La regina e il Commonwealth: un’eredità di dominazione e oppressione imperialista

Fotografia della regina Elisabetta II e dei leader del Commonwealth, scattata alla Conferenza del Commonwealth del 1960, Castello di Windsor Prima fila: (da sinistra a destra) EJ Cooray, Walter Nash, Jawaharlal Nehru, Elisabetta II, John Diefenbaker, Robert Menzies, Eric Louw. Dietro: Tunku Abdul Rahman, Roy Welensky, Harold Macmillan, Mohammed Ayub Khan e Kwame Nkrumah

Traduzione dall’originale The queen and the Commonwealth: A legacy of imperialist domination and oppression



Alcune delle più grottesche distorsioni storiche e delle bugie messe in giro dopo la morte della Regina Elisabetta II riguardano la sua presunta cura e compassione per i cittadini del Commonwealth.

Tali affermazioni sono state accompagnate da filmati delle sue numerose visite in Africa, nell’India, nel Pakistan e, più occasionalmente, in Canada e in Australia, distribuendo strette di mano e saluti alle folle acclamanti e incontrando vari e grandi e bravi capi di Stato.

Si ha l’impressione che il Commonwealth sia un’istituzione benefica, in cui la monarca si è confrontata con i leader, i cittadini e i suoi stessi “sudditi” all’interno di un’entità che conta 56 nazioni – sempre con il sottile suggerimento che un essere così superiore, proveniente da una nazione enormemente superiore, stesse facendo un favore monumentale a tutti coloro che la incontravano.

Comprendere le reali motivazioni della defunta regina in questi viaggi e il suo costante “affetto” verso il Commonwealth, significa comprendere la reale funzione di un’istituzione costituita in gran parte da ex possedimenti coloniali, utilizzata dall’imperialismo britannico per rafforzare la sua posizione debole – ma spacciata come grande potenza – sulla scena mondiale.

La Gran Bretagna era uscita dalla Seconda Guerra Mondiale definitivamente eclissata dagli Stati Uniti. Era in bancarotta e incapace di mantenere il suo esteso impero. Insieme alla Francia, ai Paesi Bassi e a tutte le potenze imperialiste, la borghesia britannica temeva che un’insorgenza rivoluzionaria nelle colonie si sarebbe unita al movimento della classe operaia in Europa, minacciando l’intero tessuto del dominio capitalista.

Gli Stati Uniti, sicuri della loro capacità di dominare il mondo e i mercati con la forza economica e militare, insistettero su un cambiamento di approccio nei confronti dei Paesi coloniali: l’autogoverno avrebbe sostituito il dominio coloniale diretto. Questa politica è stata inserita nelle Nazioni Unite, appena costituite, che hanno fornito una copertura internazionale ai dettami dell’imperialismo statunitense.

La concessione di un’indipendenza nominale alle borghesie nazionali fu una parte essenziale degli accordi postbellici con cui l’imperialismo riuscì a stabilizzarsi per oltre 40 anni. I regimi borghesi appena insediati, hanno sistematicamente represso lo sviluppo di una lotta rivoluzionaria indipendente da parte della classe operaia e hanno assicurato la subordinazione delle loro economie agli imperativi del mercato mondiale – dominato dallo stesso manipolo di potenze imperialiste che li avevano direttamente governati.

La Gran Bretagna e la Francia furono costrette a concedere l’indipendenza alle loro colonie, in alcuni casi sulla base di un calendario che andava da pochi anni a un decennio; in altri casi solo dopo sanguinose guerre coloniali, come quelle combattute dai francesi in Algeria (e in Vietnam, ndt) e dagli inglesi in Kenya e Malaysia.

Nella sua trasmissione del Natale 1953, la Regina ha definito il Commonwealth come una famiglia di nazioni che “non ha alcuna somiglianza con gli imperi del passato. È una concezione completamente nuova, costruita sulle più alte qualità dello spirito dell’uomo: amicizia, lealtà e desiderio di libertà e pace. A questa nuova concezione di una partnership paritaria tra nazioni e razze mi dedicherò anima e corpo ogni giorno della mia vita.

Il Commonwealth offrì molte opportunità per gare sportive, aiuti economici e visite reali, cementificando il sostegno della Gran Bretagna a dittature venali e mono-partitiche che proteggevano gli interessi commerciali britannici.

Ovunque il governo di Sua Maestà (HMG) avvertiva la minaccia per il suo interesse globale vitale, non esitava a rispondere con metodi illegali e disumani, compresa la tortura, come negli Stati membri del Commonwealth quali Aden, Cipro, Kenya, Malaysia, Uganda e Zimbabwe. Non esistono documenti che attestino l’opposizione della Regina a queste criminalità.

L’insurrezione Mau Mau
Uno dei crimini più noti fu la brutale repressione dell’insurrezione dei Mau Mau in Kenya negli ultimi giorni del dominio britannico. Iniziò poco dopo che l’allora Principessa Elisabetta lasciò il Kenya nel Febbraio 1952, quando seppe che suo padre Re Giorgio VI era morto – il suo battesimo di sangue come monarca britannica.

Seguendo la tradizione dell’Impero britannico di fronte al dissenso dei suoi ingrati sudditi, la Royal Air Force effettuò dei bombardamenti tra il 1952 e il 1956 che uccisero circa 11.503 combattenti Mau Mau (secondo le cifre ufficiali). Si trattava di una grossolana sottovalutazione, concepita per sminuire la brutalità, come sostiene la professoressa di storia di Harvard, Caroline Elkins, vincitrice del Premio Pulitzer per “Britain’s Gulag: The Brutal End of Empire in Kenya”; ella ha stimato che almeno 150.000 kenioti furono uccisi. In confronto, meno di 200 britannici persero la vita.

La promozione delle “più alte qualità dello spirito dell’uomo” di Elisabetta comportò la repressione della ribellione attraverso processi farsa e l’impiccagione pubblica di oltre 1.000 combattenti Mau Mau, punizioni collettive come la confisca su larga scala del bestiame, multe e lavori forzati, l’incendio di interi villaggi e il massacro dei loro abitanti civili.

Le autorità coloniali utilizzarono 25.000 truppe per ripulire la capitale Nairobi dai Kikuyu, che furono messi in recinti con filo spinato. In due settimane, 20.000 detenuti maschi furono inviati per essere interrogati, mentre 30.000 donne e bambini furono messi nelle riserve, per poi essere trasferiti in “villaggi protetti” militarizzati con coprifuoco di 23 ore. Più di un milione di abitanti delle zone rurali Kikuyu furono reinsediati con la forza in quelli che erano poco più che campi di concentramento.

Migliaia di persone – le stime variano tra le 80.000 e i 300.000 – sono state internate in una rete di prigioni e campi di lavoro forzato, dove sono state commesse atrocità su larga scala. I sospetti ribelli venivano trasportati con poco cibo e acqua e senza servizi igienici. Si sviluppò un brutale regime di interrogatori, che comprendeva percosse, fame, abusi sessuali e lavori forzati. Tra le persone torturate c’era anche il nonno dell’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Un ufficiale coloniale descrisse le condizioni dei campi di lavoro: “razioni ridotte, lavoro eccessivo, brutalità, trattamenti umilianti e disgustosi e fustigazione, il tutto in violazione della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni Unite”.

Le autorità revocarono la Emergency rule – che prevedeva la protezione legale per la sospensione di tutte le libertà personali e dava ampi poteri ai responsabili della repressione-, solo nel gennaio 1960, pochi anni prima dell’indipendenza del 1963. Il Segretario coloniale Oliver Lyttleton ritenne un reato capitale il possesso di “materiale incendiario”.

Che questa brutalità fosse una politica ufficiale sancita ai massimi livelli è stata insabbiata dal governo britannico per decenni, venendo alla luce solo dopo una battaglia legale durata 14 anni da parte dei veterani Mau Mau che chiedevano giustizia e un risarcimento per i maltrattamenti subiti. Un vasto archivio di fascicoli provenienti da 37 ex colonie, conservato presso Hanslope Park nel Buckinghamshire, è stato tenuto segreto per anni.

Dopo che nell’ottobre 2012 un tribunale ha stabilito che i veterani avevano il diritto legale di citare in giudizio il governo britannico e di chiedere scuse e risarcimenti, il governo ha accettato di discutere un accordo. Voleva evitare la prospettiva di ulteriori rivelazioni sulla brutalità dello Stato britannico nei confronti dei cittadini del Commonwealth, non solo in Kenya ma anche altrove in Africa e in Asia.

Apartheid in Sud Africa
I media hanno tentato di dare lustro alle credenziali umanitarie della regina, facendo riferimento al suo tanto vituperato scontro con il Primo Ministro Margaret Thatcher nel 1986 sul regime di apartheid del Sudafrica, esprimendo la preoccupazione che l’irremovibile rifiuto del governo britannico di imporre sanzioni al Sudafrica minacciasse la disgregazione del Commonwealth.

Quello che i media non hanno sottolineato è come la regina non si fosse opposta alla politica di apartheid del Sudafrica, messa in atto nel 1948 e proseguita sotto il suo regno. Continuò a governare come capo di Stato del Sudafrica fino al 1961, quando il Paese divenne una repubblica. Non si oppose nemmeno all’adesione del Sudafrica al Commonwealth. Il governo sudafricano si ritirò dall’organizzazione solo nel 1961, quando fu chiaro che la Conferenza dei primi ministri del Commonwealth avrebbe respinto la sua richiesta di adesione, considerando il Sudafrica come l’incarnazione del colonialismo a causa della segregazione razziale e del brutale sfruttamento dei lavoratori.

Nel 1986, la rivolta di massa dei giovani e dei lavoratori delle città impoverite del Sudafrica aveva portato il Paese alla guerra civile, spingendo gli investitori stranieri a ritirarsi, le banche internazionali a non concedere i loro prestiti, la valuta a crollare, la produzione economica a diminuire e l’inflazione a dilagare.

È stato questo a costringere le società diamantifere, aurifere e platinifere internazionali e sudafricane – di cui le entità statunitensi e britanniche detenevano quote importanti -, le banche e altre grandi società a concludere che solo Nelson Mandela, l’African National Congress (ANC) e i suoi partner (quali la Confederazione dei Sindacati Sudafricani (COSATU) e il Partito Comunista Sudafricano (SACP)) potevano fornire alla classe capitalista un salvagente politico. Mandela era in carcere dal 1964 a Robben Island. Senza il loro aiuto, il capitalismo non sarebbe potuto sopravvivere in Sudafrica e il suo crollo avrebbe potuto scatenare un’esplosione di conflitti politici e sociali in tutte le ex colonie delle potenze imperialiste.

Thatcher e il suo co-pensatore, il Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, sono stati gli ultimi grandi sostenitori internazionali del regime di apartheid sudafricano. La regina, nella misura in cui si oppose alla Thatcher, non aveva alcuna remora morale nei confronti dell’apartheid, come dimostrano i documenti.

Piuttosto, anche lei fu convinta dalla portata dell’opposizione di classe nel cambiare necessariamente tattica e perseguire l’unica strada politica che offriva una qualche possibilità nel difendere gli interessi economici e politici della Gran Bretagna nella regione.

Il Sudafrica fu riaccolto nel Commonwealth nel 1994, quando Mandela divenne presidente. Né lui, né l’ANC tradirono le speranze degli imperialisti. Negli ultimi 30 anni, i successivi governi dell’ANC, guidati da miliardari neri corrotti, hanno creato una società ancora più sfruttata e socialmente diseguale del regime di apartheid.

Il ruolo della Gran Bretagna in queste due esperienze critiche – se ne potrebbero citare molte altre – smonta il mito che la monarchia si preoccupi dei popoli del Commonwealth.

Tutto ciò non ha impedito a Patricia Scotland, membro del Consiglio Privato di sua Maestà nonché Segretaria Generale del Commonwealth delle Nazioni, di fare un elogio alla Regina, dicendo: “La visione di Sua Maestà per il Commonwealth all’inizio del suo regno si è realizzata, alimentata dalla sua dedizione e dal suo impegno”.

E non darà pausa a nessun commentatore politico che elogia cinicamente Elisabetta prima di rendere disponibile il proprio servizio al figlio ed erede Carlo III.

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