, mentre il 45% è favorevole alla legalizzazione dell’aborto. Inoltre, le persone sotto i 30 anni per lo più sostengono l’idea di depenalizzare l’aborto, mentre la generazione sopra i 50 anni si oppone.

-Argentina
Il 30 dicembre 2020, le strade dell’Argentina erano piene di donne felici con bandiere e fasce verdi, a simboleggiare il sostegno all’aborto. I festeggiamenti nella Capitale sono proseguiti tutta la notte: dopo la vittoria alle elezioni presidenziali del candidato dell’opposizione di centrosinistra Alberto Fernandez, il Paese ha finalmente legalizzato l’aborto “su richiesta” fino alla 14a settimana di gravidanza. La camera bassa del parlamento del Paese ha approvato il disegno di legge a maggioranza di voti (131 voti favorevoli, 117 contrari, sei astenuti) e presto i senatori hanno votato per la legalizzazione (38 voti favorevoli, 29 contrari, un’astensione).

Manifestanti per le strade di Buenos Aires festeggiano la decisione parlamentare sulla legalizzazione dell’aborto fino alla 14a settimana di gravidanza. È la prima volta che una legge del genere viene sostenuta dal presidente del Paese. 30 dicembre 2020

L’Argentina è uno dei pochi paesi del continente che ha consentito l’aborto. [14]
Per molti anni, il Sud America è stata la regione con alcune delle leggi più severe sui diritti riproduttivi. In precedenza, l’Argentina aveva una legge del 1921 che consentiva l’aborto solo quando la salute della madre era in pericolo, così come in caso di stupro. [15]

Tuttavia, anche le donne incinte, ammissibili all’aborto legale, hanno continuato ad incontrare degli ostacoli.
I medici erano liberi di interpretare la legge come meglio credevano; era difficile trovare informazioni sull’aborto e le donne nascondevano storie di aborto perché l’argomento rimaneva tabù. Tutto ciò ha portato ad un aumento del numero di aborti clandestini. Nel solo 2016, dopo le complicazioni causate dagli aborti clandestini, sono state ricoverate in ospedale 39.025 donne, il 16% delle quali erano ragazze e ragazze dai 10 ai 19 anni.

Le richieste di influenzare la situazione e legalizzare l’aborto sono state avanzate da femministe e attiviste delle organizzazioni femminili dal 2005. All’epoca era al potere il partito peronista di centrosinistra di Alberto Fernandez. I peronisti hanno mantenuto il potere per quasi 14 anni, fino a quando il conservatore Mauricio Macri è diventato presidente dell’Argentina nel 2015.
Nel 2018, le attiviste sono riuscite ad ottenere una legge sull’aborto attraverso il Congresso. Il progetto ha ricevuto più della metà dei voti [favorevoli] (129 favorevoli e 125 contrari), ma è stato respinto dal Senato con un margine di sette voti (38 voti contrari, 31 favorevoli, due astenuti).

La questione ha diviso la società tra coloro che indossano il velo blu (anti-aborto) e coloro che indossano il velo verde (pro-aborto) per indicare la propria posizione, ed è diventata immediatamente uno dei temi principali della campagna presidenziale 2019. Mentre il conservatore Mauricio Macri ha preso posizione contro l’aborto, il [candidato di] centrosinistra Alberto Fernández ha lanciato una proposta per legalizzare l’aborto il primo giorno del dibattito presidenziale. Dopo la sua elezione a presidente, Fernandez ha presentato al parlamento un disegno di legge per legalizzare l’aborto, che è stato approvato nel Dicembre 2020.

Una preghiera di gruppo degli oppositori al diritto all’aborto nel centro di Buenos Aires. In questo giorno, il Parlamento del Paese ha approvato una legge sul diritto della donna ad abortire su richiesta fino alla 14a settimana di gravidanza.

Continua nella Terza Parte

Note

[11] Ovvero Oaxaca, Hidalgo, Veracruz e Città del Messico.
[12] Partito politico messicano i cui membri hanno occupato quasi tutti i posti chiave del Paese fino alla fine del XX secolo. Negli anni ’80, il PRI cambiò rotta verso una politica di centro-destra e riforme economiche neoliberali. Ciò portò ad una scissione da parte dell’ala sinistra e socialdemocratica, portando questa a fondare il Partito della Rivoluzione Democratica nel 1989.
[13] Organismo intergovernativo che monitora i diritti umani nelle Americhe. La Commissione è composta da sette esperti provenienti da diversi Paesi che hanno aderito alla Comunità degli Stati Americani (OSA).
[14] Gli altri paesi sono Colombia, Uruguay e Guyana.
[15] Restrizioni simili sono ancora in vigore in Brasile e Cile, mentre in El Salvador, Repubblica Dominicana, Honduras e Nicaragua l’aborto è completamente vietato.

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Come è successo che nel XXI secolo le donne si ritrovano di nuovo a dover combattere per il diritto di abortire? – Prima Parte

Nel post “L’aborto in Russia” avevamo tradotto il 4 Capitolo del saggio di Anna Sidorevich.
A distanza di più di un mese, abbiamo deciso, grazie all’aiuto e alla traduzione di Evgeny, di pubblicare per intero questo saggio, dividendolo in tre distinte parti.

Articolo originale

Come è successo che nel XXI secolo le donne si ritrovano di nuovo a dover combattere per il diritto di abortire? Come mai sta accadendo questo in tutto il mondo – e anche nell’Occidente? Ve lo raccontiamo nel modo più dettagliato possibile.

Il 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato il caso di “ Roe v.Wade” , [con cui veniva] riconosciuto l’aborto costituzionalmente. Adesso la procedura può diventare illegale nella maggior parte degli Stati. Milioni di donne [1] saranno costrette a spostarsi negli stati vicini oppure ad abortire illegalmente. Questo scenario è stato reso possibile per colpa dei giudici della corte Suprema – (sei su nove) – sono conservatori – [i] quali, tradizionalmente, sostengono l’abolizione del diritto all’aborto. Ma il diritto all’aborto per molti anni è stato uno strumento di lotta politica non solo negli Stati Uniti, ma anche in altri paesi. Sul modo in cui è successo, Meduza ha chiesto di raccontare ad Anna Sidorevich, ricercatrice nel campo del femminismo e di genere del Center for the History of the Paris Institute of Political Studies Sciences Po.

Contrariamente alla credenza popolare che l’aborto sia pericoloso per la vita e la salute delle donne, non è così. Ogni anno nel mondo vengono praticati circa 73 milioni di aborti. [2] Con il loro aiuto, sei gravidanze non pianificate su dieci vengono terminate. La procedura è così comune che l’OMS la classifica come un “intervento medico semplice (e quindi il più delle volte sicuro)” che può essere efficacemente eseguito da specialisti.

L’OMS considera l’aborto sicuro se supervisionato da personale qualificato che ha familiarità con i metodi raccomandati dall’organizzazione. Secondo le statistiche statunitensi dal 2013 al 2018, il tasso di mortalità per aborti sicuri effettuati secondo le raccomandazioni dell’OMS è stato di soli 0,4 casi ogni 100.000 aborti, ovvero su 200.000 donne che hanno abortito, solo una è morta (negli ultimi 50 anni la mortalità è stata ridotta). [2]

Allo stesso tempo, secondo l’OMS, più di sette milioni di donne finiscono in ospedale a causa di complicazioni dopo aborti “non sicuri”. Tali aborti, di solito, includono procedure eseguite in una data successiva, in condizioni di precarietà igienico-sanitaria o da persone prive di formazione medica specialistica. Tali pratiche sono molto più comuni [3] nei paesi in cui i diritti delle donne sull’aborto è fortemente limitato. Le restrizioni statali rendono l’aborto pericoloso per le donne: costi elevati, stigmatizzazione, ritardo della procedura. È soprattutto un divieto legale. Le femministe cercano da anni di spiegare questo problema alla società e ai politici e chiedono cambiamenti, ma le leggi sull’aborto che proibiscono o consentono l’aborto in diversi paesi, storicamente, non sono quasi mai state correlate alla salute delle donne. Per molti anni, il diritto all’aborto è stato uno strumento utilizzato per la lotta politica dai politici di destra e di sinistra in tutto il mondo.

Capitolo 1: Un argomento sensibile negli Stati Uniti

[A partire] dalla primavera del 2022 il tema sull’aborto negli Stati Uniti è diventato molto più discusso che mai. Si è scoperto che in un paese in cui il diritto all’aborto sembrava conquistato da tempo, milioni di donne avrebbero potuto perderlo in pochi mesi.

La crisi è iniziata nel settembre 2021 quando lo stato del Texas ha approvato una legge sul “battito cardiaco” che vieta gli aborti dopo la sesta settimana (senza eccezioni per i casi di violenza e incesto). In precedenza, il periodo dopo il quale l’aborto non era consentito era di 20 settimane.

Gli autori della legge, conservatori, ritengono che sia alla sesta settimana che il feto abbia un’attività cardiaca riconoscibile, il che significa che l’aborto dopo questo periodo [4] dovrebbe essere proibito.

In risposta all’adozione della legge del Texas, le marce delle donne si sono svolte in 660 città in diversi Stati. Sono state organizzate da un’alleanza di 200 organizzazioni per i diritti umani nel paese. La più grande manifestazione di protesta si è svolta nella capitale degli Stati Uniti, Washington: migliaia di donne hanno marciato attraverso la città fino all’edificio della Corte Suprema degli Stati Uniti con manifesti e slogan: “Prenditi cura del tuo utero” e “L’aborto è una scelta personale”.

 

Marcia a Washington contro la nuova legge del Texas che limita fortemente i diritti all’aborto. 2 ottobre 2021

“La questione del diritto all’aborto non ha mai riguardato solo l’aborto stesso”, ha scritto il New York Times nel settembre 2021. I giornalisti hanno raccontato come l’atteggiamento dei cittadini americani conservatori nei confronti dell’aborto sia cambiato nel corso degli anni. Se nel 1971 la risoluzione della Convenzione Battista del Sud [5] raccomandava l’aborto in caso di stupro, incesto, gravi disturbi dello sviluppo fetale o minaccia per la salute della madre; già la risoluzione adottata nel 2021 definisce l’aborto [come] “l’omicidio di un nascituro” e un “crimine contro l’umanità” che dovrebbe essere perseguito penalmente per legge, senza eccezioni.

Secondo lo storico Jefferson Cowie, oggi, tra gli aderenti al divieto di aborto negli Stati Uniti, c’è una minoranza di coloro che hanno a cuore le ragioni religiose. L’aborto è diventato parte della situazione di stallo politico, ha spiegato Cowie al New York Times. La presa di posizione sul divieto dell’aborto, insieme alla questione razziale e al parere sulla vaccinazione contro il covid, è diventata un chiaro segno di appartenenza ad una parte o all’altra. Tuttavia, questo non è stato sempre così.

Il primo movimento contro il diritto all’aborto negli Stati Uniti è apparso a metà del XIX secolo; prima la procedura era diffusa e non causava condanna. Formalmente, l’aborto è stato vietato, ma solo in un secondo momento, dopo che la donna ha iniziato a sentire il movimento del feto, nel quarto – sesto mese. Le donne si rivolgevano spesso a guaritori e ostetriche e [non] a medici professionisti. Poi, nella lotta [a favore] dei pazienti, i medici hanno chiesto una legislazione più severa. Secondo un’altra versione, gli Stati Uniti hanno semplicemente ripetuto le leggi della Gran Bretagna. Ciononostante, all’inizio del 20° secolo, l’aborto è stato completamente bandito ed è diventato un reato penale in tutti gli Stati.

Il divieto era in vigore fino agli anni ’60, quando le richieste di legalizzazione dell’aborto iniziarono a risuonare attivamente negli Stati Uniti, anche all’interno del movimento femminista emergente della seconda ondata [6].

Marcia delle femministe che chiedono il diritto universale all’aborto e pari condizioni di lavoro. Boston, 8 marzo 1970

Alla fine degli anni ’60, Norma McCorvey, residente in Texas, non fu in grado di ottenere il diritto all’aborto perché lo Stato consentiva l’aborto solo per incesto e stupro. La donna ha cercato di ingannare la Corte e ha detto che il bambino era stato concepito a causa di uno stupro, ma non è stato possibile dimostrarlo. Quindi McCorvey, con lo pseudonimo di Jane Roe, ha intentato una causa per violazione dei suoi diritti costituzionali presso la Corte federale distrettuale del Texas; il procuratore distrettuale Henry Wade è diventato l’imputato nel caso. La Corte ha deciso a favore della donna, ma non ha vietato la normativa vigente.

Quindi il caso “Roe v. Wade” è arrivato alla Corte Suprema degli Stati Uniti, che nel 1973 ha preso una decisione storica, confermando che il diritto alla privacy garantito dalla costituzione include il diritto di una donna ad abortire di sua spontanea volontà, il che significa che nessuna legge statale possa limitarlo. Il verdetto della Corte Suprema ha effettivamente legalizzato l’aborto in tutto il paese.

Allora il tema sull’aborto non era ancora così politicizzato. Nel 1984, il sostegno alla “pro-scelta” (pro-choice, cioè una scelta consapevole tra gravidanza e aborto) tra i sostenitori dei partiti repubblicano e democratico differiva solo del 6% – nel 2020 questa differenza era già del 48%. Il tema sull’aborto iniziò ad essere utilizzato attivamente dai politici conservatori statunitensi solo all’inizio degli anni ’80 per mobilitare gli elettori e attirare i più dubbiosi dalla loro parte. I repubblicani hanno cercato di uscire dalla cerchia degli elettori che non hanno sostenuto il movimento per i diritti civili [7], che ha combattuto contro la discriminazione razziale. Il tema sull’aborto era conveniente in quanto interessava anche quelle persone a cui non interessava la questione razziale.

I conservatori in vari Stati hanno ripetutamente cercato di vietare l’aborto o di rendere più difficile l’accesso alla procedura per le donne; ma la sentenza“Roe v. Wade” è venuta in soccorso per anni. Ad esempio, nel 2016, la Corte Suprema ha ritenuto incostituzionale un disegno di legge anti-aborto del Texas volto a limitare il funzionamento delle cliniche per l’aborto.

Norma McCorvy (1947-2017), la querelante nel famoso caso «Roe v. Wade», e il suo avvocato Gloria Allred sui gradini della Corte Suprema degli Stati Uniti, dove un altro importante caso di diritti di aborto è stato ascoltato. Washington, 26 aprile 1989

Ma la cosiddetta legge sul battito cardiaco, approvata nel settembre 2021, è stata progettata per aggirare l’ostacolo “Roe v. Wade”. Solitamente, nella pratica americana, per impugnare una legge è necessario intentare una causa contro l’autorità preposta alla sua attuazione.

Tuttavia, se le precedenti leggi anti-aborto dovevano essere applicate da funzionari governativi, per aggirare la costituzione in Texas, si era deciso che l’applicazione [di queste] non sarebbe stata responsabilità delle autorità ma dei cittadini interessati: secondo la legge statale, dal 2021 chiunque può avviare un processo contro chi “assiste” (aiutante e complice) nell’esecuzione di un aborto “illegale”. L’imputato che perde la causa dovrà pagare a ciascun richiedente almeno $ 10.000.

Un tentativo del governo federale di impugnare la legge all’inizio del 2022 è fallito. Altri Stati hanno iniziato a seguire il precedente. Così, il 3 maggio, il governatore del vicino Oklahoma, il repubblicano Kevin Stitt, ha firmato un disegno di legge redatto sul modello della legge del Texas.

Un tale cambiamento legislativo è stato possibile grazie a Donald Trump, che ha nominato tre giudici conservatori alla Corte Suprema – e i repubblicani erano la maggioranza della Corte, mentre i democratici, che si opponevano alla criminalizzazione dell’aborto, l’hanno perso. Mentre il presidente democratico Joe Biden si oppone alla legge del Texas, la capacità del governo federale di legiferare a livello statale è limitata e il tentativo di legiferare sul diritto all’aborto, come proposto dal Partito Democratico, è fallito. A seguito di una votazione di fine febbraio al Senato, il progetto è stato respinto. [8]

Inoltre, nel maggio 2022, anche la storica decisione “Roe v. Wade” è stata attaccata. Il 3 maggio 2022 i media hanno pubblicato un progetto di decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che propone di ribaltare il verdetto del 1973. Il 24 giugno la Corte Suprema ha ribaltato la decisione e ora gli Stati potranno regolamentare liberamente l’aborto a livello di legislazione locale. Secondo il “Gutmacher Institute for Reproductive Health”, 26 stati potrebbero vietare l ‘aborto, 13 dei quali nel prossimo futuro – e in sette il divieto dell’aborto è entrato in vigore subito dopo la decisione della Corte Suprema. [9] Se ciò accade, il numero di aborti legali diminuirà di almeno il 14% e molte donne che hanno perso l’accesso alle cliniche saranno costrette a interrompere la gravidanza clandestinamente.

In risposta alla pubblicazione della bozza di decisione a Maggio, migliaia di americani hanno manifestato contro le modifiche, sostenuti dai membri del Partito Democratico al governo.

L’aborto è già diventato uno dei punti più importanti per attirare i cittadini alle elezioni del Congresso, che si terranno a novembre 2022. I democratici stanno cercando di attirare gli elettori alle urne, trasformando il voto per i seggi al Congresso in un referendum su “Roe v. Wade”.

Sì, i Democratici non potranno far ritornare in vigore la decisione, ma se avranno la maggioranza, potranno fare una legge federale sull’aborto.

Questa strategia ha ricevuto supporto. Secondo i sondaggi, un americano su due (anche prima della decisione del 24 giugno) riteneva che la decisione del 1973 non dovesse essere completamente abrogata, e tra coloro che la pensavano così c’erano sia i democratici che gli indecisi (e anche alcuni repubblicani). Se almeno una parte della popolazione indecisa voterà per i Democratici, il partito potrà ottenere la maggioranza.

È vero che se i Democratici riusciranno a vincere e poi influenzare la legislazione anti-aborto (cioè approvare una legge che sancirà il diritto a livello federale), l’applicazione arriverà solo sei mesi dopo. Mentre centinaia di migliaia di donne saranno rimaste senza l’opportunità di abortire in questo momento.

Questo lascia perplessi i ranghi democratici e gli attivisti che aiutano le donne. Mallory Schwatz, direttrice esecutiva del “Pro-Choice Missouri” [10], afferma che il governo federale non sta facendo abbastanza. “Aspettare le elezioni per prendere provvedimenti è vile”, ha detto l’attivista in un’intervista a Politico.

Le restrizioni danneggiano principalmente i gruppi socialmente più vulnerabili: i poveri, i minori, le minoranze; coloro che non hanno i soldi per recarsi in un altro Stato in cui l’aborto è più conveniente o coloro che non hanno accesso alle informazioni sulla contraccezione e sull’aborto.

L’amministrazione Biden sta cercando di garantire che le donne abbiano accesso alle cure di cui hanno bisogno. Ad esempio, la “Federal Food and Drug Administration” ha legalizzato l’invio per posta di pillole abortive (mifepristone e misoprostolo), dando così alle donne l’accesso agli aborti domiciliari; ma questa è praticamente la fine delle misure di soccorso.

La forza principale che aiuta le donne sono le altre donne.
Le organizzazioni attivistiche aiutano a ottenere i documenti necessari o a raggiungere le cliniche negli Stati o paesi vicini.

Continua nella Seconda Parte

Note
[1] In questo brano, la parola “donna” è spesso usata per riferirsi a chi abortisce. Sebbene questo termine sia ancora utilizzato nella letteratura e negli articoli accademici, vorremmo sottolineare che non è inclusivo ed esclude coloro che non si associano a questo genere, ma che possono essere direttamente interessati dalla legge sull’aborto.
[2] Questo dato viene spesso calcolato in base al numero di decessi per 100.000 procedure. Secondo le statistiche statunitensi dal 2013 al 2018, i decessi dovuti ad aborti sicuri eseguiti secondo le linee guida dell’OMS sono stati solo 0,4 ogni 100.000 aborti, il che significa che solo una donna su 200.000 che ha abortito è morta (con una diminuzione dei decessi negli ultimi 50 anni).
Gli aborti non sicuri uccidono le donne a un tasso molto più alto. Secondo le stime dell’OMS, nei Paesi sviluppati la cifra raggiunge le 30 donne per 100.000 interventi, mentre nei Paesi in via di sviluppo è ancora più elevata: 220 per 100.000.
Fonti
– “TABLE 15. Number of deaths and case-fatality rates* for abortion-related deaths reported to CDC, by type of abortion — United States, 1973–2018†”
Link: https://www.cdc.gov/mmwr/volumes/70/ss/ss7009a1.htm#T15_down
– “Abortion”
Link: https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/abortion
[3] Secondo uno studio pubblicato nel 2017 sull’autorevole rivista medica The Lancet, nei Paesi in cui il diritto all’aborto non è limitato, il numero di aborti sicuri può raggiungere il 90%. Più rigida è la legislazione, più alti sono i rischi per le donne. Nei Paesi in cui l’aborto è praticamente vietato, il numero di aborti “non sicuri” e “meno sicuri” può raggiungere il 70%.
Fonte
“Global, regional, and subregional classification of abortions by safety, 2010–14: estimates from a Bayesian hierarchical model”
Link: https://www.thelancet.com/journals/lancet/article/PIIS0140-6736(17)31794-4/fulltext
[4] Il problema è che in questa fase molte donne non si rendono nemmeno conto di essere incinte. La donna incinta ha circa una settimana, nella migliore delle ipotesi, per prendere una decisione e trovare i soldi, la clinica giusta e un orario conveniente per vedere un medico. Più della metà degli aborti viene effettuata dopo la sesta settimana di gravidanza.
[5] Il più grande gruppo battista degli Stati Uniti, organizzato ad Augusta, in Georgia, nel 1845 da battisti del Sud in disaccordo con le opinioni e le attività antischiaviste dei battisti del Nord. Alla fine del XX secolo, la Convenzione aveva abbandonato il suo sostegno alla segregazione razziale ed era diventato uno dei gruppi protestanti più etnicamente diversi del Nord America.
[6] Denominazione convenzionale per una serie di ideologie femministe e per il movimento attivista per i diritti delle donne in Occidente negli anni Sessanta e Settanta. La prima ondata del femminismo è considerata il movimento delle donne per i diritti politici, soprattutto elettorali, tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo. Le femministe della seconda ondata hanno attinto a una concezione più ampia dei diritti, non limitata alla componente politica. In particolare, le femministe della seconda ondata si sono battute attivamente per il diritto all’aborto e per il diritto al controllo del proprio corpo.
[7] Movimento di massa contro la segregazione razziale e la discriminazione dei neri negli Stati del Sud, che ha raggiunto la ribalta nazionale a metà degli anni Cinquanta. Sebbene la schiavitù sia stata abolita negli Stati Uniti nel 1865 a seguito della Guerra Civile, nel Sud era in vigore un sistema di segregazione razziale (le “leggi Jim Crow”). Il movimento per i diritti civili degli anni ’50 e ’60 si è basato sulla protesta non violenta. Il risultato è stato l’approvazione delle leggi sui diritti civili nel 1964 e nel 1965, che hanno abolito la segregazione.
[8] I repubblicani hanno anche la maggioranza al Senato. Ora ci sono 50 repubblicani, 48 democratici e due senatori indipendenti. La legge sulla protezione della salute delle donne è stata respinta perché non ha ottenuto il minimo di 50 voti necessari per continuare lʼaudizione. Quarantasei senatori hanno votato contro, 48 a favore e gli altri si sono astenuti.
[9] Questi sono gli Stati in cui sono entrate immediatamente in vigore le leggi contro l’aborto: Alabama, Arkansas, Kentucky, Louisiana, Missouri, Oklahoma e South Dakota.
[10] Organizzazione per i diritti umani che aiuta le donne ad abortire e difende questo diritto nel Missouri, uno Stato che intende vietare del tutto l’aborto dopo l’abrogazione della Roe v Wade.

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Come si uccide un essere umano – Seconda Parte

Prima Parte

Patriarcato e difesa della razza: un connubio indissolubile

Per questo paragrafo si ringraziano Caterina, Nicoletta e Rita per la collaborazione

 

Dopo la morte di Ogorchukwu e l’arresto di Ferlazzo, la compagna di quest’ultimo ha detto che “quell’uomo chiedeva soldi con insistenza. Si è avvicinato a me con grande invadenza e il mio compagno ha perso le staffe”.

A sua volta, l’avvocato di Ferlazzo, Roberta Bizzarri, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
È veramente addolorato, ha pianto sempre, non si capacita che quell’uomo è venuto a mancare. A far scattare la molla dell’aggressione sarebbe stato uno strattonamento ricevuto dalla compagna, Elena, da parte del nigeriano ucciso. Lui dice di aver aggredito l’ambulante quando la compagna è stata presa per un braccio, sostiene che voleva fargli capire che non ci si comporta così, impartirgli una lezione.

Le parole sono importanti e rivelatorie di certe attitudini e concezioni mentali di chi le pronuncia. E così, leggere di lezioni impartite e “non ci sono comporta così” è indice di una forma di razzismo interiorizzato, spesso anche inconsapevole, per cui “l’africano” in Italia non può comportarsi come al “suo paese”: va rieducato, anche con le cattive, per fargli capire che certe cose non si possono fare. In particolare, non si può importunare la “sacra femmina” accompagnata dall’uomo bianco nello spazio pubblico.

Il discorso patriarcale si lega indissolubilmente a quello nazionalista e razziale.
Nel corso degli anni, la propaganda di destra ci ha deliziato con notizie strumentalizzate dove le donne vengono importunate o abusate da persone nere o arabe, minimizzando o negando allo stesso tempo le violenze dello stesso tipo compiute da soggetti “italianissimi e bianchissimi”.

Tale discorso, lungi dall’essere anche solo vagamente emancipatorio per le donne, rivela in realtà una serie di concezioni del pensiero dominante.

Il corpo femminile viene difeso solo perché tramite esso è più facile difendere il mito della bianchezza, innestando il discorso razziale su quello patriarcale e misogino.

Non a caso, uno dei cavalli di battaglia delle destre, è proprio la “difesa delle nostre donne”.

Secondo i cultori della bianchezza:
-in primo luogo, la donna che si muove da sola nello spazio pubblico non è al sicuro; questo perché lo spazio pubblico è “inquinato” da soggetti alieni (pericolosi e potenziali stupratori per definizione) e non a causa delle dinamiche patriarcali trasversali alla società;
-in secondo luogo, le persone non bianche – in particolare quelle migranti -, sono intrinsecamente cattive, portatrici di una cultura violenta nei confronti delle donne.

Questa concezione è ancora più rimarcata se si tratta di persone appartenenti ad una religione avversaria al cristianesimo cattolico; uno dei cavalli di battaglia della destra nostrana, in particolare nelle sue frazioni neofasciste e tradizionaliste, è l’identità cristiana come opposta e più civilizzata rispetto all’Islam.

Considerazioni di questo tipo hanno mosso, proprio a Macerata, Luca Traini nel febbraio 2018 a compiere un atto di “giustizia fai da te”, sparando letteralmente a caso su ogni persona nera incontrata per strada, evitando la strage per pochissimo.
Traini agì da “lonewolf” [4] come atto di “vendetta” nei riguardi della morte violenta della diciottenne Pamela Mastropietro, avvenuta a fine gennaio dello stesso anno per mano di Innocent Oseghale, uno spacciatore nigeriano.
Traini agì da solo, ma il suo gesto è stato apprezzato da molti che pensavano ci fosse bisogno di dare una lezione a questi soggetti (le persone migranti dedite, secondo la concezione comune, alla criminalità), rimettendoli “al loro posto”.

Ma in generale, qual è la concezione che la società italiana ha della donna?

Nella rissa tra due uomini, la donna viene ritenuta come un oggetto, una proprietà da salvaguardare o un territorio di conquista.

Nonostante nel 1981 siano state abrogate le leggi sul “matrimonio riparatore” (art. 544 c.p.; una misura che serviva a nascondere abilmente lo stupro commesso) e sul “delitto d’onore” (art. 587 c. p.; la donna sposata non doveva disonorare il marito pena la sua morte), le istituzioni e la società italiana hanno mantenuto in auge la visione della donna subordinata all’uomo, al maschile dominante.

Quando parliamo di subordinare, in senso generale, intendiamo “far dipendere una cosa da un’altra. Mettere una cosa in sottordine rispetto a un’altra” (“Lo Zingarelli 2011. Vocabolario della lingua italiana”, 2010, Dodicesima Edizione).

In un contesto patriarcale, la subordinazione femminile si riferisce alla posizione secondaria delle donne, all’accesso negato alle risorse, al processo decisionale, ecc che le portano ad una continua sensazione di impotenza, discriminazione ed esperienza di una limitata autostima e fiducia in se stesse.

L’utilizzo dell’espressione “subordinazione femminile” non è usato a caso; Gerda Lerner, nell’ “Appendix. Definitions” del libro “The creation of patriarchy”, spiega le differenze tra “oppressione” e “subordinazione” e del perché si tende ad utilizzare quest’ultimo termine:
[…] la parola “oppressione” implica il vittimismo; in effetti, coloro che la applicano alle donne spesso concettualizzano principalmente come vittime le “donne-come-gruppo”. Questo modo di immaginare le donne è fuorviante e antistorico. Sebbene tutte le donne siano state vittime in alcuni aspetti della loro vita e alcune, in certi momenti, più di altre, le donne sono strutturate nella società in modo tale da essere sia assoggettate che agenti. Come abbiamo detto in precedenza, la “dialettica della storia delle donne”, la complessa attrazione di forze contraddittorie sulle donne, le rende contemporaneamente marginali e centrali negli eventi storici. Cercare di descrivere la loro condizione usando un termine che oscura questa complessità è controproducente.
La parola “oppressione” si concentra su un torto; è soggettiva in quanto rappresenta la consapevolezza del gruppo assoggettato di aver subito un torto. La parola implica una lotta per il potere, una sconfitta che porta al dominio di un gruppo sull’altro.
Può darsi che l’esperienza storica delle donne includa “oppressioni” di questo tipo, ma comprende molto di più.Le donne, più di ogni altro gruppo, hanno collaborato alla propria subordinazione accettando il sistema di sesso e genere.
Hanno interiorizzato i valori che le subordinano a tal punto da trasmetterli volontariamente ai loro figli e alle loro figlie. Alcune donne sono state “oppresse” in un aspetto della loro vita da padri o mariti, mentre loro stesse hanno esercitato un potere su altre donne e uomini. Queste complessità diventano invisibili quando il termine “oppressione” viene usato per descrivere la condizione delle donne come gruppo.
L’uso dell’espressione “subordinazione delle donne” al posto della parola “oppressione” presenta vantaggi distintivi. La subordinazione non ha la connotazione di un’intenzione malvagia da parte del dominante; consente la possibilità di collusione tra lui e la parte subordinata. Include la possibilità di accettare volontariamente lo status di subordinato in cambio di protezione e privilegi, una condizione che caratterizza gran parte dell’esperienza storica delle donne. Per questa relazione userò il termine ” predominio paternalistico”. Il termine “subordinazione” comprende altre relazioni oltre al ” predominio paternalistico” e ha l’ulteriore vantaggio, rispetto a “oppressione”, di essere neutrale rispetto alle cause della subordinazione. Le complesse relazioni tra sesso e genere di uomini e donne nel corso di cinque millenni non possono essere attribuite a un’unica e semplice causa – l’avidità di potere degli uomini. È quindi meglio usare termini abbastanza privi di valore che ci permettano di poter descrivere le varie e diverse relazioni tra sesso e genere, costruite da uomini e donne in tempi e luoghi diversi.”

Il rapporto di potere così creato porta gli uomini, secondo femministe come Simone de Beauvoir e Kate Millet, a considerare le donne come un secondo sesso (o subalterno a quello maschile), o una classe sessuale dipendente dal dominio patriarcale.

Il patriarcato, come sistema, pone e accentua diversi tipi di violenza che possono essere usati per controllare e sottomettere le donne.

Tale violenza da parte degli uomini può persino essere considerata legittima e le donne sono sempre considerate vittime della violenza maschile. La violenza maschile è sistematicamente condotta con l’avallo delle istituzioni (statali e clericali) e della cultura del dominio.
In questo sistema patriarcale, uomini e donne si comportano, pensano e aspirano in modo diverso perché è stato insegnato loro a pensare alla mascolinità e alla femminilità in modi che condizionano la differenza di genere.
In tal senso, si dimostra che gli uomini e le donne hanno, o dovrebbero avere, una serie di qualità e caratteristiche completamente diverse e contrapposte. Ad esempio, le qualità “maschili” sono forza, coraggio, impavidità, dominio, competitività, ecc., mentre quelle “femminili” sono cura, accudimento, amore, timidezza, obbedienza, ecc.
Per preservare tale stato di cose – in cui è compresa la subordinazione -, fin dall’infanzia gli individui vengono plasmati tramite un processo di socializzazione di genere.
Chi alimenta questi processi (subordinativi e di socializzazione) sono la famiglia, la cultura, le istituzioni e il sistema capitalistico.

In un sistema ineguale, discriminatorio e di subordinazione, scriveva Sylvia Walby in “Theorizing Patriarchy”, “la forza lavoro delle donne, la riproduzione delle donne, la sessualità delle donne, la mobilità delle donne, la proprietà e altre risorse economiche sono sotto il controllo patriarcale”.

Conclusioni

Alla luce di quello che abbiamo riportato, risultano chiare le dinamiche che sono accadute in quel frangente. L’uccisione di un soggetto ricadente in più linee di fragilità, in quanto soggetto razzializzato, disabile e presumibilmente ai gradini più bassi della gerarchia maschile, è solamente la punta dell’iceberg di un sistema di violenze interiorizzato che agisce dal e sul corpo sociale.

Quanto abbiamo riportato nei tre paragrafi precedenti costituisce quelle condizioni di contorno che hanno fatto sì che una persona, in evidente situazione di difficoltà e pericolo, venisse uccisa.

Non abbiamo voluto trattare alcuni dettagli che sono circolati sui social e sui media mainstream nel corso di questa ultima settimana:
– il TSO a cui era stato sottoposto l’omicida in passato: non tanto perché non lo ritenessimo importante, ma perché esula dalle nostre conoscenze. Inoltre, concentrarsi sul problema psicologico-psichiatrico rischierebbe di far passare la vicenda come opera di “un pazzo”, quando invece si tratta di un fatto sociale che ha radici ben precise e non può essere ricondotto, secondo noi, ad un momentaneo raptus di violenza;
– la turistificazione del territorio: Civitanova Marche è una località balneare che affaccia sull’Adriatico. Non abitando in quelle zone, non sappiamo quanto abbiano inciso i processi di turistificazione e mercificazione sulle dinamiche sociali di quel territorio.

Per poter aiutare la famiglia di Ogorchukwu, riportiamo l’IBAN del conto corrente intestato alla moglie Charity Oriakhi: IT85N0200869201000106469918

Bibliografia
-Bianco Alessandro, conte di Saint-Jorioz, “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico-politico-statistico-morale-militare”, G. Daelli e C. Editori, Milano, 1864
-Del Boca Angelo, “Italiani, brava gente?”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2011
-bell hooks, “Tutto sull’amore. Nuove visioni”, Feltrinelli, Milano, 2003
-Dando Dandi, “Bianchi e Negri”, Edizioni L’Antistato, Cesena, 1962
-Simoons Frederick J., “Non mangerai di questa carne”, Eleuthera, Milano, 1991
-Hortensius Ruud, de Gelder Beatrice, “From Empathy to Apathy: The Bystander Effect Revisited”, “Current Directions in Psychological Science”, n. 4, anno 27, Agosto 2018, pagg. 249–256
-(a cura di) Mantovani Giuseppe, “Manuale di psicologia sociale”, Giunti Editore, Firenze, 2003
-Zamperini Adriano, Testoni Ines, “Psicologia sociale”, Einaudi, Torino, 2017
-Schroeder et al., “The psychology of helping and altruism: Problems and puzzles”, McGraw-Hill, 1995
-Lerner Gerda, “The creation of patriarchy”, Oxford University Press, 1986
-de Beauvoir Simone, “Il secondo sesso”, Il Saggiatore, Milano, 1999
-Millett Kate, “La politica del sesso”, Rizzoli, Milano, 1971
-Walby Sylvia, “Theorizing Patriarchy”, Wiley-Blackwell, 1991

Note
[4] Traduzione per “lupo solitario”. Secondo “urban dictionary”, un lupo solitario è “una persona che preferisce stare da sola piuttosto che con gli altri. Diversamente da un eremita, un lupo solitario vivrà e lavorerà nella società piuttosto che nascondersi da essa. Può anche riferirsi a una persona che preferisce lavorare da sola […] non cercano la compagnia degli altri.
Nei casi di atti terroristici (come quello di Traini, ma anche di Anders Breivik nel 2011), i lonewolves sono quelle persone che agiscono in via informale dopo essersi radicalizzate, solitamente in forum online, ed aver avuto accesso a tutta una serie di informazioni che vanno dai target da colpire al reperimento di armi da fuoco o fabbricazione di materiali esplodenti.

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Come si uccide un essere umano – Prima Parte

L’omicidio di Alika Ogorchukwu da parte di Filippo Ferlazzo avvenuto a Civitanova Marche il 29 Luglio, riapre uno scenario che in Italia si è visto più volte nel corso degli ultimi 40 anni.

Nel caso di Ogorchukwu non abbiamo solo un problema razzista, ma anche patriarcale e sociale in generale. Bisogna tenere in considerazione, quindi, non solo l’omicidio a sfondo razziale, ma anche una molestia (smentita successivamente) verso la donna che era in compagnia di Ferlazzo e le persone presenti che hanno filmato l’aggressione fino alla morte dell’uomo.

Gli omicidi e le violenze fisiche ai danni delle persone migranti sono gli ultimi tasselli di situazioni razziste ben interiorizzate – e supportate a livello istituzionale e sociale, aggiungiamo – all’interno della società italiana.

Il razzismo che non muore mai

Fin da quando esiste lo Stato Italiano (prima come Regno e successivamente come Repubblica), il razzismo è sempre stato il cardine politico su cui basarsi nel dividere e controllare le masse, rappresentando una parte di popolazione come “diversa” agli occhi di un pubblico mediamente acculturato, o anche accademico.

Bisogna partire da lontano per arrivare a comprendere come il razzismo sia sempre stato presente nelle politiche di controllo adottate dalle classi dominanti italiane.

Nella lotta al brigantaggio in Sud Italia, l’ufficiale del Regio Esercito Alessandro Bianco conte di Saint-Jorioz descriveva così la società del Sud Italia nel suo libro “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico-politico-statistico-morale-militare”:

Qui siamo fra una popolazione che, sebbene in Italia e nata italiana, sembra appartenere alle tribù primitive dell’Africa […] epperciò non è d’uopo parlar qui di cose che non sono nemmeno accessibili alla loro intelligenza

Se il conte di Saint-Joroz era intriso di un razzismo derivante dalla sua condizione nobiliare – e che a sua volta si rifaceva a teorie razziali per cui le popolazioni non civilizzate (con in testa quelle di origine africane) erano brutali e barbare -, altri ancora iniziarono a teorizzare ed applicare i vari studi scientifici (etnologici, antropologici, psicologici etc) in linea con l’ambiente intellettuale europeo dell’epoca – il quale aveva iniziato a teorizzare il “razzismo scientifico” per giustificare varie forme di gerarchia razziale (con in testa sempre le popolazioni bianche).

Si trattava di teorie che affondavano le loro radici molti secoli addietro, e che erano state rispolverate durante il secolo dei lumi per poi trovare la loro applicazione pratica nei secoli successivi.

Il Sud Italia post-unitario era un ottimo laboratorio politico e culturale per iniziare a mettere in pratica le politiche razziali.

L’inizio della colonizzazione in Africa Orientale (1890) fu, per l’Italia, una svolta economica e culturale non indifferente.

Seppur paesi come Inghilterra, Spagna e Francia avevano stabilito qualche secolo prima i loro domini in varie parti del mondo (Asia Centrale, India, Americhe, Cina e Africa per l’appunto), l’Italia post-unitaria era arrivata in ritardo nella corsa alla colonizzazione.

Questo ritardo, però, non coincise di certo con un’impreparazione intellettuale scientifica e politica. Anzi. Con il ben avviato “laboratorio” del Sud Italia dei vari psicologi, frenologi, antropologi e via dicendo dell’epoca, tutta una serie di modalità scientifiche e politiche potevano essere tranquillamente trasferite in Africa Orientale prima e, successivamente, in Libia (anni Trenta), in Etiopia (dopo la conquista del 1936) e nei territori abitati dalle popolazioni slave (anni Venti).

Il supporto della politica italiana (liberale e, successivamente, fascista) non fece altro che accentuare una delirante teorizzazione e pratica razziale.

Le popolazioni non italiane e non bianche erano etichettate come manovalanza e oggetti ad uso e consumo delle classi dominanti, la cui vita valeva più o meno come quella degli animali non umani.

L’istituzione della Repubblica Italiana dopo il conflitto mondiale non aveva cambiato di certo questa mentalità. Nei primi decenni di esistenza della Repubblica le persone non bianche provenivano per la maggior parte dalle ex colonie italiane e dal nord Africa in generale.

L’utilizzo di costoro come manodopera – alla stregua delle persone provenienti dal Sud Italia dirette verso Milano e Torino – rientrava nella logica capitalista della politica delle porte aperte.

Ai tempi, però, la questione delle persone migranti non bianche non era un problema politico in quanto si era in piena guerra fredda e, soprattutto, gli obiettivi dei partiti della Prima Repubblica e della borghesia erano di mantenere sotto controllo una situazione potenzialmente esplosiva all’interno delle fabbriche e delle università post-‘68.

La situazione cambia radicalmente con gli anni ‘80, tra la crisi dell’URSS e le varie guerre civili e dittature che fioriscono in tutto il continente africano. Le migrazioni di milioni di individui da un luogo ad un altro iniziano ad essere sempre più pressanti, portando ad un aumento considerevole delle persone non bianche in Italia.

Le regolarizzazioni e i controlli dati da leggi ad hoc (Martelli, Turco-Napolitano e Bossi-Fini), alla fin della fiera, non sono stati che dei tentativi di marginalizzazione, confinamento ed espulsione di queste persone all’interno di una società che, in generale, non ha mai fatto i conti con un passato e un presente profondamente razzista e divisorio.

Il “gioco” dell’esclusione nei confronti di queste persone porta ad una categorizzazione binaria: si hanno o criminali oppure vittime.

In tal modo questi individui diventano soggetti passivi a cui si può applicare qualsiasi tipo di violenza (fisica, culturale, religiosa ed economica che sia).

La violenza fisica, per via della sua applicazione e della sua “materialità”, è quella che percepiamo immediatamente rispetto ad altre di carattere culturale, religioso od economico. Essa è appunto la più immediata, ma ciò non vuol dire che le altre forme di violenza non siano altrettanto pericolose.

Vivere in un determinato territorio e avere determinate caratteristiche comporta l’acquisizione di privilegi di razza, genere e classe, avallati dai poteri sociali, culturali ed economici che governano il territorio.

Emerge così una figura di individuo-tipo che domina sugli altri.

La figura privilegiata per eccellenza è l’individuo bianco, cisgender, meglio se eterosessuale (sebbene anche gli omosessuali abbiano acquisito, non sempre, un certo potere), con un lavoro stabile – il “breadwinner” per eccellenza.

In “Tutto sull’amore. Nuove visioni”, bell hooks scriveva come il bianco, così “convinto di proteggere la propria vita e ciò che è suo”, spara al “non-bianco” in quanto “la supremazia bianca gli ha insegnato che tutte le persone di colore sono minacciose indipendentemente dal loro comportamento. Il capitalismo gli ha insegnato che, a tutti i costi, la sua proprietà può e deve essere protetta. Il patriarcato gli ha insegnato che la sua mascolinità deve essere dimostrata dalla volontà di vincere la paura attraverso l’aggressione.

Una modalità del genere così manifestamente violenta è tipica di quei partiti di centro-destra e gruppi neofascisti – come ampiamente dimostrato in questi anni dai proclami continui ed imperterriti di soggetti legati a partiti come Lega e Fratelli d’Italia o dei gruppi CasaPound, Forza Nuova.

Oltre a questo modo di agire, ve n’è un altro: quello di matrice cristiana e pietistica. La “pietas di matrice cristiana” non si riferisce alla Chiesa Cattolica e tutte le sue ramificazioni economiche (come la “Compagnia delle Opere”) ma, in generale, a quelle persone bianche che, dall’alto della loro cultura, si sentono in pieno diritto di dire alle persone non bianche cosa e come devono fare le cose, condendo il tutto con una retorica criptorazzista e vittimizzante.

Occorre distinguere due piani: il primo sono gli aiuti concreti formato tende, coperte e pasti portati avanti da associazioni – per lo più cristiane cattoliche come la Caritas -, mentre il secondo è quello di carattere mediatico e di sensibilizzazione.

Se la “critica” da porre verso gli aiuti concreti è per via del loro carattere assistenzialista – ovvero che l’assistenza non cambia lo stato di cose, visto il mantenimento della differenza economica esistente -, quella sul carattere mediatico e di sensibilizzazione è proprio una vera spettacolarizzazione del problema, un vuoto riempito di belle parole e nulla più.

La macchina social-mass-mediatica (testate giornalistiche, Facebook, Twitter e Instagram) ha un duplice utilizzo nella rappresentazione delle persone non bianche.

Si va dai post zuccherosi e melensi che tendono ad assolutizzare la bontà degli africani, non contaminati dalle perversioni occidentali – in una riedizione odierna del mito del buon selvaggio -, fino alla rappresentazione in chiave negativa di queste persone – meglio se nere -, come ignoranti, buzzurre da acculturare, disumane e via dicendo.

Nel primo caso si può fare riferimento a quei personaggi del milieu della sinistra da “restiamo umani” che avallano, consapevoli o meno, lo sfruttamento delle persone migranti sulla base di logiche lavoriste e/o pietistiche (un evergreen: “I migranti ci servono perché così ci aiuteranno a pagarci le pensioni, accogliamoli!”)

Una cosa del genere venne descritta minuziosamente da Dando Dandi (pseudonimo di Candido Mollar) nell’articolo a puntate di “Bianchi e ne*ri”, pubblicato il 28 Marzo 1942 sull’Adunata dei Refrattari:

Ciò che ferisce maggiormente il ne*ro, nelle sue più delicate sensibilità, è la doppiezza, l’ipocrisia incommensurabile del bianco nelle sue false pretese di protezione e di emancipazione dell’afro-americano; agenzie sociali governative e private, chiese e missionari delle varie sette religiose, organizzazioni di carità pubbliche, ospedali, ricoveri, riformatori, scuole professionali, borse di studio, collegi, istituti tecnici, università esclusive per la razza negra vengono fondate, finanziate, mantenute esercite per uno scopo solo, evidente, palpabile, indiscutibile: di fare dei “good niggers””, ovvero degli ottimi schiavi dove la condiscendenza bianca è un “atteggiamento untuoso, oleoso, viscido, avviluppante di compassione mendace, di falsa pietà del cristianesimo dominatore che dice alla vittima agonizzante […]: queste frustate fanno più male a me che a voi! La condiscendenza è figlia primogenita della vanagloria e del potere; la ributtante quintessenza morale delle classi dominatrici”.

Nel secondo caso, invece, si possono citare politici istituzionali e varie testate online criptofasciste o apertamente di estrema destra, che, se va bene, riportano eventi riguardanti le persone considerate migranti in maniera falsata o, direttamente, palesi fake news a tono scandalistico.

Facciamo un esempio per questo secondo caso. Più volte sui social network sono circolate immagini di persone non bianche che avevano crocifisso un gatto e giravano in processione. All’epoca, prima la Lega Nord e poi un parlamentare del fu PDL avevano ripreso tale immagine descrivendola come una processione anticristiana inscenata sul suolo italiano da “parte degli immigrati clandestini”. Salvo poi scoprire si trattasse di giovani cristiani ghanesi che si trovavano, per l’appunto, in Ghana.

Altro esempio: l’africano che cucina un gatto per strada.
Questa notizia è girata più volte negli anni: essa è vera ma bisogna contestualizzarla.
Un uomo senzatetto, di origine africana, trova la carcassa di un gatto (quindi un animale non umano già morto) per strada. Scuoia la carcassa e decide di cucinarla.
Già il fatto che si trovi a vivere per strada dovrebbe far pensare a tutta una serie di difficoltà che tale persona può avere (difficoltà a reperire cibo e beni di prima necessità, a lavarsi ecc).
Come viene raccontata questa notizia? L’africano incivile prende un gatto, lo uccide incurante di fronte a tutti e lo cuoce alla bene e meglio per poi gustarselo di fronte ad un pubblico di bianchi indignati (presumibilmente onnivori).

In entrambi gli esempi riportati ci sono degli elementi ricorrenti, accompagnati da cortocircuiti logici che sono sempre uguali.

In ossequio alle teorie sulla gerarchia razziale che vedono la razza bianca al primo posto, più la pigmentazione della persona da attaccare si distacca dal “bianco latte”, e più la propaganda conservatrice e reazionaria si scatenerà nel disumanizzare la persona (o le persone) in questione.

Ciò è particolarmente vero per le persone di origine africana, a cui spesso vengono attribuite le peggiori nefandezze senza che ciò faccia specie a nessuno.

Ma le persone di origine africane, migranti o afrodiscendenti, non sono le sole ad essere attaccate in questo modo; lo abbiamo visto con la sinofobia strisciante esplosa in episodi di violenze di strada al principio di questa pandemia. [1]

Un elemento che la propaganda di destra utilizza spesso e volentieri per attaccare e disumanizzare le persone non bianche è il ricorso ad argomentazioni pietistiche ed emozionali che riguardano la crudeltà sugli animali, rigorosamente quelli da “affezione” (cani e gatti). La crudeltà verso gli animali domestici diventa, secondo tale propaganda, un marchio distintivo delle culture non bianche.

Si pensi ad esempio agli attacchi sinofobi che accompagnano le proteste contro il festival della carne di cane di Yulin, in Cina, oltre agli esempi sopracitati che riguardavano dei gatti.

Eppure ci si dimentica che, in tempi di guerra o anche fino a una decina d’anni fa, i cosiddetti “animali d’affezione” venivano macellati e mangiati nella “bianchissima” Europa.

Frederick J. Simoons in “Non mangerai di questa carne”, scriveva a tal merito:

[…] Ai giorni nostri [presumibilmente anni ’70-’80, ndr] nell’ Estremadura, in Spagna, la carne di cane è ancora considerata una leccornia. La si mangia anche nelle campagne svizzere o in altre regioni alpine e Calvin Schwabe nell’informarci sul modo in cui gli svizzeri fanno seccare la carne di cane (Gedòrrtes Hundefleisch) fa notare che l’unico caso di trichinosi umana occorso in Svizzera negli anni ”70 non fu provocato dal maiale, ma da carne di cane poco cotta. All’inizio del XX secolo un osservatore riferiva di consumo di cane in Germania dove, a suo dire, l’anno precedente ne erano stati uccisi 8.000 esemplari a scopo alimentare, di cui 1.400 nelle sole città di Kassel e Chemnitz. Che in qualche misura il consumo di cane esista anche altrove è testimoniato dal fatto che parecchi Paesi europei hanno approvato leggi per garantirne la macellazione e il commercio rispettando determinati criteri.[…]

Quindi, chi sbandiera sentimenti di pietà e compassione verso gli animali domestici vittime di crudeltà umane, spesso e volentieri si disinteressa completamente della sorte degli animali “da reddito” (ovini, bovini, equini), mostrando l’evidente ipocrisia di un discorso che gioca solo sulle corde emotive ma che nulla ha di razionale.

Questi ultimi animali vengono considerati necessari per l’alimentazione umana, ma in realtà sono indispensabili solo ai profitti dei piccoli e grandi produttori agroalimentari che li allevano e macellano su scala industriale e sistematica in tutto il territorio patrio.

Per concludere il discorso, questi due tipi di propaganda (anti e pro migranti), in linea generale, non sono altro che strumenti dei professionisti delle chiacchiere (giornalisti, opinionisti, politici di professione) per controllare e mantenere in vita un sistema palesemente e dichiaratamente escludente dove nulla viene cambiato: l’iper-sfruttamento lavorativo e la privazione dell’alimentazione rimangono; la diversità viene accentuata ed è fonte di violenze di vario genere; avere un tetto sopra la testa spesso si traduce in brevi periodi mensili in dormitori ufficiali o, alla meglio e in molti casi, in catapecchie i cui tetti potrebbero crollare dall’oggi al domani.

L’effetto spettatore


Le riprese della morte di Ogorchukwu da parte di alcuni testimoni pongono l’attenzione su un altro grave punto della questione: l’effetto spettatore.

Nelle scienze psicologiche sociali, l’ “effetto spettatore” – detto anche “Apatia dello spettatore”, “Complesso del cattivo samaritano”, “Sindrome Genovese” e “Effetto testimone”- , è un fenomeno tipicamente di gruppo dove, generalmente, una persona che si ritrova in una situazione di emergenza (come rischiare la vita, per esempio) non viene aiutata dagli individui attorno a lei.
Generalmente si pensa che quando una persona si trova in una situazione di emergenza, le altre si prodighino ad aiutarla. Il punto, però, è che spesso questo non avviene.

John M. Darley e Bibb Latané, due psicologi della Columbia University, iniziarono ad analizzare questo fenomeno alla fine degli anni ‘60, partendo dal caso dell’omicidio di Kitty Genovese del 1964, da cui deriva uno dei nomi dati al fenomeno. Genovese venne accoltellata a morte mentre le persone attorno a lei non intervennero ad aiutarla e/o prestarle soccorso.

Per i due psicologi, erano stati tre i fattori scatenanti dell’ “effetto spettatore”: 1) diffusione della responsabilità, ossia la sensazione di avere una responsabilità minore quando sono presenti più persone; 2) timore della valutazione: la paura di un giudizio pubblico sfavorevole quando si aiuta la vittima; 3) ignoranza pluralistica, cioè la convinzione che se nessuno sta aiutando la vittima allora la situazione non è pericolosa.

Di conseguenza si è pensato che l’ “effetto” dello spettatore fosse presente in tutti gli individui. Dagli studi successivi che sono stati condotti, è venuto fuori un quadro molto più complesso.

Nel libro di Schroeder et al., “The psychology of helping and altruism: Problems and puzzles” (1995), viene spiegato che vi sono cinque passaggi affinché il processo decisionale di uno o più spettatori in situazioni di emergenza avvenga in modo affermativo:
1) rendersi conto che qualcosa di strano sta accadendo;
2) valutare se la situazione specifica richiede un intervento d’aiuto;
3) assumersi la responsabilità personale dell’intervento;
4) scegliere una forma d’aiuto specifica;
5) mettere in pratica l’aiuto.

Lo studio citato considera l’assunzione di responsabilità (punto 3) come cruciale, in quanto per intervenire in presenza di altri individui-spettatori, vi deve essere una spinta emotiva e personale legata a percezioni soggettive – e non ragionata e ponderata, ossia oggettiva.

In tal senso, simpatie ed antipatie, attrazione e repulsione etc giocano un ruolo fondamentale nell’aiutare una persona in situazione emergenziale o di pericolo quando questa è circondata da un gruppo di suoi simili.

La conferma si ha anche a livello di attività neuronale dove l’ “effetto spettatore” e l’aspetto emozionale condizionano non poco i processi chimico-fisico cerebrali.
Dagli esperimenti fatti tramite “neuroimaging funzionale” [2], attrazione e repulsione sono inseriti in due distinti sistemi motivazionali [3] che si attivano in sequenza quando le persone si trovano di fronte a un’emergenza.

Il numero dei presenti, in contesti del genere, ha anche un suo peso nell’intervento tempestivo. Questo perché gli individui presenti pensano che il dovere di intervenire sia di determinate persone, specializzate ed addestrate ad affrontare situazioni di pericolo (paramedici, vigili del fuoco, docenti, forze dell’ordine etc).

Analizzando la questione da un punto di vista politico e, quindi, andando a guardare al al modo in cui è strutturata la società odierna, la condizione dell’individuo-spettatore è esacerbata da un contesto di de-responsabilizzazione e di delega delle proprie scelte, della volontà e della sicurezza(fisica, sociale ed economica).

Gli individui vengono resi passivi, vengono indotti a non agire e ad “aspettare” che il problema si risolva da sé o tramite l’intervento di persone specializzate.
Se a questa considerazione aggiungiamo la questione razziale, l’inazione verso una persona non bianca in pericolo viene amplificata, in quanto i principi fondamentali del razzismo vengono instillati nella mente degli individui dall’attuale modello sociale.

A peggiorare la questione dell’ “effetto spettatore” ci si mettono i nuovi media; il livello di spettacolarizzazione raggiunto tramite l’utilizzo dei nuovi media (video, messaggi scritti, ecc) pone le persone ad essere spettatori virtuali e non più fisici.

Casi come quello di Kitty Genovese, uccisa mentre i vicini di casa stavano rintanati in casa, o di Niccolò Ciatti, ammazzato in una discoteca senza che nessuno intervenisse, o ancora di Pateh Sabally, suicidatosi nel Canal Grande di Venezia mentre le persone attorno o ignoravano ciò che stava facendo oppure lo riprendevano col cellulare, sono esemplari di ciò che è l’effetto spettatore e l’alienazione disumana data da questa società.

Continua nella Seconda Parte

Note
[1] Vedasi Daniele Brigadoi Cologna, “Le tentazioni sinofobiche italiane dopo un anno di pandemia globale”, Orizzone Cina, n. 3, pagg. 76-80, Vol. 11, 2020.
Link: https://www.ojs.unito.it/index.php/orizzontecina/article/download/5606/5004/

[2] Per neuroimaging si intende un insieme di strumenti per la visualizzazione del cervello in vivo a livello strutturale e anatomico (neuroimaging morfologico) e nell’esecuzione di particolari compiti motori e cognitivi (neuroimaging funzionale). Nel caso del “neuroimaging funzionale” vengono adoperati gli strumenti quali il PET (Positron emission tomography) e la fMRI (Functional magnetic resonance imaging) per localizzare e studiare le funzioni motorie e cognitive.
Fonte: Treccani, “neuroimaging”

[3] Per sistemi motivazionali si intendono una serie di regole innate, orientate biologicamente a organizzare il comportamento che porta alla sopravvivenza dell’individuo e della specie, predisponendo l’individuo all’azione e a comportamenti in grado di modificare il rapporto tra sé e l’ambiente fisico e relazionale.
Le componenti cognitive, emotive e comportamentali di cui sono dotati, permettono alla specie di adattarsi a specifici aspetti e, al tempo stesso, evolversi.
Fonte: Riello Maria, “Attaccamento e sistemi motivazionali. La motivazione in psicologia”, Presentazione di PowerPoint, Università del Salento, 2018

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L’industria del negazionismo

Presentazione
Il fumetto pubblicato su Zaborona (traduzione dall’ucraino “Taboo”) – un sito di media indipendenti che pubblica diversi report investigativi – da Anastasiya Opryshchenko e Daniel Lekhovitser, tratta una questione molto spinosa: il negazionismo dei genocidi.

Partendo dal caso più emblematico, l’Olocausto ebraico durante il regime nazista, Opryshchenko e Lekhovitser trattano brevemente di altri casi di genocidio (armeni, cinesi, curdi, indiani d’America, rohingya etc) smontando, seppur in modo sintetico, il gioco di pseudo-storici e pseudo-scienziati che riscrivono la storia, tramite libri, ospitate su canali televisivi, podcast e così via.

Se vediamo la questione del negazionismo in generale, notiamo come tutto questo si accosti a meraviglia agli intenti di determinati soggetti, i quali puntano a monetizzare le loro baggianate – basate principalmente su un mancato utilizzo del metodo scientifico – e ritagliarsi, al tempo stesso, uno spazio politico ben definito.

Un esempio da manuale di ciò è, nel caso italiano, il canale Byoblu, il quale ha fornito informazioni “critiche” sulla pandemia in corso (in realtà palesemente falsate), per poi arrivare ad espandere il proprio raggio d’azione con l’apertura di un canale televisivo e la vendita di integratori alimentari fatti pagare a caro prezzo.

D’altronde, è un fenomeno che è esploso negli ultimi anni: emulando i loro predecessori (come David Irving, citato nel fumetto), i negatori dell’attuale pandemia – che non sono pochi -, sono entrati adesso nel grande gioco della monetizzazione e della spettacolarizzazione politica.

Come novelli capi-popolo stile Francesco “Ciccio” Franco (e la similitudine non è usata a caso viste le modalità pseudo-antisistemiche ma palesemente fascistoidi e autoritarie del soggetto in questione), i rappresentanti del negazionismo (che possono essere della pandemia, dei genocidi etc) continuano ad alimentare un’ignoranza sociale che, in un contesto di impoverimento economico ed iper-informazione data dai nuovi media, trova terreno fertile.

Il fumetto in questione presenta i suoi limiti e difetti quando, per esempio, si parla di genocidi negati dagli Stati e si afferma che “le reazioni dei paesi sono inaccettabili ma comprensibili”.

Seppur messo in modo provocatorio, il problema della comprensione delle operazioni culturali e politiche degli Stati pone un grave problema che parte dall’educazione scolastica – tematica cara a chi vuol detenere il potere – e termina con i vari mezzi di informazione.

L’Italia ha sempre taciuto e negato il suo ruolo genocida in Libia, in Etiopia e nei territori abitati dalle popolazioni slave (Istria, Slovenia, Dalmazia). Il governo Andreotti, per esempio, pose la censura ad un film come “Il leone del deserto” di Mustafa Akkad – che narra la resistenza libica guidata da Omar al-Mukhtar contro gli italiani -, perchè lesivo per l’onore dell’esercito italiano.

Al tempo stesso, però, i governi e i mass-media italiani degli ultimi 20 anni hanno rivendicato il cosiddetto genocidio delle foibe, nascondendo ancor di più le responsabilità omicide e di italianizzazione del passato regime fascista e dell’esercito italiano nei territori delle popolazioni slave.

Per questo diciamo che le reazioni degli Stati non sono né comprensibili, tanto meno accettabili.

Al di là di questo, il fumetto riapre uno scenario che negli ultimi anni è passato in secondo piano. E al tempo stesso offre un’estensione critica ai vari ed attuali modelli negazionisti che, rivendicandosi di essere anti-sistemici, in realtà sono apertamente e dichiaratamente reazionari e favorevoli a modelli strutturali autoritari.

Link per scaricare il fumetto tradotto in italiano

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