Traduzione dall’articolo originale “Extraerán litio en 500 mil hectáreas de la Patagonia: saqueo, contaminación y beneficios miserables para las provincias”
di Lola Sanchez
È stato recentemente confermato che una società canadese inizierà l’esplorazione nel territorio patagonico con l’intenzione di sfruttare il litio [- precisamente] su una superficie di quasi 500.000 ettari distribuiti tra Río Negro, Neuquén e Chubut. L’industria del litio, arrivata in Argentina negli anni ’60 [grazie alle] multinazionali, non solo è caratterizzata da una tecnologia innovativa e concentrata nel “Triangolo del litio” (Argentina, Cile e Bolivia), ma è anche un’industria estrattiva che ha un impatto ambientale e sociale sui territori a cui lascia solo le briciole dei suoi profitti milionari. La sua domanda è in crescita grazie all’utilizzo delle batterie per i dispositivi elettronici e i veicoli. Si stima che questi tre Paesi rappresentino circa l’80% delle riserve mondiali di salamoia di litio.
La società canadese “Green Shift Commodities” opererà nell’area delimitata in collaborazione con le aziende locali “Formentera SA” ed “Electric Metals SA”, due società che realizzano progetti minerari in altri territori del Río Negro. La sede operativa del progetto sarà situata nella città di Mamuel Choique, nel dipartimento del Rio Negro di Ñorquincó.
Cosa succederà con un’industria fortemente estrattiva che espropria i territori ancestrali in una provincia che porta avanti, per l’appunto, rivendicazioni ambientali e indigene di lunga data? La resistenza delle popolazioni indigene e delle assemblee nel nord dell’Argentina forniscono indizi su come questo mega-progetto potrebbe avere un impatto su un territorio fortemente segnato dalle lotte ambientali come la Patagonia.
Già da diversi anni esistono progetti a Salta, Jujuy e Catamarca. La prima esperienza nel Sud [della Patagonia] si svilupperà su un’area di quasi 500.000 ettari distribuita tra Río Negro, Chubut e Neuquén, nelle mani della società canadese “Green Shift Commodities”.
I progetti che già funzionano nel Paese registrano enormi profitti per le multinazionali, mentre prevedono un “profitto” davvero misero e non superiore al 3% per le province.
La sua applicazione è dibattuta tra la critica al saccheggio delle multinazionali e l’opportunità di sviluppo tecnologico per il Paese. Tuttavia, anche coloro che difendono l’industria come una porta verso il futuro, riconoscono le notevoli lacune relative all’impatto ambientale e all’asimmetria di potere tra aziende e comunità, con uno Stato che non si è ancora posto come interlocutore e difensore dei diritti [delle popolazioni native].
Ad oggi, appare come un’industria promettente solo per le aziende straniere, senza alcun progetto di sovranità su una risorsa molto richiesta. Il modello è lo stesso in tutta l’Argentina: quindi la Patagonia non vedrà cambiamenti significativi nell’estrazione.
Se verrà realizzato, sarà il primo progetto di [estrazione di litio da roccia] avviato in Argentina. Sebbene riduca al minimo il rischio di intaccare la falda acquifera – a differenza dell’estrazione in salamoia – è più costosa e rappresenta un tipo di modello di estrazione mineraria che è stato ampiamente respinto in Patagonia a causa del suo impatto ambientale e sociale.
Storia recente di un’industria
Il litio viene utilizzato in una varietà di prodotti in diverse aree industriali. Gli impieghi più comuni riguardano la ceramica, il vetro e le applicazioni mediche. Negli ultimi anni, la sua domanda è cresciuta grazie all’impiego nelle batterie agli ioni di litio, utilizzate nei piccoli dispositivi elettronici come i telefoni cellulari – anche se può essere utilizzato anche per la produzione di batterie per auto elettriche e ibride.
La sua espansione nel Paese è iniziata con il boom minerario degli anni Novanta. Nel 1993 è stata approvata la Legge sugli investimenti minerari n. 24.196, che offriva una serie di misure vantaggiose per gli investitori. In generale, le norme legali sono ancora in vigore, ad eccezione delle recenti norme sulla consultazione libera, preventiva e informata delle comunità, sugli studi di impatto ambientale e sulla partecipazione attiva delle popolazioni indigene, anche se si tratta di elementi raramente rispettati nella pratica.
Il litio viene estratto in Argentina dal 1997, quando è stato avviato il progetto Fénix nelle saline di Hombre Muerto (Catamarca). La domanda globale di questo minerale ha portato, negli ultimi anni, ad un’espansione delle esplorazioni da parte di aziende canadesi, cinesi e indiane nel Paese.
Secondo i dati della Direzione dell’economia mineraria, nel 2016 l’Argentina è stata la produttrice di litio più dinamica al mondo e la sua produzione è aumentata dell’11% sul mercato globale. Con l’avvio delle operazioni del progetto “Sales de Jujuy” nel Salar de Olaroz – che quell’anno ha rappresentato il 6% della produzione globale di litio – il settore è cresciuto in modo esponenziale.
L’interesse per gli investimenti nel settore è cresciuto in seguito all’eliminazione di una tassa sulle esportazioni nel 2016, tanto che a Marzo 2017 si stimavano 42 progetti in depositi di salamoia (salares) e altri cinque in depositi di pegmatite-lepidolite (roccia).
Il suo consolidamento come industria è stato nel 2011 quando l’allora presidente Cristina Fernández de Kirchner ha creato un gruppo di lavoro per promuovere la ricerca scientifica e tecnologica sul minerale. La produzione era finalizzata, tra l’altro, alla fornitura di batterie per i netbooks del programma “Conectar Igualdad”.
Nel 2012, YPF ha creato la sotto-società Y-TEC insieme al CONICET, con l’obiettivo di rafforzare il processo di industrializzazione dell’estrazione del litio. Da allora, le strategie aziendali e scientifiche intorno all’oro bianco non hanno smesso di crescere.
Argentina, più sciocca di Bolivia e Cile
Gli scenari politici ed economici del Triangolo del Litio variano da paese a paese. In Cile, lo Stato stipula un contratto di sfruttamento, poiché il litio è una risorsa strategica. In Bolivia, le società di sfruttamento sono statali. In Argentina, invece, vige un modello di concessione libera che gli è valso numerose critiche da parte di attivistu, scienziatu e avvocatu in materia ambientale.
La produzione di litio è regolata da tre leggi: l’articolo 124 della Costituzione Nazionale, che stabilisce che le risorse appartengono alle province, il Codice Minerario, promulgato nel 1887 e riformato nel 1997, e la Legge sugli Investimenti Minerari, normata nel 1993. Quest’ultima, regola l’attività e offre una struttura che avvantaggia le imprese del settore: conferisce stabilità fiscale per un periodo di 30 anni, riduce le imposte e toglie le ritenute all’attività mineraria (a partire dal Decreto 349/2016 di Maurizio Macri).
Tuttavia, gli impatti locali dell’estrazione del litio sono stati presi troppo poco in considerazione, in funzione dei diritti umani e della sostenibilità sociale e ambientale dei progetti.
Si possono citare diversi trattati e convenzioni che registrano queste violazioni nell’industria mineraria e del litio: la Convenzione 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) sulle popolazioni indigene e tribali, la Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti delle popolazioni indigene (DNUDPI) o linee guida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), tra gli altri.
Attualmente, l’Argentina si posiziona come esportatrice di materie prime nell’industria del litio, con destinazione Stati Uniti, Cina e Giappone. Una delle richieste è che il paese possa nazionalizzare un’industria con un’alta richiesta e iniziare ad esportare tecnologie.
Sguardo legale
L’avvocata ambientalista Alicia Chalabe è rappresentante delle comunità di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc (Jujuy). Da oltre un decennio accompagna le comunità originarie che rivendicano il loro diritto alla consultazione libera, preventiva e informata nei territori di sfruttamento [minerario].
“Abbiamo iniziato molti anni fa, quando sono iniziate le esplorazioni a Salinas Grandes. Siamo andati alla Corte Suprema chiedendo che si utilizzasse la consultazione in ogni decisione presa nel territorio”, ricorda in un’intervista a questo giornale online. “È stata data come eventualità. C’è una Cooperativa Mineraria di Salinas, composta da membri delle comunità, in cui estraggono e lavorano il sale. Sono arrivati degli investitori che volevano comprare il sedimento per una grossa somma di dollari. Le comunità, in quel momento, furono allertate, dissero di no, e cominciarono a riunirsi. Si è formato il gruppo di comunità per andare alla Corte e utilizzare il diritto di consultazione”, ha spiegato.
“L’articolo 124 della Costituzione afferma che le risorse del sottosuolo appartengono alle province. La regolamentazione per la concessione mineraria, la concessione di permessi di esplorazione e l’esplorazione stessa appartengono alla provincia. Ma se lo Stato non obbliga le imprese a svolgere le procedure di consultazione, queste non lo fanno”, sottolinea.
Ha ritenuto che il governo provinciale di Jujuy “non ha alcun interesse a proteggere i diritti delle comunità”, e ha ricordato che “è responsabilità dello Stato mettere in atto i meccanismi necessari per i diritti indigeni”. “Questo è stato denunciato dal relatore per i diritti indigeni dell’ONU, James Anaya, nel 2015, dove ha parlato della mancata attuazione dei diritti indigeni in Argentina. I diritti sono normati [ma] non attuati”, ha aggiunto.
Consultata sui profitti che vanno alla provincia, ha specificato che il beneficio formale che si può controllare sono le royalties minerarie, corrispondenti al 3%, o all’1,6% nel caso di Jujuy: “Accanto a quanto vale la tonnellata di carbonato di litio, è nulla”. D’altra parte, ella rileva che vi sono “vantaggi particolari delle imprese con le comunità in modo diretto, sotto forma di prevendita, di corrispettivi. È qui che entra in gioco l’area sociale che le aziende hanno creato proprio per rendere più amichevole lo sfruttamento che portano avanti”.
Il richiamo dell’occupazione
Come in alcune regioni della Patagonia dove si è cercato di attuare o si sono già attuati dei progetti minerari, nel Nord sono comuni i discorsi che promettono posti di lavoro nelle imprese, un fattore chiave nell’accettazione sociale delle attività che portano avanti.
“Nel caso di Olarov, lo sfruttamento viene portato avanti in una zona dove vivono nove comunità indigene, che hanno concordato con l’azienda diversi punti e accordi che hanno fatto”, nota Chalabe. “Il mito dell’occupazione è messa a nudo: per la quantità di risorse esportate e i profitti alle imprese, il numero di occupabilità è irrisorio”, afferma.
Chalabe sottolinea la responsabilità statale nella mancanza di richieste di studi ambientali al settore imprenditoriale: “Le aziende portano avanti lo sfruttamento con gli studi richiesti dalla provincia e che stabilisce il quadro normativo per tali fondi”. Normativa che non prevede studi ambientali esaustivi.
“Ricordiamo che la valutazione d’impatto ambientale che si fa non è di impatto cumulativo né strategico, non si può sapere quale impatto avranno più progetti in un territorio, si valuta individualmente. Non viene effettuata una valutazione completa nel vedere la capacità di carico dell’acqua e di estrazione in un territorio. Olarov, ad esempio, è una spoliazione, è impraticabile”, aggiunge.
Jujuy: preoccupazione per l’uso dell’acqua e profitti che vanno all’estero
Jujuy è un caso paradigmatico che evidenzia l’impatto sociale e ambientale dell’industria del litio quando non è regolamentata da rigide normative di protezione sui diritti.
Attualmente, ci sono diverse aziende straniere che si sono installate nella puna jujeña per sfruttare il minerale: Orocobre (Australia), Toyota (Giappone), Exar (Canada e Stati Uniti), Lithium Ameria Corp, Ganfeng lithium (Cina) sono alcune. Inoltre, sul territorio opera JEMSE (Jujuy Energia y Minería Sociedad del Estado), di carattere statale.
In generale, le comunità concordano sulla mancanza di previa consultazione delle persone residenti nei territori sfruttati e sulla mancanza di informazioni precise sulle attività che vi si svolgono.
L’acqua dolce in pericolo
Clemente Flores fa parte della comunità indigena Del Angosto (distretto El Moreno, dipartimento di Tumbaya) nella puna jujeña. Da oltre dieci anni guida la lotta per il riconoscimento dei diritti dei popoli indigeni nelle zone di sfruttamento.
“La lotta è lunga, da tempo lavoriamo sul tema del litio”, commenta a “El Extremo Sur”, “per ora poche persone nelle comunità sanno cosa sia il litio. Sanno che è per le batterie, ma non è solo per quello”.
Chiarisce che la preoccupazione principale è per l’acqua dolce, “perché hanno bisogno di estrarre le salamoie che stanno nel sottosuolo, le quali vengono pompate fino alle piscine, fatte evaporare con calce viva e lasciate lassù”, e sottolinea che la produzione di litio consuma grandi quantità di risorse idriche.
“La lotta viene dal 2010. Alcuni progetti sono andati avanti, ma altri si sono fermati. Nel bacino di Salinas non sono ancora entrati, ma si stanno avvicinando. Hanno indetto una gara d’appalto di 8mila ettari. Siamo lì a resistere, con mobilitazioni”, commenta.
A seguito del lavoro svolto con le comunità della regione è nato il Kachi Yupi, un protocollo di consultazione che evidenzia i punti più rilevanti della normativa vigente in materia di consultazione preliminare, libera e informata nei casi di progetti estrattivi, in linea con la Convenzione 169 dell’OIL.
“Vogliamo che le aziende dicano cosa faranno con il territorio, decidere se vogliamo o meno sacrifici. Abbiamo già visto in alcune zone, da dove stanno estraendo il litio, che la gente non ha pecore, non ha lama, non ha nemmeno la salina, è tutto dell’azienda”, racconta Flores.
Questo dato non è solo un’impressione soggettiva. Lo condividono altri abitanti della regione e ci sono studi scientifici che dimostrano l’imminente “rischio idrico” e le “conseguenze irreparabili” per la provincia, legate all’industria dell’ “oro bianco”.
Ciò figura nelle conclusioni di uno studio elaborato dalla Fondazione Ambiente e Risorse Naturali (FARN).
L’impatto sociale ed economico
Oltre all’impatto ambientale, vi è un impatto socio-economico ineludibile sulle comunità colpite.
La comunità di Huancar (situata nella provincia di Jujuy, a 25 chilometri da Susques, con una popolazione di 130-300 persone) si sostiene, storicamente parlando, grazie all’allevamento e all’artigianato. Ma l’arrivo del litio sul territorio ha influenzato lo schema delle attività economiche. Attualmente, si stima che gran parte della popolazione abbia un lavoro legato all’estrazione mineraria.
Nella località di Pastos Chicos (con una popolazione di 250 persone, situata a 50 chilometri a sud di Susques) le attività economiche tradizionali sono l’allevamento, l’agricoltura su piccola scala e l’artigianato. Ma negli ultimi anni, un gruppo numeroso di uomini della comunità ha ri-orientato il suo lavoro verso le società di estrazione del borato. Durante gli anni ’90, la chiusura di diverse miniere ha causato una drastica perdita di posti di lavoro, che ha spinto a migrare verso città e paesi più grandi.
Flores fa riferimento anche alla vecchia promessa di questo tipo di progetti sull’occupazione: “Ci sono progetti che non sono ancora entrati perché abbiamo fatto molto rumore sulla stampa nazionale e internazionale. Ma in altri, hanno l’approvazione della comunità perché hanno fatto sì che i giovani iniziassero a lavorare in aziende, dando loro un salario, un lavoro… fanno lavorare la gente”.
Lo studio di FARN ha intervistato una decina di abitanti e ha rilevato una marcata differenza dei punti di vista della popolazione verso le aziende di litio: da un lato, un gruppo si concentra sulle opportunità di lavoro, mentre un altro si preoccupa principalmente degli impatti dell’estrazione del litio nell’ambiente.
“Così, le loro aspettative per il prossimo futuro sono diverse a seconda della loro attenzione per l’occupazione o gli impatti ambientali”, chiarisce lo studio.
Anche se spesso danno lavoro ai cittadini dei territori sfruttati, l’esperienza dei progetti minerari nel paese dimostra che si tratta di opportunità transitorie.
“Il Progetto Chinchillas è iniziato nel 2000. La gente ha iniziato a lavorare, si diceva fosse per 30 anni. Nel 2007 è stato chiuso. E ora siamo preoccupati per l’impatto ambientale, per come hanno lasciato il territorio”, afferma Flores.
Non c’è più niente nelle province
Inoltre, il profitto collettivo è esiguo rispetto ai profitti delle multinazionali: “Pensando a quanto costa una tonnellata d’oro, e sapendo che [ne vengono estratte] circa 200mila tonnellate, ci chiediamo dove sia il denaro. Non siamo economisti, ma vediamo che quel profitto non è qui. Le imprese prendono tutto e non rimane niente nella provincia”, esprime Flores.
Alla domanda sulle azioni del governo di Gerardo Morales nel proteggere i diritti degli abitanti, Flores sostiene che “dicono che lo stanno facendo, ma non è così”. E racconta che gli abitanti non percepiscono nemmeno i benefici dell’industria: “Abbiamo un Parco Solare nella Puna e i popoli usano i gruppi elettrogeni”.
“Quando parliamo di consultazione, c’è sempre la questione delle imprese, non dello Stato. Ed è un obbligo statale assicurare la consultazione [con i popoli nativi], non con le imprese”, ha rimarcato.
Per quanto riguarda le alternative più sostenibili per estrarre il litio, Flores riconosce che ci sono dibattiti, ma non ci sono progetti futuri: “Dicono che si può fare senza acqua, ma sono commenti e nulla è reale. Non ci sono progetti. Se non abbiamo nulla, non possiamo sostenere che sia possibile estrarre litio senza acqua”.
Il futuro di Chubut
Anche se non si sa esattamente come andranno i progetti in Patagonia, l’avvocata Chalabe spiega che “il modello che si ripete nel paese è lo stesso, ci sono vani tentativi di nazionalizzare il litio e di dichiararlo risorsa strategica per il paese, ma per la riforma della Costituzione del 1994, la decisione di sfruttamento è delle province”.
“Ci sono situazioni che si verificano in ogni provincia, e ha a che fare con la decisione che prende ognuna di esse; ma vedo un consenso [unanime] nello sfruttare Mansalva per ottenere risorse”, descrive e mette in discussione questa idea: “Noi non vogliamo mettere a rischio l’acqua, crediamo che l’acqua valga più del litio, i popoli non vogliono essere zone di macellazione. Vogliamo che si discuta di questo: l’idea fallace -basata su premesse false- che il litio sia per tutti”.
“È sempre possibile pensare ad altri scenari”, sostiene Chalabe di fronte ai discorsi che cercano di posizionare l’industria del litio come un’opportunità strategica, “ma oggi la realtà è che se il quadro normativo non cambia, le aziende non devono rispettare altre premesse”.
“L’azienda va, presenta i suoi documenti come richiede la provincia e secondo il procedimento legale, e, dopo essere stata approvata, inizia lo sfruttamento. Il problema è che oggi le comunità sono sempre invitate a conversare come terzi, come aggregati, come un altro punto di vista. Ma sono i proprietari del territorio, in senso giuridico, sono l’attore principale che si sta ignorando, le loro decisioni non possono mai essere un mero punto di vista”, ha concluso l’avvocata.