I cruciali commissari politici
Il governo Negrín ha in serbo un’altra importante novità e la vara nell’ottobre 1938: la riforma del ruolo di commissario politico nelle formazioni combattenti. Nelle milizie dell’estate 1936 esiste già un incaricato preposto a sorvegliare l’affidabilità dei tecnici militari, non certo quella dei combattenti volontari e motivati. Con il passar del tempo, la stabilizzazione delle istituzioni e la nascita dell’Ejército Popular, con leve obbligatorie di massa, il loro compito si trasforma: diventano di fatto un organo di propaganda (spesso filocomunista) e di controllo delle idee politiche e delle manifestazioni di insofferenza e dissenso dei soldati. Il modello, anche in questo aspetto, è la figura del commissario politico propria dell’esercito sovietico. Tuttavia in Spagna (e la cosa succede per numerose disposizioni governative), la definizione esatta delle sue funzioni non è mai raggiunta. Il decreto dichiara che lo scopo è quello di «rafforzare e incrementare la capacità di lotta dei combattenti, instillare nei soldati e nei comandanti lo spirito di un’elevata disciplina militare e dar vita a un clima di abnegazione, sacrificio e amore per la lotta» [12]. In pratica un ruolo di supervisione sul funzionamento della gerarchia e di collaborazione con il comando militare. Infatti il commissario politico, in quanto «rappresentante del governo», è addetto alla propaganda e a tener alta la volontà di combattere. Inoltre si istituisce, a livello ministeriale, un organo di direzione gerarchica, un commissariato politico direttamente nominato dal ministro della Guerra. Poiché il potere del PCE in queste strutture va ampliandosi di continuo, non è errato considerare i commissari come degli agenti più del PCE che dello stesso governo.
Nell’estate del 1938 inizia l’ultima grande offensiva repubblicana, quella sul fiume Ebro, con l’obiettivo di conquistare un corridoio di collegamento con la Catalogna. I repubblicani mobilitano centinaia di migliaia di soldati e riescono, ma solo per qualche tempo, a occupare territori oltre il fiume. Lo sforzo eccezionale del fronte termina, verso la fine del 1938, con l’accettazione della sconfitta, cioè con il ritiro a sud del fiume e le conseguenti grosse perdite in uomini e materiali. Infine, il cedimento democratico a Hitler, siglato a Monaco nel settembre 1938, mostra che né Francia né Gran Bretagna intendono opporsi con la forza all’espansione del nazifascismo. Le residue speranze di aiuti da parte delle democrazie europee svaniscono del tutto.
Il partito «necessario»
Nel frattempo, dentro l’anarcosindacalismo si sviluppa un dibattito sulle prospettive politiche e organizzative che rimanda a questioni teoriche di non poco conto. In molti articoli, ospitati dalla rivista «Timón» diretta da Diego Abad de Santillán, Horacio Prieto, dirigente della CNT del nord trasferita in Catalogna dopo la caduta delle Asturie, presenta una serie di considerazioni critiche verso la CNT e la FAI . Il «comunismo libertario» previsto dal congresso di Saragozza andrebbe valutato come un’aspirazione lontana e in sostanza l’anarchismo costituirebbe solo «una morale e una filosofia». Sarebbe perciò necessario pensare a una lunga «fase di transizione» durante la quale attrezzarsi, con il metodo «dell’opportunismo e della flessibilità», per gestire senza titubanze fette di potere statale legislativo. In più, sarebbe conveniente presentarsi alle elezioni sotto le vesti di un Partito socialista libertario. «L’apoliticismo libertario è morto» sentenzia Prieto, che si definisce totalmente «possibilista» e giunge ad accusare la FAI di «gesuitismo»[13].
Trasformarsi in partito, secondo Prieto, sarebbe la naturale evoluzione della FAI , anzi, se non lo facesse, il movimento specifico non avrebbe ragione di esistere, sarebbe «un fantasma, un grido di guerra, un distintivo dell’infantilismo rivoluzionario» [14]. Un Plenum delle federazioni regionali del Movimiento Libertario, che si svolge nell’ottobre 1938 a Barcellona, discute questa proposta ma si ferma sulla strada della metamorfosi completa. Si accetta fino in fondo l’inevitabile impegno politico derivante dalla situazione eccezionale, dovuta a una crisi bellica sempre più irrisolvibile, ma alla fine si respinge la prospettiva di una futura collaborazione stabile con i partiti e lo Stato. Dopo un paio di mesi la tendenza di Prieto si diffonde nelle fila confederali tramite apposite pubblicazioni, ma il 26 gennaio 1939 i franchisti giungono a Barcellona e nella lunga colonna di quasi 500.000 persone che si dirige dalla metropoli catalana al confine francese non vi è un clima adatto per le dispute teoriche.
Resistere senza speranza
Ai primi di febbraio del 1939 la Spagna lealista controlla ancora circa il 30% del territorio conteso e, sulla carta, dispone di un esercito di 3-400.000 soldati. Naturalmente la caduta della Catalogna provoca un terremoto politico e sociale nei vertici istituzionali. Da un lato Negrín e il PCE dichiarano, con grande enfasi propagandistica, di voler resistere fino all’ultimo uomo in quanto considerano prossimo un conflitto mondiale in cui la Spagna legittima, cioè repubblicana, potrebbe partecipare a fianco degli Alleati. Con questo intento, il governo effettua il richiamo di molti giovani e giovanissimi, fino ai 17 anni, che sono popolarmente chiamati «la quinta del biberón». La mobilitazione massiccia dei soldati rende ancora più drammatica la scarsità di armi e munizioni. Sull’altro versante si forma un fronte, non ben definito, di chi non ritiene logico, né possibile, sostenere ulteriormente i sacrifici bellici e pensa sia il caso di cercare una via d’uscita, patteggiando con Franco una soluzione onorevole e ottenendo condizioni umanitarie per le truppe repubblicane sconfitte. La FAI matura una posizione di duro attacco al governo Negrín, considerato responsabile del fallimento complessivo e dell’inganno perpetrato ai danni dell’opinione pubblica: i contatti con l’estero, lungi dall’essere promettenti come dichiarato nel giugno 1937, non offrono la minima speranza, gli approvvigionamenti sono scarsi e incerti e il fronte arretra pericolosamente. In più, Negrín decide di dichiarare lo «stato di guerra», cioè di affidare tutto il potere ai militari, un provvedimento che era sempre stato rinviato in quanto le forze sindacali e politiche non volevano, sin dal luglio 1936, sottostare ai comandi militari di cui si fidavano poco.
Nei primi mesi del 1939 la FAI sembra distinguersi dalla linea filo-governativa della CNT , legata sempre di più alla UGT . L’organizzazione anarchica specifica intanto ha aumentato la presenza di propri esponenti ai vertici militari delle divisioni superstiti e ne ha incrementato i collegamenti. Si è inoltre impegnata nella difesa dei propri militanti dallo stillicidio di aggressioni ed eliminazioni condotte da elementi del PCE attraverso le Checas, tanto che si valuta la possibilità di dotarsi di Controchecas che agiscano sullo stesso piano, e pare che il progetto si sia concretizzato [15].
A metà febbraio 1939, il responsabile della Difesa della FAI invia un messaggio interno nel quale ribadisce la «ferma intenzione di vincere o morire» espressa dai comandanti militari vicini o interni alla federazione. Tuttavia, nelle stesse giornate viene spedito a Segundo Blanco, l’unico ministro della CNT in carica nell’ultimo governo Negrín, un messaggio riservato, firmato sia dalla FAI che dalla CNT , nel quale si afferma a chiare lettere l’urgenza di «salvare la nostra militanza» prevedendo l’arrivo di «navi straniere per imbarcare i militanti antifascisti» [16]. La Montseny, García Oliver e Vázquez, vale a dire i principali dirigenti della FAI e della CNT , nonché membri del Comité Ejecutivo e della Comisión de Asesoría Política, hanno dei contatti con Azaña per esplorare la possibilità di trattare con Franco, che ormai può contare, di lì a poco, sul riconoscimento diplomatico di Francia e Gran Bretagna.
Una tardiva alleanza anticomunista
In questo contesto esplode un violento conflitto tra Negrín, sostenuto dai comunisti, e un insieme di forze che si riconoscono nel colonnello Sigismundo Casado, leader apartitico ma anticomunista. Il governo Negrín sta procedendo alla nomina, quali comandanti militari di ciò che resta dell’esercito, di personaggi notoriamente comunisti come il neogenerale Juan Modesto.
Con la motivazione di cercare un’auspicata intesa, il governo invita Casado a recarsi a Yuste, in una fortezza difesa da formazioni comuniste di provata fede. Casado ritiene, non a torto, di trovarsi di fronte a una trappola e, dopo essersi assicurato l’appoggio delle efficienti forze armate confederali agli ordini di Cipriano Mera, convoca il 3 marzo a Madrid vari esponenti militari e politici. In quella riunione si vara un nuovo governo, denominato Consejo Nacional de Defensa, e si dichiara decaduto Negrín. Un proclama emesso attraverso Radio España informa che il potere risiede ora nel Consejo al cui vertice si trova il generale José Miaja, già responsabile militare della difesa della capitale, con Casado alla Difesa e Julián Besteiro agli Affari Esteri. Quest’ultimo è un docente universitario, esponente dell’ala del PSOE più diffidente verso il PCE , poco avvezzo alle manovre politiche, ma anche lui ritiene che sia venuto il momento di cercare una soluzione che comporti il minimo sacrificio possibile per giungere a una pace con Franco. Da parte sua Negrín mobilita immediatamente le truppe ancora fedeli per respingere il «golpe Casado».
Nelle strade di Madrid avvengono, per poco più di una settimana, accesi scontri armati tra divisioni filocomuniste, che hanno abbandonato la linea del fronte, e altre di varia composizione, tra le quali si distinguono quelle confederali di Cipriano Mera. Le forze ribelli al Consejo cedono dopo qualche giorno e circa 30.000 loro appartenenti vengono fatti prigionieri, ma in base agli accordi con i vincitori sono subito rimandati al fronte. Vengono condannati a morte e uccisi solo alcuni ufficiali filocomunisti, come Luis Barceló, che avevano fucilato militari schierati a favore di Casado. Nella lotta tra antifascisti, una sorta di riproposizione del maggio barcellonese ma di segno e risultato opposto, si contano circa 2.000 morti, e gli eventi di questi giorni segnano la crisi dell’egemonia comunista e moscovita sulla Repubblica. Tuttavia, il fronte interno anticomunista è in definitiva molto composito e l’elemento comune più rilevante è il tentativo di mitigare le conseguenze della imminente disfatta.
L’inevitabile tragedia
Le ripetute proposte di pace a Franco, che Casado si illude di convincere presentandosi come un anticomunista e un militare di professione, si basano su una sorta di riedizione dell’«Abrazo de Vergara», dal nome del villaggio basco dove nel 1839 si firmò l’accordo tra un generale liberale e uno carlista che poneva fine alla guerra civile che durava da sette anni. Ma l’intesa tra comandanti militari, in un certo senso corporativa e antipolitica, questa volta non può essere raggiunta per evidenti ragioni di disparità di forze in campo e non solo.
Alla fine di marzo, il Consejo Nacional de Defensa decide di mettere in atto l’evacuazione della capitale. L’obiettivo è di concentrare soldati e civili nei porti mediterranei in attesa dell’arrivo delle navi inglesi e francesi per l’espatrio di migliaia di repubblicani. Per vari motivi, tra cui la presenza minacciosa della flotta franchista, le compagnie di navigazione che avevano fin lì garantito l’imbarco ad Alicante, ultimo porto rimasto sotto il controllo repubblicano, non fanno arrivare le imbarcazioni promesse. La massa di repubblicani, valutata attorno alle 15.000 unità [17], che affolla le banchine del porto da una settimana nell’attesa di una soluzione più volte riconfermata, vede infine avvicinarsi due navi, ma resta esterrefatta: sono due navi militari franchiste. Tra i futuri prigionieri dei fascisti e dei franchisti vi sono coloro i quali non vogliono accettare le sicure umiliazioni e le torture psicologiche e fisiche che, ne sono sicuri, li aspettano per molti anni. Non si sa esattamente quanti siano stati i suicidi tra le banchine, ma di sicuro alcuni militanti preferiscono questa estrema forma di protesta a un futuro di galera o al probabile plotone di esecuzione. Máximo Franco, comandante di Divisione, Evaristo Viñuales, già membro del Consejo de Aragón, sono tra quelli che si suicidano subito. Un militante di vecchia data come Mauro Bajatierra, invece, pochi giorni prima si è rifiutato di abbandonare Madrid e ha deciso di morire combattendo: spara dalla propria casa contro le truppe franchiste che invadono la capitale.
Buona parte dei militanti catalani sono già in esilio in Francia da fine gennaio, sistemati in campi di concentramento improvvisati e umilianti. Altri sono riusciti a fuggire con mezzi di fortuna in Algeria o restano nascosti per anni in rifugi più o meno sicuri. È evidente che il movimento anarchico spagnolo, e di conseguenza quello mondiale, non sarà più lo stesso dopo questo drammatico triennio di storia sconvolgente.
Il generale Franco dichiara terminata la guerra il 1° aprile 1939. Subito dopo il papa Pio XII spedisce al Caudillo un telegramma di felicitazioni per la «vittoria della Spagna cattolica» [18].
Fine del VI Capitolo
Note al capitolo
[12] J. Peirats, La CNT …, cit., vol. 4, p. 353.
[13] C.M. Lorenzo, Los anarquistas españoles…, cit., p. 238 e seguenti.
[14] Ivi, p. 239, nota.
[15] J. Peirats, La CNT …, cit., vol. 4, p. 263.
[16] Ivi, p. 278.
[17] Resta valido il classico L. Romero, El final de la guerra, Ariel, Barcelona, 1976. Tra i lavori sintetici, utili per un’introduzione al labirinto della guerra civile, vi è il libro, più volte rieditato, di P. Preston, La guerra civile spagnola, Mondadori, Milano, 2006.
[18] Dal quotidiano « ABC », 2 aprile 1939, riportato dal testo divulgativo di A. Beevor, La guerra civile spagnola, Rizzoli, Milano, 2006, p. 452.