Appunti sopra un breve viaggio a Cuba

Articolo scritto da Boris per il Gruppo Anarchico Galatea

Potrei raccontare questa storia, le mie esperienze di questo viaggio, con la pretesa di obiettività di un articolo giornalistico o, semplicemente, rispettare il mio impegno etico con la realtà e la mia impossibilità di discostarmi dai pregiudizi che ho, come abitante della capitale, rispetto al resto di Cuba. Ho scelto di non stilare una cronologia esaustiva, ma di contrapporre le mie impressioni alle narrazioni stabilite dai poli del potere sulla realtà cubana.

Il 12 Dicembre siamo partitu per Matanzas. Il piano originale prevedeva di andare direttamente a Ciego de Ávila, ma c’è stato un ritardo imprevisto a causa del furto subito da Caterina da parte di un un uomo fermo al semaforo all’uscita dell’aeroporto, a cui ha dato un passaggio per solidarietà, sapendo che cosa significa stare ore e ore ad aspettare un autobus che non arriva (abbiamo in seguito scoperto che questo è il modus operandi di bande criminali il cui target sono lu turistu con le auto a noleggio). La perdita del denaro e dei documenti di viaggio ci ha costrettu, in primo luogo, a fare una denuncia alla polizia per ottenere un documento che sostituisse la patente di guida e, in secondo luogo, fermarci per farci prestare da un’amica un po’ di soldi (500 dollari statunitensi) per coprire le spese di viaggio. Il ritardo è stato di quasi 24 ore, giacché la polizia, come del resto dappertutto, lungi dall’essere veramente utile per difendere e proteggere, è specializzata nell’essere incompetente e nel rivittimizzare chi ha subito un sopruso.

A Matanzas non abbiamo avuto modo di interagire con la popolazione locale al di là di semplici transazioni commerciali. Un secondo incidente è avvenuto nel comprare del cibo in un paladar (vale a dire un ristorante privato, non statale): il proprietario ha creduto che una delle banconote da cento dollari fosse falsa. La preoccupazione era dovuta al fatto che poche ore prima l’uomo ne aveva ricevuta una, il che ha scatenato la sua paranoia quando ha visto una banconota vecchia ancora in circolazione. Esempio di un fenomeno che abbiamo notato anche in seguito, a Ciego de Ávila: chi ha qualcosa da perdere ha molta paura di essere truffatu o di avere a che fare con le autorità. Invece (cosa fino a poco tempo fa inaudita) persino perfettu sconosciutu, appartenenti a classi più popolari, dopo cinque minuti che ci si parlava insieme, si lamentavano del governo in modo molto aspro ed esplicito.

Abbiamo attraversato diverse province intermedie (Cienfuegos, Villa Clara, Sancti Spíritus), potendo così osservare lungo la strada diversi paesi e insediamenti minori, nei quali si può notare la ripetizione di impianti urbani divenuti disfunzionali dopo il crollo del modello clientelare sovietico. Ciego de Ávila, la provincia dove abbiamo trascorso due giorni, è una suddivisione che anteriormente faceva parte della provincia di Camagüey.

La persona che ci ha accolto e che ci ha fatto da guida è un funzionario pubblico, vecchio amico di Caterina, che tre anni fa si allineava alle posizioni ufficiali e difendeva il regime, mentre oggi si è mostrato veementemente insoddisfatto su molti aspetti della situazione attuale. Mentre ci faceva da guida, commentando il contesto storico e attuale della città e della campagna dei dintorni (Ciego de Ávila è una provincia agricola), l’accento era sul deterioramento e lo sfacelo generale.

Quando siamo arrivatu, abbiamo dovuto consegnare i documenti di identificazione allu proprietariu dell’alloggio, come da prassi nell’industria turistica mondiale. Non eravamo a conoscenza del fatto che a Cuba i documenti stranieri potessero essere riportati in un database online. Caterina era entrata con il passaporto messicano, che le era stato rubato, e quindi ha mostrato il passaporto italiano. A causa di questa circostanza, il numero del passaporto consegnato non compariva nel database. Secondo caso di paranoia in cui ci siamo imbattuti: lu proprietariu dell’alloggio (evidentemente di classe media agiata, dimostrata dalle condizioni della casa, la disponibilità di cibo abbondante e l’attività di cambio di dollari), invece di aspettare che tornassimo dalla festa a cui eravamo andatu, si sono immediatamente allarmatu e hanno chiamato la polizia migratoria denunciando il caso di una straniera irregolare. Ciò ha provocato controlli su cubanu che viaggiavamo con lei, uno dei quali è un noto attivista dissidente, coinvolto nelle proteste del 2021. È stata quindi citata per un interrogatorio dalla polizia migratoria a Ciego de Ávila, in cui le hanno chiesto con insistenza come e perché ci conoscesse, con enfasi sull’attivista in questione (anche se, ovviamente, senza spiegarlo esplicitamente). Le è stato inoltre rimproverato, facendole firmare un avvertimento ufficiale, di aver violato i termini del visto turistico soggiornando all’Avana in una casa privata gratuitamente, facendo donazioni di medicinali al di fuori dei canali ufficiali statali, e partecipando ad attività culturali senza autorizzazione ministeriale. La sera stessa, ritornati a l’Avana, ha ricevuto una chiamata diretta dalla polizia migratoria, in cui la citavano il giorno seguente per un ulteriore interrogatorio. I termini dello stesso, anche se di nuovo non espliciti, sono stati volti ad accertare un suo eventuale legame con la dissidenza cubana.

Tornando al nostro soggiorno a Ciego de Ávila, in contrasto con l’alloggio turistico, la casa rurale in cui siamo statu invitatu a passare la prima serata mostra i segni di un’evidente precarietà costruttiva. La strada di ingresso è sterrata e piena di buche, la casa è un misto di materiali industriali e legno non trattato, gli impianti sono approssimativi e carenti. Il proprietario è un anziano agricoltore la cui figlia è recentemente partita per gli Stati Uniti. Il ricevimento è stata una piccola celebrazione informale a cui hanno partecipato amici e lavoratori dell’anfitrione. L’atmosfera era di fiducia e la conversazione verteva sul malessere generale causato dalla precarietà economica e dall’inefficienza governativa, anche se questi argomenti venivano evitati in presenza del funzionario sopracitato.

In generale, Ciego de Ávila è progettata per essere un centro economico funzionale come qualsiasi modello di città moderna; ma è da notare che la vita notturna è quasi inesistente. Nessuno apre dopo le 17 e, ad eccezione di piccoli gruppi di giovani e di passanti occasionali, non si vedono persone per strada. L’altra persona che abbiamo incontrato e con cui abbiamo trascorso del tempo è un’intellettuale, riconosciuta scrittrice e libraia. La sua casa, un’immensa dimora del secolo scorso, mostra chiari segni della precarietà in cui vive e anche lei ha manifestato un profondo malcontento sulla situazione.

La prima cosa che viene smontata semplicemente percorrendo le strade cubane o, addirittura, le città, è che i problemi di Cuba siano tutti causati dall’embargo. La quantità di terreni inutilizzati è impressionante. Le erbacce crescono ovunque e solo occasionalmente si osservano spazi coltivati.

Parlando con l’agricoltore di Ciego de Ávila diventa evidente come l’adozione dei modelli di produzione agroindustriale siano risultati insostenibili in un Paese sottosviluppato come Cuba.

L’industria agricola che si è sviluppata negli anni ’70 e ’80 del XX secolo si affidava ai sussidi e ai sostegni materiali da parte dell’URSS e del CAME (Consejo de Ayuda Mutua Económica, ndt); un tale livello di produttività potrebbe essere recuperato solo con forti investimenti nel settore che, ancora una volta, riprodurrebbero le condizioni di un’enclave agricola gestita da un apparato burocratico/militare per conto di un potere o di una corporazione transnazionale – che in larga misura è già una realtà in quasi tutti i settori produttivi del Paese. È molto più facile, e persino più economico, ottenere prodotti cubani al di fuori di Cuba che nel mercato nazionale stesso, dove i prodotti arrivano a prezzi gonfiati a causa della precedenza data agli investitori stranieri rispetto ai consumatori locali.

Perché non ci sono produttori? Si potrebbe pensare che, dopo una totale smobilitazione della forza produttiva, questa possa essere riciclata nel lavoro agricolo. In questo caso sono in gioco problemi sia culturali che economici. Il modello agroindustriale è concepito per il lavoro salariato e, alla fine, per soddisfare determinati standard di consumo. Un produttore indipendente – o una cooperativa – non ha sempre i mezzi per portare la sua produzione sul mercato, essendo quindi costretto a vendere la sua produzione a intermediari i cui prezzi sono regolati dallo Stato. L’altra opzione è quella di vendere a quest’ultimo ad un prezzo inferiore, con il rischio di ritardi nei pagamenti. Il supporto in termini di tecnologia e mezzi di produzione è scarso o nullo. I produttori di successo finiscono per diventare capitalisti e per loro è difficile generare un senso di appartenenza alla realtà rurale. Possiamo concludere che falliscono tutte le istanze del processo produttivo/distributivo, dalla forza lavoro alla commercializzazione.

Il motivo per cui lo Stato non promuove modelli di produzione agro-ecologici può essere facilmente intuibile: perderebbe il controllo dei produttori. In effetti, le esperienze di permacultura e agro-ecologia sono casi marginali e molto specifici, nonostante vengano utilizzate dallo Stato come propaganda per gli eredi occidentali del movimento no-global. È stato annunciata con grande clamore dai media l’introduzione di colture geneticamente modificate (in particolare mais e soia). È noto anche l’uso di sostanze chimiche per accelerare la maturazione della frutta.

Quello che è successo alla massa di lavoratori che un tempo lavoravano in agricoltura è visibile nelle molteplici testimonianze di criminalità che si sentono in tutto il Paese – riflesso di un impoverimento accelerato ed un aumento delle disuguaglianze nei settori più vulnerabili. Nel caso delle città, il fenomeno è legato allo smantellamento e alla privatizzazione del settore dei servizi e all’inflazione. Nelle zone rurali, entrambi i fattori si sommano al crollo dell’industria agricola. In tutto questo c’è una marcata componente razziale che si riferisce alla struttura di classe precedente al trionfo della Rivoluzione. In sostanza, i neri passarono dall’essere tagliatori o lavoratori della canna da zucchero a braccianti agricoli coperti da un sistema di welfare state, mentre la maggior parte degli emigranti spagnoli, soprattutto dalle Isole Canarie, continuò a possedere piccoli appezzamenti di terreno e a vivere uno stile di vita rurale. L’arretramento dello Stato ha portato all’emergere di fenomeni, ancora in divenire, come il gangsterismo e, nelle zone rurali, il furto di bestiame.

La risposta degli organi repressivi è insufficiente o inesistente. È molto difficile che una denuncia porti a un arresto e non è rara la rivittimizzazione da parte della burocrazia poliziesca. Nelle zone rurali è comune che le persone siano disarmate, anche se i furti di solito hanno una maggiore componente di violenza quando includono armi bianche. La forza repressiva e punitiva si concentra nei maggiori nuclei urbani e si potrebbe dire che la percezione generale su di essa è quella di un organismo essenzialmente politicizzato e radicalmente insicuro sull’autorità che detiene. È comune che proliferino i reati di oltraggio all’autorità o quelli economici a livelli non strutturali (puniti in senso esemplare); ma sono rari gli arresti per reati contro l’integrità fisica o per corruzione.

Non si può parlare di un sostegno all’attuale gestione o all’autorità, ma di un timore di ritorsione. È più che evidente che l’attuale governo non ha una figura carismatica come Fidel Castro (che rimane ancora il riferimento politico principale nell’immaginario collettivo), ma non ha nemmeno un modello di gestione capace di vedere oltre la propria discorsività. Potremmo dire, in modo poetico, che il discorso ufficiale non è in contatto con la realtà. Per i funzionari, l’astrazione ideologica e strutturale è un ostacolo alla gestione della situazione reale e crea un rapporto profondamente nevrotico con la politica: la difesa ad oltranza del modello sociale ed etico, da un lato, e, dall’altro, una prassi politica che si muove tra la corruzione e l’opportunismo. Tale comportamento diventa sempre più evidente quanto più sono lontani dal cittadino comune; più che dal sistema di premi o privilegi, sono mossi da una serie di auto-inganni. Fondamentalmente, questi funzionari hanno già posto le basi di una transizione capitalista nei loro figli; quindi è improbabile che subiranno grandi perdite economiche. In sintesi, pochissimi sarebbero legittimamente punibili in caso di transizione demo-liberista. Ma è sempre più comune che i quadri di partito, e persino i militari e i membri degli organi di sicurezza di basso rango, emigrino negli Stati Uniti.

L’emigrazione ha sicuramente una motivazione prevalentemente economica, ma non si può negare che la motivazione politica, sebbene minoritaria, sia aumentata drasticamente negli ultimi tre anni. C’è anche un fenomeno che si nota viaggiando, anche solo di sfuggita, attraverso qualsiasi insediamento di piccole o medie dimensioni in tutto il Paese: l’identità di questi luoghi, come a Ciego de Ávila, è stata segnata più dalle attività economiche che dalla storia, poiché la maggior parte di essi è stata fondata come parte di una macchina economica che coinvolgeva l’intero Stato/nazione.

I problemi di Cuba qui analizzati sono propriamente sistemici e non possono essere imputati a fattori esterni. Rimarrebbero da analizzare le situazioni che potrebbero avere radici nel tessuto delle relazioni internazionali. Sarebbe persino interessante osservare l’evoluzione del capitalismo nazionale, poiché in futuro porrà una mappa dei settori più sensibili da mobilitare per l’emancipazione sociale.

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