bell hooks a Catania. Di imprese sociali e riqualificazione

Scritto da Osservatorio repressione e riqualificazione di Catania. Pubblicato su “Lo Stato delle città”, n. 9, Novembre 2022, pagg. 59-63

Presentazione del Gruppo Anarchico Galatea
Fin dalla seconda metà dell’Ottocento, il quartiere di San Berillo è sempre stato sotto la lente della borghesia e delle istituzioni locali. Trovandosi nel centro cittadino, il quartiere venne interessato a vari progetti di risanamento in quanto considerato degradato, popolato da prostitute e focolaio di epidemie.
Questa fama così negativa era da ricercarsi nella ricostruzione della città di Catania avvenuta dopo il terremoto della Val di Noto del 1693. L’ostentazione dell’architettura dei tempi (il barocco) e i nuovi assi viari voluti dal Duca di Camastra, relegarono ai margini il suddetto quartiere. Con la costruzione della stazione centrale e l’espansione edilizia verso nord e nella zona costiera, San Berillo divenne una sorta di ostacolo per la borghesia catanese desiderosa di collegare e velocizzare i trasporti di merci che arrivavano via mare e via ferrovia col centro cittadino.
È in questa fase storica (la seconda metà dell’Ottocento) che nascono le considerazioni negative dette poc’anzi – nonostante il quartiere avesse un suo micro-mondo fatto di piccole attività artigianali e di persone che lavoravano a livello sessuale. Il risanamento urbano (o sventramento) non riuscì a trovare applicazione a causa delle crisi economiche di fine Ottocento, della Prima Guerra Mondiale e del disinteresse, a livello di investimento, nel demolire e costruire nel centro catanese durante il regime fascista.
La fine del secondo conflitto mondiale cambia tutto questo stato di cose: le distruzioni e le morti patite nell’intero territorio siciliano, così come in quello italiano, furono innumerevoli. Occorreva, quindi, ricostruire e ridare “lavoro, speranza e dignità a milioni di italiani che avevano perso le proprie case.” Fanfani, all’epoca ministro del lavoro, insieme ai suoi compagni di partito (la Democrazia Cristiana) idearono un piano ad hoc con cui assorbire la disoccupazione e investire nell’edilizia.
Il “Piano Fanfani” ebbe inizio nel 1949 e si concluse nel 1963. In questo lasso di tempo vennero costruiti numerosi edifici popolari e, al contempo, si costituirono una serie di società miste pubblico-privato i cui obiettivi erano l’edilizia popolare e lo sgombero degli edifici abbattuti (il “risanamento urbanistico”). La speculazione edilizia così creatasi si sviluppò in varie zone d’Italia, Catania compresa.
Ed è proprio nel caso catanese che il quartiere di San Berillo subì la furia speculativa e distruttiva. Con la scusa di abbattere gli edifici pericolanti e renderlo più salubre (e quindi non più un focolaio di malattie come la fu influenza spagnola, il colera o la tubercolosi che imperversavano in quel periodo), le operazioni di sventramento e ricostruzione da parte del Comune di Catania (a guida democristiana) e della Società Generale Immobiliare dei Rebecchini di Roma (anche loro democristiani) portarono ad una deportazione di ben 30mila persone dal centro alla nuova periferia cittadina.
Nel quartiere del centro così distrutto vennero costruiti una serie di edifici rivolti alla classe medio-alta e ai servizi finanziari e bancari e la strada creata (Corso Sicilia e Corso dei Martiri della Libertà) collegava direttamente la Stazione Centrale col centro cittadino – facendo diventare realtà il sogno della borghesia locale di inizio Novecento.
La speculazione edilizia in questa parte di città si bloccò a causa delle prime denunce fatte da Giuseppe Mignemi – un ingegnere e tecnico del Comune di Catania che trovò dei dati economici alterati sulle espropriazioni delle case e la successiva ricostruzione -, e dal successivo processo giudiziario contro l’amministrazione comunale.
Le costruzioni si bloccarono e il pezzo di quartiere che era rimasto in piedi non venne interessato ad ulteriori pratiche distruttive.
A partire dagli inizi degli anni Novanta, la città di Catania ha il suo boom economico. Sono gli anni della giunta Bianco e della sua stretta collaborazione col presidente della provincia Nello Musumesi. Ma soprattutto gli anni delle Universiadi e del potenziamento della Zona Industriale cittadina.
Con questa rinascita, l’establishment economico e politico cittadino inizia ad investire sul mercato turistico: dalle spiagge della Plaia e la scogliera di Ognina ci si sposta verso il centro cittadino ricco di costruzioni architettoniche baroccali.
L’espansione turistica del centro catanese avanza inesorabile, arrivando in quel pezzo di San Berillo che non venne interessato alla furia distruttiva degli anni ‘50.
Ed è in tal modo che i vari gruppi di poteri economici e culturali come Confindustria Catania, “ANCE”, le banche (Intesa e Unicredit), le società immobiliari (Re/Max) e le associazioni cooperativistiche (Trame di Quartiere) entrano in un quartiere considerato, a livello mediatico e culturale, degradato e lugubre. L’arrivo di questi attori ha comportato ad una crescita smisurata del controllo poliziesco e, allo stesso tempo, a proporre progetti legati al recupero urbanistico del quartiere.
In tutta questa situazione chi ne ha fatto le spese sono stati gli abitanti trasformati, da queste logiche borghesi, o in “animali da zoo” (in particolare i lavoratori e le lavoratrici sessuali) o in “spacciatori da salvare e redimere grazie allo spazzamento del quartiere”. Il degrado, per questi attori economici e culturali, non è soltanto un’attività di lucro e di visibilità mediatica: è una fase intermedia o di penetrazione e stabilizzazione.
L’obiettivo finale di costoro è l’utilizzo dei fondi sulla “rigenerazione urbana” che renderà San Berillo un luogo di locali e accoglienza turistica similare ad altre zone del centro catanese (Piazza Teatro, Castello Ursino, la Pescheria e le vie Gemellaro e Santa Filomena) – e vedrà la cacciata degli abitanti a causa dei costi dei servizi da sostenere.
Per resistere a questo stato di cose, l’ “Osservatorio repressione e riqualificazione di Catania” ha scritto un articolo dal titolo “bell hooks a Catania di imprese sociali e riqualificazione a Catania”; in esso si delineano la situazione attuale del quartiere tra razzializzazione, gentrificazione e pietas umana ipocrita e borghese di quelle associazioni economiche e culturali lì presenti. Ma cosa assai importante, si sottolinea una volontà di applicare delle misure di mutuo aiuto scevre dalle logiche burocratiche, borghesi e di aiuto ipocrita di matrice cristiana.

Essere nel margine significa appartenere, pur essendo esterni, al corpo principale. […] Al di là di quei binari c’erano strade asfaltate, negozi in cui non potevamo entrare, ristoranti in cui non potevamo mangiare e persone che non potevamo guardare dritto in faccia. Al di là di quei binari c’era un mondo in cui potevamo lavorare come domestiche, custodi, prostitute, fintanto che eravamo in grado di servire. Ci era concesso di accedere a quel mondo,ma non di viverci”.
Con queste parole, nel 1984, bell hooks rievocava ricordi della sua infanzia razzializzata e impoverita, per introdurre il concetto di margine come spazio di resistenza. Sono queste stesse parole, e altre ancora dell’autrice afroamericana, che nella tarda primavera di quest’anno alcune e alcuni attivisti hanno deciso di stampare e incollare sui muri del quartiere di San Berillo, nel centro di Catania. A differenza della strada di casa di bell hooks, a San Berillo non vi sono binari da superare, ma la frontiera resta lo stesso ben visibile: da un lato il rigenerato “San Berillo art district”, dall’altro la parte “pericolosa”,quella che fa di San Berillo il quartiere che la destra al governo della città intende radere al suolo e di cui la classe media e agiata catanese ha paura, educando i propri figli a non attraversarla. Da una parte vi è un luogo reso sempre più attrattivo, in cui sono stati aperti ristoranti e negozi che corteggiano turisti e giovani benestanti dalle velleità anticonformiste,con quella tipica estetica dell’auto-recupero che ha snaturato la radicalità conflittuale delle auto-produzioni. Quindi colori sgargianti, piante grasse e fioriere fatte in pallet,murales e citazioni di De Andrè: un paradiso hipster che non ha nulla da invidiare ad altri quartieri delle città mediterranee “rigenerate”. Questa tendenza è stata inaugurata dal First, locale che, da quanto emerso dalle nostre inchieste, non ha lesinato sullo sfruttamento del lavoro in nero per poter aprire e il cui proprietario è noto in città per le sue passioni neofasciste. Questi locali si stanno espandendo, in particolare verso uno slargo che, in assenza di bagni pubblici, veniva usato come pisciatoio e parcheggio. Un imprecisato gruppo di abitanti questa estate vi ha piantato due alberi nel cemento e appeso lucine. Si è discusso sull’intenzione di questa iniziativa, in apparenza innocua. Ma a fugare ogni dubbio sull’intento di questo abbellimento stanno la pronta aggiunta di telecamere private a quelle pubbliche e il fatto chele uniche sedie presenti sono state appese in alto, direttamente inchiodate al muro. Dall’altro lato, c’è quel che resta della storica zona crocevia e riparo per le persone marginalizzate, nota lungo tutto il secolo scorso per ospitare prostitute e contrabbandieri. È qui che per decenni le proprietà immobiliari non hanno investito in lavori di ristrutturazione, lasciando interi edifici in evidente stato di disfacimento, seppur beneficiando degli affitti delle persone che in alcuni di questi edifici abitano. Le migrazioni globali hanno trasformato la composizione sociale di questa “classe pericolosa” che, a differenza della precedente, tutta “italiana”,è resa ancora più vulnerabile perché esposta alla violenza del regime di frontiera europeo.

È in questa San Berillo che si sono insediate dagli anni Ottanta più o meno giovani sex workers, latinoamericane e sud europee, e, più recentemente, hanno trovato rifugio giovani uomini subsahariani quando il Centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) di Mineo ha chiuso. Nei bassi inumiditi e in casotti auto-costruiti con materiale di recupero questi due gruppi hanno trovato il luogo dove portare avanti le loro attività di sussistenza, criminalizzate perché legate allo spaccio e a quell’infame reato che trasforma la solidarietà tra sex workers in “favoreggiamento”.

La ragione civilizzatrice
Sul crinale di questa frattura si trova un attore che da anni abita ambiguamente il processo di “messa a decoro e a profitto” di questa parte di Catania. Si tratta di Trame di quartiere, una cooperativa sociale animata da urbanisti e antropologi, che ritiene di poter governare in chiave democratica il processo speculativo, promuovendo, come si legge sul loro sito, “la partecipazione nei processi di rigenerazione urbana attraverso l’uso di metodologie e strumenti creativi, performativi e artistici”; e, al contempo, difendere e proteggere la popolazione che rischia di venirne cacciata. Quest’ultima viene ricompresa nella categoria dei “soggetti vulnerabili”, ovvero possibili beneficiari di progetti socio-assistenziali con cui attrarre fondi per l’impresa sociale. Trame di quartiere è nata un decennio fa come associazione e oggi può essere considerata un pilastro del terzo settore e della sinistra democratica in città. Il suo percorso è andato consolidandosi a partire dal 2015, quando ha iniziato a vincere bandi economicamente importanti (come i 120mila euro ricevuti con il concorso siciliano “Boom-Polmoni Urbani”). Nel 2018 Trame è poi entrata in possesso di tutti e tre i piani di palazzo de Gaetani, che il proprietario ha concesso in comodato d’uso gratuito in cambio dell’effettuazione di lavori di ristrutturazione. Questo ha comportato la cacciata di sei persone di San Berillo che, senza fissa dimora, da un decennio abitavano ai piani superiori dell’edificio: la promessa di poter rientrare dopo i lavori non è mai stata mantenuta, trasformandosi nell’offerta di un appartamento in affitto calmierato, distante dal quartiere. Nel 2021 la cooperativa ha poi aperto una caffetteria in cui vengono vendute bevande e pranzi “etnici” a prezzi che non sono accessibili per chi vive in quartiere e che ne mercificano l’immaginario interculturale. Infine, al termine dei lavori di ristrutturazione del palazzo, finanziati anche col supporto della Fondazione per il Sud, la cooperativa ha dato avvio, in partenariato con Oxfam Italia, al progetto “Sottosopra: abitare partecipativo”. Anche grazie a una significativa, seppur economicamente non determinante, donazione di Ikea, il primo piano di Trame è così diventato uno spazio di co-housing volto a “contrastare la povertà abitativa e relazionale” e a “rendere le persone consapevoli e attive nella creazione del proprio contesto abitativo”. Sottosopra ha però a lungo faticato per trovare i propri inquilini, viste le condizioni di accesso che non rispondono ai bisogni esistenti in quartiere: un permesso di soggiorno, un contratto di lavoro, certificati medici di buona salute fisica e mentale e cento euro al mese da devolvere per una stanza in condivisione. Questi requisiti hanno comportato il reiterato rifiuto di dare ospitalità a persone che vivono in strada, tra cui anche le molte che passano le giornate sotto le finestre del co-housing.

Così, quella mattina di maggio, non erano solo le parole di bell hooks che parlavano sui muri di San Berillo; altre frasi erano state aggiunte in interlocuzione, che ricordavano fatti successi in quartiere; spesso facendo riferimento alla presenza di Trame, ne evidenziavano la problematicità e ponevano domande sul futuro di questi isolati, interpellando un noi collettivo chiamato all’au-torganizzazione.

Il quartiere è stato risvegliato da questa sollecitazione e chi ci vive ha espresso reazioni diverse. La più evidente è stata quella della stessa cooperativa sociale che, pur in ultimo decidendo di non togliere gli A3 affissi intorno alle sue vetrine, ha rilasciato dichiarazioni scomposte sui social network e a mezzo stampa. Per Trame, infatti, l’attacchinaggio sarebbe stato un vile attacco terroristico che “rischia di stimolare azioni violente”. Da qui la richiesta alle altre realtà del terzo settore che operano in quartiere di prendere pubblicamente parola esprimendo solidarietà. Nella loro analisi, la minaccia sarebbe stata aggravata dal fatto che tutti i testi erano stati anche tradotti in inglese, rendendoli comprensibili agli africani anglofoni che vivono in quartiere e che, per Trame, sono soggetti ingovernabili che mettono in pericolo il progetto della cooperativa di rendere partecipativa la rigenerazione urbana. L’attore che promuove l’interculturalità e le differenze, da una prospettiva socio-imprenditoriale, si è così palesato ostile e impaurito dalla possibilità che le persone da proteggere possano farsi un’opinione autonoma. Eppure, era stata proprio Trame, quello stesso giorno, ad avere organizzato all’interno della sua sede una lettura collettiva per i suoi frequentatori del libro di bell hooks “Insegnare a trasgredire”, senza coinvolgere chi, proprio oltre la soglia del suo cancello, razzismo e povertà li esperisce ogni giorno.

Le parole della scrittrice afroamericana non hanno però innescato solo un dialogo conflittuale tra bianchi, ma anche all’interno delle altre collettività che vivono in quartiere ci si è divisi sull’interpretazione da dare a quelle frasi e ai messaggi (in esse) racchiusi. Chi per lavoro deve frequentare Trame ha difeso la cooperativa e condannato l’attacchinaggio; altri invece hanno colto l’occasione per poter dire per la prima volta che quel posto è un luogo che esclude, non aiuta e non dà lavoro. Anzi, facilita l’operato della polizia in quartiere, anche aprendogli le porte quando è alla ricerca di chi è costretto a commettere piccoli reati per poter sopravvivere.

Grazie a bell hooks si è dunque avviato un confronto sulla situazione coloniale che struttura i rapporti in questo quadrante urbano. A differenza di analoghe situazioni di “rigenerazione urbana” nel Mediterraneo, le mani speculative su San Berillo incontrano l’intreccio di razzismo, informalità e criminalizzazione, nonché livelli di povertà e violenza continuamente acutizzati. È questa congiuntura che i discorsi securitari di amministratori e comitati in difesa del decoro sfruttano, facilitando la militarizzazione e l’installazione di telecamere di ultima generazione, utili non solo alle forze dell’ordine per minimizzare i propri sforzi, ma anche alle agenzie immobiliari per rassicurare i possibili acquirenti sulla sicurezza dei propri investimenti in quartiere.

Da un lato, anche San Berillo viene trasformato dalla diffusione di Airbnb, che sta aumentando il costo degli affitti e renderà a breve impossibile alla comunità senegalese di Catania, una delle più numerose e da più lunga durata presenti in Italia, continuare a coabitare beneficiando della solidarietà del vicinato.

Dall’altro, i processi che si dispiegano in questo angolo di Mediterraneo sono ancora più violenti. Nonostante la mobilitazione di associazioni, cittadini e militanti, nell’estate del 2021 il comune di Catania ha infine approvato un nuovo piano di dettaglio per il centro storico, in cui gli “edifici diruti o in grave stato di degrado” in San Berillo sono passati dal numero di due a quarantuno, rendendoli di fatto tutti abbattibili. L’iniziativa dell’amministrazione locale è andata così a sostenere questa nuova fase di gentrificazione che sta investendo tutto il centro storico.

Non una sorpresa, considerando l’operato del sindaco Pogliese e della sua giunta, che ha portato al commissariamento del Comune e a non poche inchieste giudiziarie per corruzione, l’ultima ai danni dell’assessora alla cultura e pubblica istruzione (in quota Fratelli d’Italia). Nel frattempo Trame tesse relazioni con l’Associazione nazionale costruttori edili di Catania, che ringrazia per il supporto dato al progetto Sottosopra e contribuisce a far eleggere una sua socia fondatrice come presidente di Confcooperative Habitat per la Sicilia. Da un anno in quartiere si assiste al proliferare di annunci immobiliari del franchising statunitense Re/Max e all’apertura di grandi cantieri da parte di noti imprenditori edili, impegnati nel costruire nuove strutture ricettive turistiche. In questo contesto si innesta il prossimo arrivo dei soldi del Pnrr (settantaquattro milioni), ottenuti dal comune di Catania anche per riqualificare San Berillo e dintorni, in primis col progetto di demolire l’edificio intorno a cui si sono installati gli esercizi auto-costruiti degli africani per fare spazio a una piazza (antistante la caffetteria di Trame) e a una pista ciclabile.

Si tratta dell’ennesimo tentativo di ripulire via Carro, come già aveva provato a fare il museo ReBa, inaugurato nel 2009. Ideato da un architetto locale di cui portava il nome, Renato Basile, il museo intendeva costituirsi come “incubatore culturale” per rendere anche quest’angolo di Catania una meta turistica al pari di Ortigia a Siracusa e di Ragusa Ibla, luoghi noti per essere ormai diventati colonie per turisti nordeuropei. Nonostante il supporto ricevuto negli ultimi anni anche dall’assessorato al decoro, nel 2018 il ReBa è fallito; secondo i suoi promotori, il motivo sarebbe stato l’invincibile stato di degrado del quartiere. ReBa per promuoversi aveva puntato sull’immaginario esotizzante, giocando sulla nomea “a luci rosse” di San Berillo e organizzando visite e iniziative per promuovere un’“architettura proibita”.

L’attuale operato di Trame costituisce uno scarto pericoloso rispetto a questo approccio, perché si ammanta della retorica della valorizzazione dell’interculturalità e si avvale della ragione umanitaria. Mentre un attore meramente interessato alla promozione culturale, come ReBa, si presentava come un’alternativa incompatibile con l’umanità esistente, la cooperativa sociale si promuove come agente super partes, mosso da una missione civilizzatrice sia verso i gentrificatori che verso i dannati della terra che vivono in quartiere.

Sicurezza e autogestione
Palazzo de Gaetani è stato narrato da Trame come un “contenitore” da recuperare perché potesse “ospitare spazi per l’abitare insieme ad attività di aggregazione, di lavoro e di produzione culturale fortemente intrecciate con il quartiere in cui si collocano”. Ma in realtà queste attività si sviluppano autonomamente a San Berillo. Vi sono associazioni migranti che sono nate a partire dalle esigenze concrete di chi vive in quartiere, mai prese in carico dai servizi comunali, come la Gambian Youth Association, che da anni organizza momenti di pulizia del quartiere, oltre che cene e feste in strada. Vi sono i concerti e le autoproduzioni musicali e di podcast radio, grazie a cui giovani rapper senegalesi e gambiani promuovono dal basso sincretismi musicali e disarticolazione dell’immaginario razzista. La rete di solidarietà tra chi, nella consapevolezza delle asimmetrie di privilegio, si conosce e supporta da anni ha poi permesso di sopravvivere al lockdown imposto dalla gestione della sindemia da Covid. Ben prima che le associazioni cattoliche e del terziario sociale tentassero di mettere la loro etichetta sugli aiuti, le e gli abitanti si erano già autorganizzate per provvedere ai pasti secondo i propri bisogni. Nell’ultimo anno poi, anche grazie al consolidarsi di uno spazio fisico, queste reti di mutualismo hanno permesso di dare casa, supporto legale e tregua dalla strada a molti che sono transitati in quartiere o che vi erano rimasti bloccati.

Un insieme di relazioni nutrito dalle forme di autorganizzazione di chi in queste strade vive e lavora e tra cui vi è la volontà di mantenere sotto controllo il consumo di droghe pesanti nonché le dinamiche di violenza che si innestano in questo tentativo. Di fronte alla complessità di queste interazioni sociali in stato d’assedio risultano deleteri tanto i raid delle forze dell’ordine, che di recente hanno minacciato l’uso del taser nei confronti di una persona con forti fragilità psichiche, quanto chi, come la cooperativa, dichiara che “noi […] non riusciamo ad accogliere le diversità di punti di vista espressi da un territorio complesso quale quello di San Berillo”. È evidente come sia difficile costruire percorsi di autodifesa da processi politico-economici così soverchianti. Le vite di chi ci prova senza farne una professione sono sempre più indebolite dall’impoverimento generale, che porta attivisti e attiviste – e in modo particolare chi è razzializzato – a sottostare a impieghi a nero e mal pagati nella ristorazione o a dover migrare per mantenersi. Il processo di turistificazione e l’uso repressivo della retorica del degrado, in una città sommersa dalla spazzatura e sotto commissariamento, sono uno dei principali terreni di lotta, mentre il Pnrr sta ridefinendo anche i destini di quartieri popolari periferici e mettendo in pericolo spazi sociali come il Laboratorio urbano popolare occupato (LUPo) che, non a caso, espone striscioni come “No alla riqualificazione di San Berillo” e “Il vero decoro sono spazi e comunità autogestite”.

Eppure quest’estate a San Berillo, da quando bell hooks ha inaugurato un’inaspettata stagione di lotta, si sono tenute assemblee e ci si è data la possibilità di condividere le proprie esperienze di violenza istituzionale: è così che quelli che vengono vissuti come problemi individuali possono diventare rivendicazioni collettive. Come detto durante una partecipata assemblea di quartiere, convocata dalla Gambian Youth Association, “per le persone non bianche San Berillo è l’unico luogo sicuro, perché qui c’è comunità”. Durante l’assemblea questa comunità ha criticato il modello portato avanti da Trame.

La risposta, un po’ goffa, della cooperativa è stata che sì, forse qualche errore è stato commesso, ma solo perché i soci non sono competenti in questioni migratorie. L’assemblea però ha parlato anche di altro, a partire dalle pratiche illegittime di Questura e Comune che richiedono un certificato di ospitalità per poter rinnovare i permessi di soggiorno; un certificato che nessuna associazione del privato sociale in quartiere si impegna a offrire. C’è chi ha proposto di aprire un dormitorio senza condizioni di accesso. Altri ancora hanno sottolineato che per molte persone il rinnovo dei documenti non è più una possibilità, a causa delle leggi sull’immigrazione e della criminalizzazione di chi vive e lavora in quartiere. “Quando arriverà la polizia a distruggere tutto questo, è su di noi che si accaniranno”: oltre alla questione abitativa, bisogna allora difendere la possibilità di autodeterminarsi con le attività di ristorazione e i piccoli commerci, che al momento si fanno all’aperto e che si vorrebbe poter tenere in luoghi più protetti. È ribaltando insieme il concetto di sicurezza associato a San Berillo che si possono rafforzare, almeno parzialmente, le pratiche di difesa e mutuo aiuto in quartiere, impedendo a tutti gli imprenditori della rigenerazione urbana – comprese le cooperative sociali – di dispossessare le persone non solo della possibilità di abitare un luogo, ma anche del diritto di parola e di organizzazione. È così che bell hooks a San Berillo è riuscita ad aprire spazi di politicizzazione delle frontiere di razza, genere e classe, laddove prima era impedito poterle nominare.

Spazi necessari, da alimentare e mettere in connessione creando una rete di città che non hanno paura del margine.

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