Traduzione per conoscenza fatta da Marta P.
Originale: “Maroc : les luttes sociales face à l’arrogance du régime autoritaire”
Intervista realizzata da Gilles Maufroy, CIEP-MOC Bruxelles, a Jawad Moustakbal – militante per l’associazione ATTAC/CADTM Marocco – dove si ripercorre la situazione sociale e politica nel paese e le prospettive dei movimenti popolari.
Movimenti (M): Puoi ricostruire le caratteristiche essenziali del regime politico marocchino?
Jawad Moustakbal (JM): Il sistema politico in Marocco è una monarchia in cui tutti i poteri sono concentrati nelle mani del re: legislativo, esecutivo, giuridico, polizia, esercito, etc. Il re presiede il consiglio dei ministri. Il fulcro delle decisioni strategiche, sul piano politico ed economico, passa dal palazzo o dai suoi consiglieri. Le istituzioni servono ad approvare le scelte operate dal re e dal suo entourage. Ci sono stati pochi momenti in cui la monarchia ha dovuto fare dei compromessi e condividere un po’ di potere: [l’ultimo è avvenuto] sotto la pressione delle grandi mobilitazioni del 2011 con il “Movimento del 20 Febbraio” – inserito all’interno del contesto processuale rivoluzionario regionale che vide la caduta di Ben Ali e Moubarak. Il regime ha avuto paura ed ha risposto. Nella precedente costituzione, il re nominava il primo ministro a prescindere dal risultato elettorale. Dal 2011 deve scegliere all’interno del partito che ha avuto il maggior consenso elettorale. Ma la scelta del primo ministro è tuttora nelle mani del re e nel 2017 il primo ministro uscente del PJD (islamo-conservatore) Benkiran ne ha pagato il prezzo. Oltretutto, il connubio tra potere e soldi in Marocco è realmente organico: non si può esser ricchi in Marocco senza essere ben visti dal potere centrale. E una volta che sei ricco, hai accesso al potere e non sei costretto ad obbedire alle leggi e regole sociali, ambientali, etc. Persino le multinazionali che vengono in Marocco hanno compreso questo meccanismo e si sono adattate, contente d’avere il Palazzo come punto d’appoggio. Una volta che si passa per di là, va tutto bene. Il re è l’attore economico principale, il banchiere privato più importante [che possiede] due terzi del settore. Questo potere economico è utilizzato anche per disciplinare ed influenzare le decisioni economiche. Il re è il primo agricoltore: il Dominio reale controlla la maggior parte delle terre fertili. Possiede il settore energetico, in particolare l’eolico, in partnership con alcune aziende straniere.
M: Qual è la situazione politica in Marocco dopo le elezioni di Settembre?
JM: La struttura del regime relativizza l’importanza del risultato elettorale. Abbiamo visto che nelle ultime elezioni, hanno decretato le vittoria del Parti Istiqlal (Partito dell’Indipendenza, ndt). È come se il regime volesse voltare pagina, sentendosi forte e in grado di andare oltre gli avvenimenti del 2011. Così ci ritroviamo a capo del governo un grande patron miliardario, simbolo dell’arroganza della classe dominante. Il suo sentimento di onnipotenza è: “niente può fermarci e se dissentite ci sarà la repressione”. Il loro modello attuale regionale è il generale Al-Sisi che guida l’Egitto col pugno di ferro e con una repressione sanguinaria, non soltanto nei confronti dei Fratelli musulmani, ma anche contro i giovani che hanno fatto la rivoluzione: ci sono stati più prigionieri politici in Egitto nel 2021 che sotto Moubarak. Dopo le mobilitazioni tenutesi intorno al 2010, assistiamo, dunque, alla rivalsa di chi sta in alto. Il governo PJD era già una concessione del potere che non voleva saperne di questo partito. Le mobilitazioni avevano spinto il ministero dell’Interno a lasciar salire al governo il PJD. Tutto ciò è stato utile al regime per calmare la popolazione. La cittadinanza ha preferito attuare un cambiamento tramite un governo islamista moderato pur di evitare uno scenario catastrofico come quello della Siria [– evitando] tutti i sacrifici [fatti] dal movimento popolare. È stata una scelta “pragmatica”, ma non ha funzionato: il PJD è stato annesso al potere, reso docile, poi digerito e sputato, umiliato, poiché la sua utilità politica era ormai svanita. Oggi [il Marocco] è il regno dei grandi padroni, i cosiddetti “campioni nazionali”, inventati di sana pianta dal regime.
M: A che punto è l’economia marocchina?
JM: Sul piano macroeconomico c’era già una crisi prima della pandemia. Ma quest’ultima è stata usata per attuare una “terapia d’urto”, approfittando dello smarrimento della popolazione. La repressione è aumentata notevolmente ed è stata normalizzata. Abbiamo visto rappresentanti delle autorità picchiare le persone – usando come pretesto la “protezione della salute pubblica”. Lu oppositoru sono statu arrestatu: youtuber, rapper, etc. Le politiche neoliberali sono state ulteriormente potenziate. A partire dall’Aprile 2020, la legge di bilancio è stata riformata per permettere al governo di indebitarsi maggiormente e, contemporaneamente, di prendere tutte le “misure di austerità” necessarie per fronteggiare la crisi. Il debito pubblico ha superato il 100% del PIL. Gli interessi sul debito assorbono un terzo del nostro budget nazionale e siamo in una spirale di indebitamento in cui ci si indebita per coprire i debiti. Il Marocco ci perde in sovranità: tutto questo debito presuppone, in futuro, l’applicazione di politiche neoliberali e di privatizzazione, disinvestendo, a livello statale, nell’educazione, nella sanità… nonostante la pandemia. Il debito, nello specifico, serve determinati progetti: chi presta diventa responsabile delle decisioni. Chi governa sembra non farsene niente della sovranità popolare o nazionale: sono sottomessi agli interessi delle multinazionali e ne traggono profitto. La maggior parte dei grandi progetti in corso mettono insieme aziende di ricchi marocchini e multinazionali, principalmente francesi, il cui obiettivo è accumulare ricchezze. Ad esempio, Engie ha privatizzato la distribuzione dell’acqua e dell’elettricità a Casablanca e produce energia fossile in altre province – con il partenariato di un’azienda legata alla famiglia reale. Il primo ministro Akhannouch è proprietario del gruppo Akwa, associato a Siemens per un progetto di energia solare. L’autoritarismo usa le multinazionali ed il neocolonialismo per ottenere permessi, terreni a prezzi stracciati, esenzioni scali, lasciapassare legali, etc. Le grandi famiglie del Marocco si associano per accumulare ricchezze e beneficiare delle privatizzazioni, come è successo con l’azienda dell’acciaio rilevata dal fondo di investimento privato della famiglia reale, Al Mada. Le liberalizzazioni hanno avuto anche il loro profitto. É il caso di Akhannouch, ancora una volta, che ha approfittato dell’abolizione dei controlli sui prezzi nel settore energetico attuato nel 2014 dal governo PJD…con soprapprofitti oltre la norma per le sue aziende; parliamo di quasi 2 miliardi di euro! Stesso scenario per l’unica raffineria di petrolio del paese: simbolo di indipendenza energetica negli anni ’60, privatizzata agli inizi degli anni ’90 a profitto di un saudita. Dopo 25 anni di privatizzazione, il proprietario si è defilato con 40 miliardi di euro di debito nei confronti dello Stato e la raffineria ha chiuso le porte, licenziando 600 persone. Il Marocco oggi è completamente dipendente dalla fluttuazione dei prezzi dei carburanti sul mercato mondiale. Il prezzo si è rialzato in questi ultimi mesi [– e da qui si spiegano] le recenti proteste sociali.
M: Il tenore di vita delle classi popolari ha subito una degradazione con la pandemia? Ci sono state reazioni popolari?
JM: La pandemia è stata seguita da un attacco molto violento e a tutto campo delle classi dominanti: persone bloccate in condizioni inconcepibili, con aiuti infimi ed incredibilmente precari. Ventiquattro milioni di persone vivono in uno stato di necessità. La profondità della crisi sociale è stata svelata: mancano, ad esempio, statistiche affidabili relative alla disoccupazione in quanto non ci sono indennizzi. Molte persone hanno degli “pseudo-lavori”. La violenza della repressione è stata terribile nei confronti delle persone povere. Di fronte a questo, le élite – comprese le frange di sinistra – hanno giustificato questa repressione col vessillo della salute pubblica, quasi con una discriminazione di classe a discapito delle persone povere “che non rispettano nulla” e si ammassano sui mercati. Qualcunu della sinistra non ha capito la gravità di una situazione strumentalizzata dal potere centrale e che danneggia tuttu. A facilitare questa mossa c’erano la debolezza del movimento sindacale e la connivenza della burocrazia sindacale col regime. La storica UMT (Unione Marocchina dellu Lavoratoru), che fu una delle più importanti in Africa, è diretta dagli imprenditori. Il capo dell’UMT ha ordinato allu lavoratoru iscrittu di votare il partito che, successivamente, avrebbe vinto le elezioni – un partito diretto da un miliardario! Per quanto riguarda la sinistra: la sinistra radicale è troppo debole per pesare sugli eventi. Il 2011 fu un periodo propizio; oggi la sinistra, disunita, è sulla difensiva. Ma ci sono delle resistenze popolari, con due tipi di movimenti: le lotte settoriali e le lotte spontanee. C’era già stato il movimento del Rif nel 2017, una tappa qualitativamente superiore rispetto al “movimento del 20 Febbraio” del 2011. I processi decisionali sono avvenuti in maniera democratica dove [si discuteva con] la popolazione nei bar e non più in luoghi non accessibili. Le rivendicazioni non erano solo di stampo politico, legate alla costituzione, etc. Le rivendicazioni del movimento del Rif erano chiaramente sociali: un ospedale, una strada, un’università, etc. Il dibattito che riguardava la monarchia e la riforma costituzionale era troppo lontano da queste preoccupazioni popolari quotidiane. A Jerada, una città minieraria, lo slogan primario del movimento era “vogliamo un nuovo modello economico”. Queste mobilitazioni del 2017 si rifacevano all’eredità del movimento del 2011, con manifestazioni settimanali e tutto il resto. Ma ne hanno tratto anche delle lezioni. C’è stata una repressione terribile: i leader del movimento sono stati condannati fino a 20 anni di prigione. I giudizi terribili ed illegali hanno dato fiducia alla classe dominante nel fermare i movimenti. Si sono succedute poi delle lotte settoriali come quella dell’insegnamento a contratto. Questa politica neoliberale è priva di senso perché servono più insegnanti – e non meno. Più di 60000 insegnanti hanno abbracciato la lotta. E poi ci sono stati anche i movimenti spontanei, come la campagna di boicottaggio contro tre aziende vicine al potere, tra cui quella di Akhannouch. Una forma di disobbedienza civile che ha avuto un successo enorme: la popolazione ha capito che bisognava puntare alle tasche dei ricchi. Anche Danone è stata coinvolta. Le perdite di questi gruppi sono state considerevoli. Il CEO di Danone è venuto due volte in Marocco ed ha abbassato i prezzi. Durante la pandemia, il potere ha cercato invano di far passare una legge che criminalizza la denuncia pubblica di un marchio nazionale. È altrettanto interessante il processo di politicizzazione profonda della società. Ad esempio, gli ultras dei club di calcio, sport molto popolare, hanno slogan sempre più politici, sociali, schierati contro l’hogra 1, l’umiliazione del popolo, contro la gente del potere. Oggi nelle manifestazioni si utilizzano i loro slogan, mentre un tempo li si credeva ampiamente depoliticizzati. Esprimono la rabbia della società. Abbiamo visto una grande determinazione anche nelle recenti mobilitazioni contro il green pass sanitario ed il caro vita, nonostante la repressione. È una generazione nuova che aveva solo 7 o 8 anni nel 2011. Sono dei movimenti spontanei basati sulle reti sociali. L’autoritarismo in Marocco è forte, la decisione sul pass-sanitario è stata presa in una notte. Il disprezzo di coloro che decidono, la loro violenza nei confronti della popolazione, producono una resistenza equivalente: le persone sono infuriate. Le forme di organizzazione cambiano. Gli ultras sono abituati a gestire la violenza delle forze di polizia, le loro tattiche possono essere di ispirazione. Tutto ciò è molto promettente. La sinistra deve stare tra queste persone, ascoltarle, imparare da loro, anche semplicemente nella maniera di comunicare lo smarrimento, i bisogni e la rabbia. Dobbiamo connettere tutti questi movimenti e contribuire con le nostre esperienze [decennali]; non [dobbiamo] vederci come un’autoproclamata avanguardia pronta a dare lezioni.
M: Qual è l’azione di ATTAC/CADTM Marocco?
JM: Esistiamo dal 2000. Siamo presenti in una dozzina di città. Lavoriamo principalmente sull’analisi delle scelte economiche del paese, ma anche nel sostegno alle lotte sociali, contro le privatizzazioni, per la sovranità alimentare ed il servizio pubblico. Abbiamo condotto un’inchiesta con i contadini sull’impatto della politica agricola, seguito da incontri regionali per discutere dei risultati raccolti – e successivamente riportati in un libro che decostruisce l’orientamento all’esportazione [del Paese] e l’impatto negativo sui piccoli agricoltori. Noi difendiamo la giustizia ambientale, contro lo strapotere delle multinazionali sulle risorse. Le nostre compagne, in particolare, stanno lavorando sul debito e sul microcredito, dove le persone finanziano i ricchi e le banche, con tassi fino al 30%. Questo sistema finge di salvare le persone dalla povertà facendo, in realtà, il contrario. Siamo attivu nell’Africa Occidentale e nella coordinamento Nord Africa e Medio Oriente per il CADTM; sosteniamo quelle reti che operano su vari fronti, dalla sovranità alimentare all’educazione politica, dall’Algeria fino al Sudan, con militanti che assumono un impegno attivo nelle lotte.
M: Puoi darci un quadro conciso sulla repressione in Marocco e sui bisogni di solidarietà internazionale?
JM: La repressione dellu giornalistu e gli arresti dellu rapper e dellu youtuber avvenuti sulla base di opinioni politiche si integrano negli attacchi statali a tutto tondo. È la parte dell’iceberg che si vede. Gli attacchi hanno colpito, soprattutto, quelle poche testate giornalistiche indipendenti nate alla fine del governo di Hassan II. In quel periodo, qualche giornale osava paragonare il regime a quello di Ben Ali, azzardava critiche sugli affari del re, etc. A partire dagli anni 2000, abbiamo visto gli attacchi contro questo giornalismo indipendente. Omar Radi e Soulaimane Raissouni sono il frutto di quel giornalismo. Negli anni 2000 c’è stato Internet, l’esplosione dei blog, dei giornali web, etc. Il regime non sapeva bene come gestire tutto questo. Hanno represso il più possibile, poi hanno invaso internet con siti web vicini al potere, soprattutto a partire dal 2011, che parlavano di cronaca e distrazioni. Dopo aver distrutto i giornali indipendenti, il regime ha attaccato direttamente gli individui, come Omar e Soulaimane. Lu pocu giornalistu indipendenti che provano a fare seriamente il proprio lavoro sono diventatu dei bersagli. Soulaimane Raissouni era l’ultimo editorialista che ha avuto il coraggio di trattare argomenti sensibili, criticare il primo ministro, supportare il boicottaggio, il movimento del Rif, etc. Oggi il campo del “sacro”, dell’intoccabile, si è allargato. Tutto ciò per il potere è “oltrepassare il limite”. Omar Radi lavorava personalmente sugli argomenti che mostravano come le classi dominanti accumulino ricchezza appropriandosi di terre, acqua, sabbia, energia, etc. Il suo ultimo lavoro riguardava la privatizzazione delle terre collettive, per la quale il potere ha usato la retorica del favorire l’accesso femminile alla proprietà [agricola]. Nella realtà, sono i ricchi e le multinazionali che ne approfitteranno. Questu giornalistu pagano il prezzo del loro impegno, ma anche della regressione del movimento sociale e dell’arroganza del regime. Sono nati dei comitati di solidarietà. Riescono a coordinare dei sit-in di solidarietà per ogni udienza – che sia per Soulaimane, per Omar o per qualunque altra persona detenuta. Di contro, la repressione continua. Un organizzatore di sit-in, che pubblicava video su Facebook, è stato arrestato, condannato… La lista dellu prigionieru d’opinione di allunga. L’attivismo è cosciente della necessità di condurre la lotta fino alla fine. Omar sta bene, sa che provano a umiliarlo ed abbatterlo ma legge molto, mantiene il sorriso. Conto soprattutto sulle grandi mobilitazioni – di cui abbiamo parlato prima – affinché la situazione migliori. Comunque, a livello internazionale, tutte le forme di solidarietà sono molto importanti, poiché l’immagine preoccupa il regime. Non vuole che sveliamo come [esso] tratti la cittadinanza, la dissidenza. Quindi contiamo su questo per fare pressione: d’altronde abbiamo visto il regime marocchino colpire il giornale “L’Humanité”. [Il sostegno internazionale] dà fiducia ed energia allu attivistu in Marocco.
Jawad Moustakbal (ATTAC/CADTM) è il coordinatore nazionale in Marocco per l’International Honors Programme: “Climate Change: The Politics of Food, Water and Energy” della School of International Training (SIT) del Vermont, Stati Uniti. Ha lavorato come capo-progettista per diverse aziende, tra cui l’OCP, l’azienda pubblica marocchina di fosfati. Jawad è inoltre un militante per la giustizia sociale e climatica, membro della segreteria nazionale di ATTAC/CADTM Marocco e membro della segreteria condivisa del Comitato internazionale per l’abolizione dei debiti illegittimi. Ha conseguito i suoi studi in ingegneria civile presso l’EHTP di Casablanca.
Nota
1Termine ampiamente utilizzato nelle società nordafricane; deriva originariamente dal sostantivo arabo “Ihtiqaar” (إحتقار), che significa disprezzo. Nei dialetti maghrebini parlati in Marocco, Algeria e Tunisia, il termine esprime sentimenti diversi come: l’ingiustizia, l’indignazione, il risentimento, l’umiliazione e l’oppressione. In origine era usato in relazione a situazioni di vita quotidiana, prima di diventare un termine politico che descrive un continuo stato di disprezzo e umiliazione per l’intera società [da parte delle istituzioni dominanti]. […] “Al Hogra” è stato usato per la prima volta a livello politico in Algeria, durante le rivolte del 1988. Il termine è tornato in auge in Nord Africa durante la cosiddetta “primavera araba” del 2011. Prima in Tunisia, quando l’opinione pubblica lo ha usato per descrivere la situazione di Mohammed Bouazizi, il venditore ambulante che si è dato fuoco nel 2010 dopo essere stato schiaffeggiato e fatto oggetto di sputi da parte di un’agente municipale donna. Durante le manifestazioni che hanno preceduto e seguito la sua morte, il concetto è stato utilizzato in molti canti. Nei mesi successivi, “Al Hogra” è stato citato come il motivo principale delle rivolte del Movimento 20 Febbraio in Marocco e del Movimento Rif Hirak – che dal 2016 denuncia le ingiustizie economiche e sociali nel nord del Paese. Più recentemente [questa espressione] è stata al centro delle proteste pacifiche – che hanno avuto luogo in Algeria dal Febbraio 2019. […] “Al Hogra” è un concetto chiave per comprendere le ragioni dell’attuale clima di tensione sociale e politico in Nord Africa. Fonte consultata: al hogra (الحكرة). Link: https://www.daas.academy/research/al-hogra-%d8%a7%d9%84%d8%ad%d9%83%d8%b1%d8%a9/