Abolire le armi nucleari: la consapevolezza femminista, queer e indigena per porre fine alle armi nucleari – Seconda Parte

Prima Parte

Quindi, opporsi a questi sistemi richiede creatività su come e dove si realizza il cambiamento. Considerate come lu attivistu nucleari si siano rivolti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per proibire le armi nucleari. Il forum diplomatico internazionale in cui si dovrebbe “supporre” che si svolgano i negoziati sul disarmo nucleare – la Conferenza sul disarmo, con sede all’ONU a Ginevra – è chiuso allu attivistu e alla maggioranza degli Stati membri dell’ONU. Ha solo 65 Stati come membri, e a ciascuno è dato un veto assoluto su ogni decisione che il forum può prendere, inclusa la struttura del suo ordine del giorno. Dal 1996, in questa sede, non si svolge alcun lavoro sostanziale; eppure i governi possessori di armi nucleari sostengono che è l’unica sede in cui le questioni relative alle armi nucleari possano essere discusse in modo credibile.

Portando la questione all’Assemblea Generale, il resto dei governi del mondo hanno rifiutato la struttura di oppressione impostagli da quelli che possiedono le armi nucleari; hanno creato un nuovo percorso al di fuori dei canali “credibili”, consentendo alle voci e agli interessi di coloro che non controllano gli enormi arsenali che distruggono il mondo non solo di essere ascoltati, ma anche di avere un posto [in prima fila].
Questo cambiamento di posizione è stato imperativo anche per quanto riguarda il modo in cui i diplomatici hanno lavorato per cambiare le politiche dei loro governi. Nei primi anni di lavoro per il “Trattato di messa al bando delle armi nucleari”, i diplomatici e lu attivisti si sono riuniti al di fuori delle istituzioni per discutere, pensare e imparare. In questi piccoli gruppi di discussione, sparsi in varie parti del mondo, gli individui coinvolti potevano lavorare insieme per sviluppare argomenti e strategie da portare alle proprie istituzioni nazionali – al fine di portare il proprio governo a seguire e, persino, aprire la strada per un nuovo trattato. Se questo lavoro iniziale avesse avuto luogo all’interno dei processi o delle istituzioni preesistenti, l’obiettivo di vietare le armi nucleari sarebbe stato spento prima di avere una possibilità di cristallizzarsi in un obiettivo politico credibile.

[Questo stato di cose] ha permesso alle persone di riunirsi per discutere di idee “radicali” o “non realistiche” in spazi nuovi, e ha portato ad una soluzione di un problema apparentemente intrattabile. Consapevolmente o meno, la decisione di rivolgersi a forum alternativi ha permesso alle posizioni marginali sulle armi nucleari di informare il cambiamento progressivo in corso, mettendone a nudo il processo. Questi spazi alternativi hanno permesso “un’agenda politica che cerca di cambiare i valori, le definizioni e le leggi che rendono queste istituzioni e relazioni oppressive” (Cohen 1997, 444-5).

Per mettere in discussione ciò che è considerato normativo e, al tempo stesso, da dove si possono lanciare le sfide, bisogna considerare essenzialmente chi è incluso nella conversazione – diversificando la partecipazione.

Nel dissenso dei quadri normativi dell’etero-patriarcato e del colonialismo, per esempio, alcunu studiosu e attivistu queer, indigenu e femministi lavorano per chiedere e sfidare cosa o chi è un soggetto, cosa o chi è consideratu credibile e legittimo, cosa o chi può essere fonte di conoscenza e intellettualità. In questo lavoro, essi criticano le strutture intellettuali che i regimi coloniali impiegano per sopprimere le identità e l’opposizione e “trattengono il cambiamento della responsabilità dell’eredità etero-patriarcale.” (Driskill et al. 2011, 19).
Nel contesto delle armi nucleari, le voci dominanti sono quelle degli uomini che rappresentano il governo o le istituzioni accademiche degli Stati possessori delle armi nucleari – persone che beneficiano direttamente della produzione di teorie e prospettive che giustifichino il possesso, il continuo sviluppo e l’ammodernamento degli arsenali nucleari. Queste “autorità” spesso negano e allontanano lu attivisti anti-nucleari, ignorando molte volte chi ha sofferto per lo sviluppo, i test e l’uso di queste bombe.
Attualmente, c’è stata una spinta concertata per includere le donne nel dialogo e nei negoziati relativi alle armi nucleari.

Il “Trattato di messa al bando delle armi nucleari”, ad esempio, riconosce che “la partecipazione paritaria, piena ed effettiva delle donne e degli uomini sia un fattore essenziale per la promozione e il raggiungimento di una pace e di una sicurezza sostenibili”, ed esprime l’impegno dei suoi Stati firmatari a “sostenere e rafforzare l’effettiva partecipazione delle donne al disarmo nucleare.” Tali richieste di partecipazione delle donne nei settori della politica delle armi nucleari e di altre attività militaristiche sono spesso basate su una preoccupazione legittima sulla mancata diversità di genere in queste discussioni o istituzioni. Ma “aggiungere donne” non solo è insufficiente, ma rischia anche di legittimare ulteriormente le istituzioni, le pratiche e le politiche che molti vorrebbero cambiare.
Il campo della politica nucleare è dominato da uomini bianchi eterosessuali cisgender che compongono un sedicente “sacerdozio nucleare” e che sposa prospettive mascolinizzate riconosciute sulla sicurezza e sulle armi. Un recente studio pubblicato dalla “New America” (Hurlburt et al. 2019) dipinge un ritratto del sessismo e degli stereotipi di genere [in questo ambito politico-nucleare], notando che ci sono alti livelli di abbandono delle donne dal settore.
Le donne (per lo più bianche, donne cisgender) che hanno partecipato con successo alle istituzioni politiche nucleari sono state spesso costrette a dimostrare la loro competenza “padroneggiando l’ortodossia” e a “padroneggiare i dettagli tecnici prima di poter avere un’opinione” (Hurlburt et al. 2019). Le pochissime donne che riescono in questo settore sono celebrate come se avessero attraversato il divario dal controllo delle armi (mansione giudicata “femminile”) alla pianificazione della guerra nucleare (mansione giudicata “maschile”). L’ex vice assistente del segretario alla difesa per la politica di difesa nucleare e missilistica Elaine Bunn ha spiegato: “C’era il lato morbido e sfocato sul controllo delle armi e poi c’era il lato militare vero e proprio, quello del dispiegamento e mi sentivo come se dovevo dimostrare la mia buona fede dall’altro lato.”

Ella si ricordava di un mentore che le diceva che se doveva rimanere nel Dipartimento della Difesa, doveva “occuparsi degli obiettivi, del lato duro della questione, non solo del controllo degli armamenti”, altrimenti non sarebbe stata presa sul serio.
Un’intervistata, borsista presso la National Nuclear Security Administration, ha sostenuto che, come donna di colore, si chiedeva dell’impatto delle politiche nucleari non solo sulle donne ma anche sulle comunità indigene e di colore:
“Abbiamo fatto esplodere alcune delle nostre armi più potenti nell’atollo di Bikini e in Micronesia e nelle Isole Marshall. Non era nei sobborghi del Montana che lo facevamo… Che si tratti di politica di giustizia penale o di politica di sicurezza nazionale, quando si parla di chi è una vita preziosa, le persone [di colore e non bianche] sono le ultime della lista.” (Hurlburt et al. 2019)
Tuttavia, altre donne intervistate nello studio hanno dichiarato di non considerare gli impatti civili importanti o utili. Un’intervistata ha suggerito che le armi nucleari hanno avuto un impatto positivo sulle donne e su altri per il numero di donne che hanno salvato grazie alla deterrenza nucleare.
Le dichiarazioni di queste donne policy-makers dimostrano che l’aggiunta di donne alle discussioni sulle politiche nucleari non garantisce sufficientemente l’ottenimento di cambiamenti significativi. Ciò è ulteriormente amplificato dal fatto che, nel Gennaio 2019, gli amministratori delegati di quattro delle più grandi aziende statunitensi produttrici di armi – Northrup Grumman, Lockheed Martin, General Dynamics e l’ala armiera di Boeing – erano donne. Anche il principale acquirente di armi del Pentagono quale il sottosegretario di Stato per il controllo delle armi e gli affari di sicurezza internazionali, così come il sottosegretario per la sicurezza nucleare, sono donne (Brown 2019). Queste donne non stanno sfidando le strutture e i sistemi patriarcali che hanno creato l’ordine mondiale militarizzato: lo stanno attivamente mantenendo, traendone profitto.

Nel Marzo 2019, la Minot Air Force Base ha celebrato un “allarme missilistico femminile”, durante il quale solo le donne erano responsabili del lancio di missili nucleari sul sito per 24 ore. Per l’occasione, hanno indossato una patch speciale con Wonder Woman impresso. Una delle donne che ha preso parte alla missione ha detto: “C’è molta bellezza in un equipaggio unito tutto al femminile che, come parte della storia, svolge la missione per i tre stormi missilistici di ICBM [missili balistici intercontinentali]” (Ley 2019).
Come dice la studiosa femminista Cynthia Enloe, “Puoi militarizzare qualsiasi cosa, inclusa l’uguaglianza” (in Hayda 2019). Le donne sono state sostenitrici delle armi nucleari, a volte sfruttando la loro posizione di madri e mogli per giustificare questo sostegno. L’ex ambasciatrice statunitense presso le Nazioni Unite, Niki Haley, ha fatto appello al suo status di madre per giustificare la sua difesa delle armi nucleari. “Prima di tutto, sono una mamma, sono una moglie, sono una figlia”, ha detto in una conferenza stampa in cui si è opposta alla negoziazione di un trattato internazionale che vieti le armi nucleari (Democracy Now! 2017). “E come mamma, come figlia, non c’è niente che desidero di più per la mia famiglia che un mondo senza armi nucleari. Ma dobbiamo essere realistici.” Ella ha identificato il desiderio di disarmo con la sua femminilità, ma collega il suo desiderio di “proteggere” la sua famiglia con la “necessità” di mantenere le armi nucleari.
L’idea che il possesso di armi nucleari sia una politica realistica e credibile è insita nel discorso normativo sulla sicurezza adottato dagli Stati possessori di armi nucleari. L’aggiunta delle donne alla discussione non mette in discussione, di per sé, la normatività di queste affermazioni.

Le donne che accedono a queste discussioni provengono principalmente dalla stessa classe economica, dallo stesso contesto sociale, dalla stessa prospettiva e identità degli uomini che sono già lì.
La stragrande maggioranza delle donne che ricoprono qualsiasi posizione all’interno della politica del nucleare o del più ampio “stabilimento della sicurezza” degli Stati Uniti sono bianche, eterosessuali, cisgender e di classe media o superiore.

Sono principalmente interessate a salire la scala e a “rompere il soffitto di vetro”, non a sfidare o riconfigurare le istruzioni o le strutture alle quali sono state ammesse. L’aggiunta delle donne alle discussioni sulla politica nucleare, in particolare negli spazi “tradizionali”, non garantisce una prospettiva diversa. Le donne sono socializzate alle idee di sicurezza militarizzata, e possono sostenere le politiche intrise di nozioni di “minaccia”. La presentazione di soluzioni militarizzate alle “minacce e ai nemici” è legittimata quando i luoghi decisionali sono percepiti come “pari opportunità” dalle diverse identità delle persone partecipanti.
Nel tentativo di stabilire la loro legittimità, gli attori statali a volte abbracciano anche il linguaggio dei loro critici – descrivendo se stessi o la loro politica estera come femminista. Le affermazioni di “politica estera femminista” da parte dei governi è un mezzo per legittimare la loro leadership, nonostante questi Stati continuino a trasferire armi, partecipino a guerre o ad interventi militari e rifiutino di fare i conti con il loro status di Stato coloniale colonizzatore. L’uso dell’etichetta “femminista” riflette ciò che Duriesmith (2019) definisce “l’uso cinico della programmazione di genere per legittimare altre forme di violenza”.
La Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà (WILPF) è sempre stata solidale con le persone bombardate e non con i bombardieri. La WILPF lavora per la pace e il disarmo e contro l’industria degli armamenti, il capitalismo, il razzismo e la distruzione ambientale.
La WILPF è stato membro della “Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari” (ICAN), che ha condotto [i maggiori] sforzi per raggiungere il “Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari”. Durante questo periodo di lavoro, l’ICAN includeva molte donne, persone identificate come queer, attivistu del Sud globale, rappresentanti delle comunità indigene, sopravvissutu alle bombe atomiche e altru che avevano sperimentato l’impatto delle armi nucleari.

Questo era parte di uno sforzo concertato per diversificare la partecipazione alle conversazioni su queste armi. Lu partecipanti al processo decisionale sulle armi nucleari sono importanti: è importante chi siede al tavolo, perché la diversità di partecipazione è l’unico modo per contribuire a garantire la diversità di prospettive.
È inoltre fondamentale adottare un approccio intersezionale alle questioni di uguaglianza, giustizia e sicurezza nell’ambito del nostro lavoro abolizionista del nucleare. Attingendo dall’attivismo femminista, queer e indigeno, si riconosce la complementarità delle nostre lotte e che possiamo trovare strategie resilienti per cambiarlo. I Water Protectors di Standing Rock hanno identificato l’oppressore non solo come il governo degli Stati Uniti, gli interessi militari o capitalisti; hanno capito che l’etero-patriarcato, il razzismo e lo sfruttamento da parte dell’impero sono al centro delle sfide che devono affrontare per proteggere la terra e l’acqua dalla violenza delle condutture energetiche (Estes 2019). Lu attivistu queer vedono l’impegno politico come “un’ampia critica verso i molteplici antagonismi sociali, tra cui la razza, il genere, la classe, la nazionalità e la religione, oltre alla sessualità” e in “un’ampia considerazione delle crisi globali del XX secolo che hanno configurato le relazioni storiche tra le economie politiche, la geopolitica della guerra e del terrore e le manifestazioni nazionali delle gerarchie sessuali, razziali e di genere” (Eng et al. 2013, 1).
Nel contesto delle armi nucleari, questo significa che fare campagne per il disarmo nucleare senza comprendere l’ingiustizia razzista, patriarcale e capitalista che queste armi rappresentano nelle relazioni internazionali e nelle esperienze locali portano ad un cattivo servizio sia verso la lotta per il disarmo che verso la giustizia. La nostra critica alle armi nucleari deve essere anche una critica allo Stato coloniale colonizzatore, che ritiene di poter condurre test nucleari o immagazzinare scorie nucleari su terre rubate.

Deve essere una critica del razzismo, con attenzione ai corpi e alle terre su cui vengono testate e usate le armi nucleari. Deve essere una critica al patriarcato, pensando come le armi nucleari coinvolgano le norme di genere e come siano usate per rafforzare le gerarchie sociali, il controllo e il dominio.

Un approccio intersezionale al disarmo nucleare significa anche garantire che le voci e le prospettive di coloro che sperimentano la violenza delle armi nucleari e dell’intersezione di queste oppressioni guidino le nostre critiche e il nostro lavoro. Ciò significa apprendere le lezioni di altru che hanno lottato per il cambiamento [e sono partitu] da posizioni non normalizzate e marginalizzate – e [, al contempo,] imparare e farsi guidare da loro.

Significa non affidarsi semplicemente alle istituzioni consolidate che ci “permettono” di partecipare o di accontentarsi di piccoli accomodamenti all’interno di tali istituzioni. Una critica delle armi nucleari nelle sedi e con il linguaggio dei sostenitori delle armi nucleari non funzionerà. Nella migliore delle ipotesi, può contribuire a ridurre leggermente il numero di testate o missili, o a stabilire delle norme di controllo delle armi e delle iniziative di non proliferazione. Non ci porta all’abolizione. Solo collocando la nostra critica nelle lotte dellu attivistu indigenu, queer, femministi e antirazzistu possiamo onestamente spiegare quello che fanno, cosa sono e “per” chi sono veramente le armi nucleari. Solo ripensando il nostro rapporto con le istituzioni esistenti, che tendono a cooptare lu partecipanti allo status quo piuttosto che fornire opportunità a costoro di cambiare le cose “dall’interno”, possiamo iniziare a pensare a spazi e relazioni alternative e impegnarci in processi significativi. Resta ancora molto lavoro da fare e più possiamo imparare dalle teorie e dalle pratiche di azione e partecipazione “dell’altru”, maggiore sarà l’impatto che avremo in una serie di lotte per la giustizia sociale.

Riferimenti
Nota: Tutti gli URL sono stati consultati l’ultima volta il 24 Giugno 2021.
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