di Ray Acheson
Ray Acheson è direttrice del Reaching Critical Will, il programma sul disarmo della Women’s International League for Peace and Freedom, una delle più antiche organizzazioni femministe per la pace. Dal 2005 è coinvolta nei processi intergovernativi di disarmo, fornendo relazioni, analisi e sostegno riguardanti le armi nucleari, il commercio internazionale di armi e altro ancora, da una prospettiva femminista e antimilitarista. Ray fa parte del gruppo direttivo della “Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari” (ICAN), che ha vinto il Premio Nobel per la pace nel 2017 per il suo lavoro di messa al bando delle armi nucleari, nonché dei comitati direttivi della “Campaign to Stop Killer Robots” e della “Rete internazionale sulle armi esplosive”. Ray ha ricevuto il premio Nuclear Free Future 2020 e il premio Champion of Change 2018 dell’UN Women Metro New York. È autrice di “Banning the Bomb, Smashing the Patriarchy” (2021).
Traduzione del capitolo “Abolish nuclear weapons: feminist, queer, and indigenous knowledge for ending nuclear weapons”, tratto dal libro (edited) Megan MacKenzie e Nicole Wegner, “Feminist solutions for ending war”, Pluto Press, Londra, 2021, pagg. 105-120
Questo capitolo analizzerà l’abolizione nucleare come obiettivo femminista nel porre fine alla guerra. Esplora il ruolo del femminismo intersezionale nel dare forma all’attivismo contro la bomba. La bomba stessa è l’espressione più estrema della violenza e del controllo dell’ordine mondiale patriarcale, razzista e capitalista. Coloro che possiedono o desiderano armi nucleari sostengono che il semplice possesso della bomba impedisca il conflitto e scoraggi l’attacco. Le armi nucleari sono discusse in astratto, come strumenti magici che ci tengono al sicuro e mantengono la stabilità nel mondo. Ma le armi nucleari non sono astratte. Sono fatte di materiali radioattivi. Sono fatte per distruggere carne e ossa. Per sciogliere la pelle dai nostri corpi. Per ridurre intere città in cenere.
Per la maggior parte delle persone che lottano quotidianamente sotto questo ordine oppressivo, l’abolizione delle armi nucleari potrebbe non sembrare una priorità. Quando si affronta il colonialismo, l’intervento imperialista, la guerra, l’incarcerazione di massa, la povertà, la deportazione, la devastazione ambientale e la violenza nelle nostre case e comunità, le armi nucleari possono sembrare davvero un’astrazione. Ma queste armi fanno parte dello spettro della violenza istituzionalizzata. Sono l’apice del monopolio di uno Stato sulla violenza, il significato ultimo del dominio. Queste armi possono manifestare una violenza straordinaria in un solo momento – morte estrema, distruzione e disperazione.
Quindi, resistere all’ingiustizia richiede attenzione al ruolo delle armi nucleari nel nostro ordine mondiale, all’intersezione di oppressioni patriarcali, razziste, coloniali e capitaliste. Dobbiamo privilegiare le voci e le prospettive di coloro che sono storicamente trascuratu, ignoratu o ridicolizzatu. Farlo significa cambiare la conversazione, cambiare la posizione delle conversazioni e diversificare la partecipazione alle conversazioni sulle armi nucleari.
Questo capitolo si basa sulla convinzione che il lavoro di abolizione delle armi nucleari debba contribuire alle più ampie lotte per la giustizia sociale.
Cerco di impegnarmi con la scrittura femminista, queer e indigena, non per distrarre il target dellu attivistu su altre oppressioni strutturali e fisiche. Piuttosto, credo che lu abolizionistu nucleari possano imparare da altru attivistu che lavorano contro i sistemi patriarcali, razzisti e colonialisti. È utile riconoscere diverse prospettive ed esperienze che si rivoltano contro le strutture normative e i sistemi di pensiero egemonici; l’abolizione del nucleare ci impone di sfidare l’ordinamento sociale e le logiche di produzione della conoscenza che conferiscono “alla differenza sociale e politica il loro potere discorsivo” (Eng 2013, 4). Questo capitolo procede con una panoramica sulla storia delle armi nucleari e sugli sforzi femministi per abolirle, prima di impegnarsi con una serie di studiosi e capire come continuare a resistere e a creare sforzi per abolire le armi nucleari.
Armi nucleari, oppressioni intersezionali e miti della Sicurezza
La storia delle armi nucleari è una storia di sfruttamento coloniale. Gli Stati dotati di armi nucleari hanno testato le bombe al di fuori dei loro territori, spesso in colonie o terre ritenute inferiori (Hawkins 2018).
Quando i governi possessori di armi nucleari hanno condotto test sui propri territori, è stato principalmente sulle terre indigene. Ad esempio, la Western Shoshone Nation, nel sud-ovest degli Stati Uniti, è la nazione più bombardata della Terra (Johnson 2018). In una dichiarazione rilasciata durante i negoziati del Trattato delle Nazioni Unite (ONU) sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW) nel Luglio 2017, 35 gruppi indigeni hanno dichiarato: “Governi e forze coloniali hanno fatto esplodere le bombe nucleari sulle nostre terre sacre – da cui dipendono le nostre vite e i mezzi di sostentamento, e che contengono luoghi di importanza critica culturale e spirituale -, credendo che fossero inutili” (Dichiarazione indigena 2017). Consegnato da Karina Lester, una donna Yankunytjatjara-Anangu dell’Australia meridionale, la dichiarazione ha sottolineato che le persone indigene non hanno “mai chiesto, e non hanno mai dato il permesso di avvelenare il nostro suolo, cibo, fiumi e oceani. Continuiamo a resistere agli atti disumani di razzismo radioattivo.”
Lu attivistu negli Stati Uniti hanno da tempo riconosciuto il razzismo insito nella pratica della politica delle armi nucleari: “I bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki erano inestricabilmente legati al colonialismo e all’uguaglianza razziale” (Intondi 2015, 22).
Coretta Scott King, Martin Luther King Jr, W.E.B. Du Bois e altru hanno elaborato l’inseparabilità tra il disarmo nucleare, la fine degli imperi coloniali e i diritti civili (Intondi 2015).
Allo stesso modo, le studiose femministe hanno mappato le connessioni tra la mascolinità militarizzata, la ricerca del dominio nelle relazioni internazionali e le armi nucleari.
L’analisi di Carol Cohn (1987a, 1987b) sul discorso di genere e le armi nucleari ha fornito le basi per un’analisi femminista della guerra nucleare, della strategia nucleare e delle stesse armi nucleari. Prendendo spunto da un leader nazionalista indù che, dopo i test nucleari condotti in India nel 1998, ha spiegato “abbiamo dovuto dimostrare che non siamo eunuchi”, Cohn et al. (2006), [Cohn] sostiene che le dichiarazioni come questa hanno lo scopo di “suscitare ammirazione per la virilità furibonda dell’oratore” e implica che l’utilizzo delle armi nucleari significhi essere “abbastanza uomini” per “difendere” il proprio paese. [Inoltre, ella] ha anche esaminato come il disarmo sia “femminilizzato” e legato alla mancanza di potere [e alla manifestazione di] debolezza e irrazionalità, mentre il militarismo e il conseguimento delle armi nucleari sono celebrati come segni di forza, potere e razionalità (Cohn et al. 2006).
Le femministe osservano anche come le aspettative mascolinizzate per i leader politici possano essere accoppiate con le ansie circa le prestazioni sessuali e la riproduzione, sottolineando che il “linguaggio tecnostrategico” è impostato per segnalare la “competenza” dell’ èlite (Eschle 2012). Nei discorsi dove si difendono le armi nucleari come necessarie per la sicurezza, “il protettore” è codificato come maschile e “il protetto” come femminile. Questi discorsi rafforzano e favoriscono le fantasie dei “veri uomini” e la mascolinità viene definita come “invulnerabilità, invincibilità e inespugnabilità” (Eschle 2012). Le femministe criticano un approccio maschilista sulla sicurezza, in particolare la teoria delle Relazioni Internazionali che attribuisce alle armi nucleari lo status di marcatori sia del dominio maschile (capace di infliggere violenza) che come protettore maschile (capace di dissuadere la violenza) (Duncanson ed Eschle 2008).
Gli Stati dotati di armi nucleari cercano di screditare coloro che chiedono l’abolizione delle armi nucleari. I sostenitori delle armi nucleari cercano di usare una logica di razionalismo e di potere per difendere il loro possesso di queste armi mentre cercano di “femminilizzare” lu oppositoru delle armi nucleari sostenendo che sono emotivu e irrazionali.
Nello sviluppo del Trattato delle Nazioni Unite sulla proibizione delle armi nucleari, i rappresentanti degli Stati possessori di armi nucleari rimproverarono i governi e lu attivisti che spingevano per vietare la bomba. In un caso, un ambasciatore russo ha suggerito che coloro che vogliono vietare le armi nucleari sono “sognatori radicali” che hanno “sparato in qualche altro pianeta o spazio esterno”. In un altro caso, un ambasciatore del Regno Unito ha detto che gli interessi di sicurezza delle persone oppositrici alle armi nucleari fossero irrilevanti o inesistenti. Un ambasciatore degli Stati Uniti ha affermato che il divieto di armi nucleari potrebbe minare la sicurezza internazionale – tanto che si potrebbero utilizzare le armi nucleari (Acheson 2019a). Queste affermazioni esemplificano le tecniche patriarcali – tra cui il victim-blaming e il gaslighting. Il messaggio è chiaro: se tentate di toglierci i nostri giocattoli di violenza nucleare di massa, non avremo altra scelta che usarli, e sarà colpa vostra. Questo discorso che presenta lu attivistu anti-bomba come “emotivu”, ignora gli effetti che le armi nucleari infliggono alle persone e nega agli individui lo spazio per esprimere le loro preoccupazioni su questi strumenti genocidi. Questa è una forma di gaslighting – insistendo sul fatto che queste armi sono una fonte di sicurezza e accusando chiunque la pensi diversamente di essere emotivu, agitatu, irrazionale o poco pratico (Acheson 2018).
Coloro che determinano ciò che è considerato realistico, pratico e fattibile sono uomini e donne di incredibili privilegi; élite delle loro società e della comunità globale – come politici, personale governativo, comandanti militari, professionisti della sicurezza nazionale e accademici. Questo campo spesso ignora le persone colpite dallo sviluppo, dalla sperimentazione, dallo stoccaggio, dall’uso o dalla minaccia di usare le armi nucleari. La narrazione comune è che le armi nucleari sono necessarie in un mondo in cui ci sarà sempre qualcuno che vuole mantenere o sviluppare la capacità di esercitare livelli massicci e insondabili di violenza sulle altre persone.
Le élite che possiedono armi nucleari sostengono di essere attori “razionali” e che le devono mantenere per la protezione contro altri “irrazionali”.
Per esempio, nel 2018, il governo degli Stati Uniti ha affermato che gli impegni del passato per il disarmo nucleare erano obsoleti e non al passo con l’odierno “ambiente di sicurezza internazionale” – ignorando che l’ambiente di sicurezza internazionale è pesantemente influenzato dalle azioni del governo degli Stati Uniti, compreso il rafforzamento del suo arsenale nucleare. L’amministrazione Trump ha articolato un nuovo approccio alla politica sulle armi nucleari, incentrato non su ciò che gli Stati Uniti possano fare per il disarmo nucleare, ma su quello che il resto del mondo può fare verso gli Stati Uniti – il Paese più militarizzato al mondo – affinché questo si senta “più sicuro”. (Acheson 2019b).
Questa logica insiste sul concetto che gli Stati siano sempre in contrasto tra loro, piuttosto che perseguire collettivamente un mondo in cui l’interdipendenza reciproca e la cooperazione possano guidare il comportamento attraverso un insieme integrato di interessi, bisogni e obblighi comuni (Acheson 2019a). Le femministe contestano che la sicurezza “posseduta o garantita dallo Stato… È un processo: immanente nelle nostre relazioni con gli altri e sempre parziale, sfuggente e contestato.” (Duncanson e Eschle 2008, 15). La sicurezza non è un oggetto o un risultato: è un processo che dipende dalle interazioni di molte parti in movimento. La sicurezza non può essere raggiunta attraverso l’armamento, ma attraverso le nostre relazioni reciproche e con il nostro ambiente – e queste, come noi, cambiano sempre. “Come viviamo, come ci organizziamo, come ci impegniamo nel mondo – il processo – non solo inquadra il risultato, è la trasformazione”, scrivono la studiosa Michi Saagiig Nishnaabeg e l’attivista Leanne Betasamosake Simpson (Simpson 2017, 19).
Decostruire e ricostruire la normatività
Per abolire le armi nucleari, dobbiamo svalutarle. Il femminismo, insieme all’esperienza e all’attivismo queer e indigeno, è essenziale per il processo di decostruzione e ricostruzione di ciò che è considerato normativo riguardante le armi nucleari. Dobbiamo privilegiare le voci e le prospettive di coloro che, di solito, sono trascurate, dobbiamo cambiare le prospettive su ciò che è realistico e razionale, e dobbiamo offrire modi alternativi per organizzarci e impegnarci nelle relazioni della società internazionale.
La scrittura femminista, queer e indigena tenta di interrompere lo status quo e costruisce qualcosa al suo posto, sfidando ciò che è considerato normativo e credibile. Questi approcci forniscono tre strumenti tangibili, utili per resistere e abolire le armi nucleari: cambiare le conversazioni in corso; cambiare la posizione di queste conversazioni e diversificare la partecipazione a queste conversazioni.
Cambiare la conversazione ci aiuta a decostruire, distruggere e cambiare i quadri normativi di pensiero e azione. Nel suo studio innovativo sul genere, la studiosa femminista queer Judith Butler (1999, xxiii) sostiene: “la conoscenza naturalizzata del genere opera nella forma di una delimitazione preventiva e violenta della realtà.”. Nella sfida al potere, Butler suggerisce che non dobbiamo solo criticare gli effetti delle istituzioni, delle pratiche e dei discorsi che i potenti creano – dobbiamo chiederci quali possibilità emergano quando sfidiamo le affermazioni di ciò che è normativo, e sfidiamo ciò che nelle concezioni tradizionali è considerato terreno comune o realtà assoluta. “Nessuna rivoluzione politica è possibile senza che si sposti radicalmente la nozione che ognuno e ognuna ha di ciò che è reale e di ciò che è possibile”, dice Butler (1999, xxiii).
Un’analisi femminista, queer e antirazzista nel discorso nucleare aiuta a decostruire le armi nucleari come simboli del potere e strumenti dell’impero.
L’associazione tra armi nucleari ed emblemi del potere non è inevitabile e immutabile, ma una costruzione sociale di genere che sostiene un ordine patriarcale, razzista e capitalista. Il disarmo nucleare inizia quando viene evidenziato come il valore delle armi nucleari sia socialmente costruito (Acheson 2016).
Sfidare il discorso normativo è utile anche quando si cambia il luogo in cui si svolgono queste discussioni. Lu attivistu queer e le persone indigene hanno lanciato sfide alle concezioni e agli ordinamenti sociali dominanti in materia di sessualità, genere, diritti, razza e cittadinanza, non solo attraverso i tribunali e le altre istituzioni sociali dei potenti, ma anche attraverso vere e proprie sfide a tali istituzioni. Per esempio, per alcunu attivistu queer non è sufficiente che i diritti LGBT siano “riconosciuti” o “tollerati” dalle società etero-sessiste quando le vite queer vengono distrutte e sminuite in vari modi. L’assimilazione rischia di permettere alle persone privilegiate dei gruppi marginali di accedere allo status quo, mentre la parte vulnerabile di queste comunità continuerà ad essere stigmatizzata e oppressa (Cohen 1997). “Le lotte queer mirano non solo alla tolleranza o all’uguaglianza di status, ma a sfidare le stesse istituzioni e norme”. (Warner 1993, XIII).
Questo può offrire un approccio basato non sull’integrazione nelle strutture dominanti, ma sulla trasformazione “del tessuto di base e delle gerarchie che permettono ai sistemi di oppressione di persistere e operare in modo efficiente.” (Cohen 1997, 437).
Allo stesso modo, alcunu attivistu indigenu sostengono che non è sufficiente per le comunità indigene ottenere certi diritti su certe terre dai governi coloniali che hanno condotto campagne di genocidio contro di loro. Essi combattono per le tutele e i diritti ambientali come cittadini delle Prime Nazioni e non degli Stati che continuano a rubare, stuprare, uccidere e distruggere i loro corpi, la terra e l’acqua con cui vivono (Driskill et al. 2011; Estes 2019).
Lu attivistu e lu studiosu indigenu riconoscono che i sistemi istituiti dallo Stato coloniale colonizzatore etero-patriarcale non sono sistemi in cui chi cerca protezione dalla violenza insita in tali strutture la riceverà. All’interno di questi parametri e spazi, lo Stato coloniale colonizzatore dominerà sempre le interazioni con le popolazioni indigene.
Come scrive Simpson (2017, 45):
“Lo Stato stabilisce diversi punti di interazione controllati attraverso le sue pratiche … e usa il suo potere asimmetrico per assicurarsi di controllare sempre i processi come un meccanismo per la gestione del dolore, della rabbia e della resistenza indigena, e questo assicura che il risultato rimanga coerente con il suo obiettivo di mantenere l’espropriazione.”
Gli Stati dotati di armi nucleari utilizzano processi simili per mantenere il controllo e il dominio sulle questioni legate alle armi nucleari. Diplomatici e attivisti si entusiasmano per una rara riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sulle armi nucleari, ma gli spazi tradizionali in cui si svolgono le interazioni internazionali sulle armi nucleari – come le riunioni del Trattato di non proliferazione e la Conferenza sul disarmo – sono regolati e non mettono in discussione il potere di chi possiede la bomba.
Allo stesso modo, i metodi con cui uno Stato coloniale colonizzatore può cercare di promuovere e narrare la cultura indigena come il “mosaico multiculturale” del Paese – senza mettere in discussione l’espropriazione su cui si basa l’istituzione statale -, ricorda la maniera di quegli Stati dotati di armi nucleari e dei loro alleati quando invocano la “costruzione di ponti” e il “dialogo”, sostenendo fondamentalmente che le persone radicali contrarie alle armi nucleari devono calmarsi e rimettersi in riga.