Perù: i morti per la repressione continuano ad aumentare

Traduzione dell’originale “Perú: las muertes por la represión no cesan”

Il sud andino è mobilitato e anche militarizzato. Con le ultime due vittime, salgono a 48 le persone uccise dall’inizio delle proteste, a Dicembre, in seguito all’impeachment da parte del Congresso dell’ex presidente Pedro Castillo.

Le morti dovute alla repressione in Perù non si fermano. Mercoledì sera (11 Gennaio, ndt) è stata resa nota la morte di un leader contadino nella regione andina di Cusco a causa di un colpo di pistola al petto durante le proteste antigovernative. Questo giovedì (12 Gennaio, ndt), a Juliaca, una città sugli altopiani della regione di Puno, a sud di Cusco, è stata confermata la morte di uno dei feriti durante la repressione a colpi di arma da fuoco di lunedì (9 Gennaio, ndt), che ha scosso la città e il Paese. È un adolescente di 15 anni a cui hanno sparato alla testa. Sale così a 18 il numero di persone uccise a Juliaca, tutte con proiettili di armi da fuoco. Questi decessi portano a 48 il numero di morti, 47 civili e un poliziotto, da quando le proteste sono iniziate a Dicembre in seguito all’impeachment da parte del Congresso dell’ex presidente Pedro Castillo. Dei 47 civili uccisi, 41 sono stati colpiti dalla polizia e dall’esercito. I feriti sono più di 600. Cifre terrificanti.

Giovedì (12 Gennaio, ndt) il Congresso ha approvato la formazione di una commissione per indagare sulle morti durante le proteste, con 71 voti a favore, 45 contrari e un’astensione. Il Fujimorismo e altri legislatori di estrema destra si sono opposti. Data l’entità delle prove di una repressione che ha preso di mira i manifestanti, i legislatori di centro-destra e di destra che sostengono il governo hanno appoggiato la creazione di questa commissione d’inchiesta. Questa indagine parlamentare si aggiunge a quella avviata due giorni fa dalla Procura della Repubblica.

Il sud andino

Le mobilitazioni popolari sono proseguite giovedì, concentrate soprattutto sulle Ande meridionali, dove è in corso uno sciopero a tempo indeterminato. Ci sono state manifestazioni contro il governo e il Congresso a Cusco, Juliaca, Tacna, Abancay, Apurímac, Arequipa, Lima e in altre località. A Espinar, nella provincia di Cusco, i manifestanti sono entrati nel campo minerario della compagnia “Antapaccay” e hanno bruciato due veicoli. Ottanta blocchi stradali sono stati segnalati in 10 delle 25 regioni del Paese, soprattutto nel sud. Le comunità contadine mobilitate svolgono un ruolo centrale in queste proteste. Il Sud andino è militarizzato. Nella regione di Puno vige il coprifuoco dalle 20 alle 4 del mattino.

Al momento di chiudere questo articolo, nel centro di Lima stava iniziando una manifestazione con le stesse richieste delle proteste che hanno paralizzato il sud del Paese: le dimissioni della presidente Dina Boluarte, la punizione dei responsabili delle morti causate dalla repressione, la chiusura del Congresso a maggioranza di destra e l’anticipazione delle elezioni a quest’anno. Sotto la pressione popolare, le elezioni sono state anticipate dal 2026 all’Aprile 2024, ma si chiede che si tengano quest’anno. Hanno inoltre chiesto la convocazione di un’Assemblea Costituente per modificare la Costituzione nata dalla dittatura di Alberto Fujimori e la liberazione di Castillo.

Un grande striscione recitava “Che se ne vadano tutti. Carcere per gli assassini”. Si sono sentiti slogan che definivano Boluarte “assassina”. Studenti, sindacati, organizzazioni sociali, partiti di sinistra si sono uniti a questa mobilitazione che, al momento in cui scriviamo, quando stava iniziando era massiccia. La polizia ha circondato la Plaza de Armas, dove si trova il Palazzo del Governo, per impedire ai manifestanti di entrare. Hanno anche bloccato l’accesso al Congresso. Residenti di Puno, Cusco e altre regioni andine hanno annunciato che nei prossimi giorni si recheranno a Lima per unirsi alle mobilitazioni nella capitale. Il governo ha minacciato una maggiore repressione e di bloccarli.

Mentre questa massiccia mobilitazione è iniziata a Lima, nella città di Cusco, polizia e abitanti si sono scontrati nei pressi dell’aeroporto. L’area è stata ricoperta di gas lacrimogeni. Si sono sentiti degli spari. I manifestanti hanno risposto alla polizia lanciando pietre. L’aeroporto di Cusco, il principale centro turistico del Paese, è stato chiuso. Mercoledì (11 Gennaio, ndt), uno scontro tra polizia e manifestanti nello stesso luogo ha provocato un morto e più di cinquanta feriti. Il leader contadino Remo Candia, 50 anni, è stato colpito al petto mentre partecipava alla protesta di massa a Cusco. È stato soccorso dai suoi compagni e portato in ospedale, dove è stato sottoposto ad un intervento chirurgico d’urgenza, ma è morto più tardi nella notte. La polizia ha attaccato i manifestanti quando hanno imboccato la strada che porta all’aeroporto. Le autorità sostengono che l’obiettivo era quello di conquistare l’aeroporto, giustificando così l’intervento della polizia. Lo scontro è durato diverse ore. Oltre alla morte del leader Candia, 55 persone sono rimaste ferite, 16 delle quali da proiettili di armi da fuoco.

Due sono rimasti gravemente feriti. Sei poliziotti sono rimasti feriti quando sono stati colpiti da pietre e altri oggetti.

La dura repressione della polizia nei confronti dei manifestanti nella città di Cusco si è verificata nello stesso momento in cui nella vicina città di Juliaca decine di migliaia di persone sono scese in piazza per rendere omaggio alle 17 persone uccise lunedì (9 Gennaio, ndt) – cifra che ora è salita a 18 – dagli spari delle forze di sicurezza. Hanno portato le bare dei morti al grido di “assassini” e “giustizia”. Portavano bandiere peruviane, la wifala e bandiere nere in segno di lutto. Nella piazza principale della città, gremita di folla, è stato reso omaggio alle vittime della repressione. Molti dei deceduti sono stati poi trasportati nei loro villaggi – da dove erano venuti a Juliaca per partecipare alle proteste. Quattro civili feriti a Juliaca sono stati portati a Lima, tutti con ferite da proiettile, presumibilmente da pallini di metallo, alla testa, tre nella zona degli occhi e uno con il cranio fratturato.

Durante il numeroso tributo ai loro morti, la popolazione di Puno ha accettato di continuare le proteste e lo sciopero regionale. “Non possiamo avere pace quando non ci hanno mai trattato come cittadini, ci hanno stigmatizzato (come terroristi e finanziati dai narcotrafficanti, le accuse che il governo e la destra hanno lanciato contro i manifestanti). Andiamo a Lima. Lo sciopero continua, qualsiasi cosa accada”, ha dichiarato Aurelio Medina, un lavoratore dei trasporti. Il negoziante Cornelio Condori ha assicurato che l’obiettivo è quello di chiedere le dimissioni di Boluarte: “Qui siamo fermi e non revocheremo lo sciopero a tempo indeterminato finché Dina Boluarte non si dimetterà. Hanno ucciso e questo non può restare così. Non c’è modo di dialogare dopo tanti morti”.

L’Assemblea dei Governi Regionali, che riunisce i governatori delle 25 regioni del Paese, ha chiesto un’indagine sui morti durante le proteste e la punizione dei responsabili. Hanno chiesto per quest’anno le elezioni generali. I governatori di Puno, Cusco e Apurimac hanno chiesto le dimissioni della presidente. In un comunicato intitolato “Stop ai massacri”, il Coordinatore nazionale per i diritti umani afferma che il governo Boluarte ha dimostrato “un totale disprezzo per la vita” e sostiene che la presidente e i suoi ministri dovranno assumersi “la responsabilità politica e penale di questo massacro”.

Dopo una riunione del Consiglio dei ministri giovedì (12 Gennaio, ndt), il capo di gabinetto Alberto Otárola ha ribadito che la presidente non si dimetterà. Ha dichiarato di dispiacersi per le morti, ma ha nuovamente difeso le forze di sicurezza e criminalizzato i manifestanti. Con più di quaranta civili e un poliziotto morti, Otárola ha cercato di giustificare la repressione dicendo che la polizia era stata attaccata e si era difesa. Il governo continua a puntare sulla repressione come carta principale. Ma gli oltre quaranta morti e i seicento feriti causati dalla repressione, lungi dall’intimidire i manifestanti, hanno ulteriormente acceso l’indignazione e le proteste popolari.

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