De la calle al frente
Le milizie sorgono quasi spontaneamente come risposta immediata al golpe. Il riferimento è spesso al sindacato, ovviamente in primis la CNT , ma anche al quartiere o al villaggio. Che sia basato sull’esperienza di lotte e rivendicazioni, spesso violente, attorno al tema del lavoro o fondato sull’intesa fra militanti e simpatizzanti radicati sul territorio, il funzionamento del gruppo miliziano poggia su un dato essenziale: la conoscenza e la stima reciproca dei partecipanti che, in condizioni di sostanziale eguaglianza, riconoscono in uno di loro, e temporaneamente, il più adatto a organizzare e condurre le operazioni militari.
Non sono nuove le milizie nella storia contemporanea spagnola, anzi. I movimenti liberali e progressisti del primo Ottocento, nei quali l’iniziativa armata era tutt’altro che secondaria, avevano dato vita a formazioni miliziane pronte a difendere le conquiste democratiche e anticlericali, soprattutto nelle città più avanzate, da Barcellona a Valencia e Madrid. Spesso sono le milizie cittadine che (ad esempio in Catalogna nel 1835) difendono i centri urbani più liberali dagli attacchi delle truppe carliste, le quali sostengono, oltre a una questione dinastica, il modello di un potere teocratico, antimoderno e antiurbano.
Talvolta con il nome di Voluntarios de la Libertad appaiono anche nella vicenda di Amedeo di Savoia, el rey efímero, che nel 1871 e per poco più di due anni ebbe l’imprudenza di sedere sul trono spagnolo.
Dall’altra parte della barricata, quella dei ceti ricchi e conservatori, si schierano formazioni civili di «cittadini dell’ordine» (chiamati, sempre nella Catalogna ottocentesca, Sometent) che affiancano l’apparato repressivo statale nella lotta alle agitazioni operaie. Esse anticipano altre squadre che, in epoca successiva, difenderanno armi alla mano la struttura gerarchica messa in forse dai movimenti popolari e antiautoritari. Se la prova del fuoco del luglio 1936 nelle strade e piazze di Barcellona segna indubbiamente un trionfo, anche se non esclusivo, del modello miliziano, il discorso si fa diverso e più complicato quando dalla città catalana partono le colonne, in buona parte confederali, per battersi sul fronte aragonese. L’obiettivo ambizioso è di liberare Saragozza e occupare la Navarra carlista per congiungere il nord-est repubblicano, con le industrie meccaniche catalane, al nord-ovest delle Asturie e dei Paesi Baschi che dispongono di industrie siderurgiche e di importanti risorse minerarie. La speranza di occupare una fascia di territorio vasto e dall’economia complementare e solida alimenta la spinta dei rivoluzionari catalani e dei loro compagni aragonesi.
A questo punto, però, quello slancio che era stato risolutivo nei vicoli e negli spazi urbani della capitale catalana deve fare i conti con un contesto molto diverso. La mentalità miliziana, ben ricordata da resoconti di testimoni oculari, vorrebbe che l’avanzata verso Saragozza non si fermasse, che continuasse giorno dopo giorno. Ma di fronte, nella città aragonese fortificata e in centri simili come Huesca, non si trova a combattere un insieme di truppe poco fidate per i ribelli come quelle che in parte avevano disertato a Barcellona. Qui non ci sono incertezze nei comandi degli ufficiali assediati, compatti nel dirigere le operazioni, e oltretutto si evidenzia la sproporzione di armi e munizioni fra miliziani ed esercito golpista. L’impossibilità a proseguire nell’attacco, appresa a costo di gravi perdite umane, costringe a consolidare le proprie posizioni di fronte al nemico con lo scavo di trincee, la preparazione di rifugi, la stabilizzazione del fronte. Nella cornice descritta solo una potente fornitura di armi moderne, dagli aerei all’artiglieria, potrebbe far capitolare i golpisti assediati, mentre gli armamenti leggeri in dotazione delle milizie possono al più battere gli avversari in piccoli episodi, per quanto importanti sul piano morale e psicologico.
La stessa Colonna Durruti, la più fornita di mezzi bellici fra le formazioni anarchiche schierate in Aragona (accanto a quelle del POUM , del PSUC e dei catalanisti), risente dell’inferiorità tecnica. La CNT – FAI ricerca armi e munizioni a livello internazionale attraverso un’apposita Comisión de Compras de Armas, ma con pochi risultati, anche per il sabotaggio messo in campo da politici come Negrín e Prieto che controllano ministeri chiave quali le Finanze e la Guerra. È appunto questo uno dei problemi che consigliano, quasi impongono, la presenza libertaria ai massimi livelli statali. Quanto utile sia l’ipotesi di rafforzare milizie e collettività occupando dei posti ministeriali sarà al centro di valutazioni contrastanti.
Per seguire le vicende di Durruti, un mito vivente per molti combattenti e simpatizzanti libertari, va ricordato che resta al comando della propria formazione anche dopo aver accettato, sia pure malvolentieri, la militarizzazione. In realtà non ricopre mai il grado di generale corrispondente alle sue funzioni, ma accetta le conseguenze della decisione governativa. Ai primi di novembre del 1936 le truppe di Franco sono alle porte di Madrid e si teme che, da un momento all’altro, la capitale cada in mano ai ribelli. In quei giorni si forma il secondo governo di Largo Caballero esteso alla CNT – FAI e giungono a difendere la capitale storica i primi contingenti delle Brigate Internazionali, mentre iniziano a essere operativi decine di aerei e carri armati di provenienza sovietica. La propaganda staliniana utilizza ovviamente a fondo questi aiuti concreti.
Tenendo conto della situazione di emergenza e dell’ingresso in forze sulla scena bellica dell’ URSS , alcuni ministri della CNT – FAI spingono Durruti a spostarsi con urgenza a Madrid. Il fronte aragonese è quello con più forze che combattono per la rivoluzione sociale e non solo per la difesa della Repubblica, ma difetta di armi e di sostegno. L’avanzata dei rivoluzionari è bloccata malgrado l’impegno di migliaia di miliziani partiti da Barcellona, che aumentano nelle settimane successive.
Durruti si sposta con circa 2.000 miliziani sul fronte di Madrid, dove arriva il 16 novembre schierandosi subito in prima linea, nella Città Universitaria, per coordinare la battaglia. Malgrado il faticoso viaggio e un’intera giornata di scontri, i miliziani non vengono sostituiti come altri combattenti e la loro efficienza ne risente. Durruti cerca di animare la resistenza e si reca spesso nelle posizioni più avanzate. Nel corso di uno di questi spostamenti è colpito al cuore da un proiettile e muore poche ore dopo in ospedale. Il dolore e lo sconforto per la perdita di un militante simbolo dell’anarchismo, famoso per aver superato, a partire dai primi anni Venti, prove molto dure, fa subito circolare voci incontrollate sulla responsabilità della sua fine. Non viene esclusa un’eliminazione da parte dei comunisti, intenzionati a decapitare le formazioni combattenti libertarie e screditarne l’immagine pubblica. A loro volta i comunisti mettono in giro la voce che Durruti sarebbe stato colpito da un miliziano in fuga che avrebbe tentato di fermare. Senza disperdersi nelle tante congetture, che hanno animato una variopinta letteratura, si ricorda solo che secondo Abel Paz si è trattato di un atto maldestro con il mitra compiuto dallo stesso Durruti nel momento di scendere dall’automobile [6] .
Il suo funerale si svolge qualche giorno dopo a Barcellona con una folla straripante che si muove a fatica e una commozione generale. Al di là dei dati spettacolari, la cerimonia testimonia la grande forza di cui ancora dispongono l’anarchismo e l’anarcosindacalismo. Ma al tempo stesso il movimento libertario perde un leader che, pur non avendo raffinate capacità intellettuali, è stato in grado di affascinare e animare, con la parola e con le azioni, vasti ambienti popolari. L’evento traumatico rappresenta, secondo certe interpretazioni, la fine dell’egemonia libertaria e l’inizio di un lento ma inesorabile indebolimento, cruciale per la ripresa del potere di fatto da parte dei vertici istituzionali. Brigate Internazionali, ma non solo
Le Brigate Internazionali costituiscono un capitolo importante e interessante dell’intervento straniero in Spagna. Qui si vogliono dare solo poche informazioni di massima, rinviando ogni utile approfondimento ai numerosi studi sul tema. Oltre 30.000 sono i brigatisti presenti in Spagna, provenienti da una cinquantina di paesi. Un terzo circa sono francesi, poi seguono i contingenti polacchi e italiani che si stima avessero poco più di 3.000 combattenti. Alle Brigate partecipa anche un numero imprecisato di combattenti di origine marocchina e algerina che provengono dall’emigrazione in Francia e che coltivano la speranza utopica di preparare la lotta sociale anticolonialista. Ne rimane una traccia chiara nel discorso, in spagnolo e in arabo, letto da un soldato maghrebino della Colonna Ascaso che si batte sul fronte di Aragona, il più libertario. Il suo appello a combattere con gli antifascisti è diffuso dalla radio della CNT – FAI nel settembre 1936. Si tratta di aiutare oggi i rivoluzionari spagnoli per avere domani, dopo la vittoria sui golpisti, il loro appoggio per conquistare l’indipendenza dal colonialismo.
Secondo alcuni militanti anarchici italiani, ad esempio Umberto Marzocchi e Umberto Tommasini, l’intervento delle Brigate Internazionali, per quanto generoso e sofferto, è usato dall’ URSS per i propri interessi di potenza e non per difendere realmente la Spagna assalita dai golpisti. A conferma di tale strumentalizzazione del volontariato internazionale si cita il fatto che la sconfitta dei golpisti da parte della Repubblica appare più realistica nelle prime settimane, quando i militari non si sono ancora riavuti dalla iniziale sconfitta. Ed è proprio quello il momento in cui centinaia, e poi migliaia, di militanti libertari, in esilio e non, attraversano i Pirenei per combattere subito contro la reazione militare; al contrario, la formazione e l’attività delle Brigate Internazionali viene rinviata e inizia in pratica solo a fine ottobre, quando ormai la situazione è cambiata.
Per la Società delle Nazioni – ma il dato appare sottostimato – solo un paio di migliaia i volontari antifascisti internazionali combattono al di fuori delle Brigate e quasi tutti militano nelle formazioni anarchiche. Gli anarchici italiani in Spagna sono stati varie volte oggetto di valutazione quantitativa, con risultati decisamente diversi. Non sarebbero molto numerosi secondo il racconto degli ex combattenti delle Brigate Garibaldi, a prevalenza comunista. Risultano 800 e più secondo la schedatura redatta nel 1982 da Gino Cerrito, dell’Università di Firenze. Un dato certo e significativo è quello dei 229, quasi tutti uomini, schedati nel Dizionario biografico degli anarchici italiani, opera che comprende poco più di 2.000 biografati su un insieme di decine di migliaia di militanti attivi dal 1872 al 1968 [7] . Si tratta quindi di un considerevole valore statistico, più del 10%, percentuale che rende plausibili i numeri forniti da Cerrito.
Non è qui la sede per un’analisi del peso specifico dell’anarchismo di lingua italiana rispetto al complesso del movimento anarchico che in Spagna ha giocato il tutto per tutto. Di certo fu tutt’altro che secondario, anche per la presenza del periodico «Guerra di Classe», diretto da Camillo Berneri fino al maggio 1937, che svolse un ruolo importante e scomodo, ad esempio nella coraggiosa denuncia dei processi farsa nell’ URSS contemporanei alla guerra civile.
Il modello miliziano, sorto spontaneamente ma dotato di poche armi e senza artiglieria o aviazione, regge per molte settimane la lotta contro l’esercito ribelle, professionale ed esperto. Secondo alcuni critici, le milizie mostrano chiari limiti quando lo scontro con l’esercito golpista passa dalle città al campo aperto, e non solo per l’angosciante carenza di mezzi tecnici, ma anche per le regole di funzionamento interno. L’egualitarismo e il metodo assembleare delle milizie, pur se non sempre praticati, sarebbero incompatibili con una guerra tutto sommato tradizionale, basata su una struttura di comando unica e la garanzia che gli ordini siano eseguiti senza riserve. In pratica si tratta di riscontrare che la regola anarchica della libertà individuale non può essere applicata in una situazione estremamente accentrata come quella bellica.
Non sono solo i comunisti e i repubblicani, conservatori anche se antifascisti, a giudicare impossibile il mantenimento del sistema delle milizie già nella tarda estate del 1936. In realtà, per quanto li riguarda, è la stessa esistenza di una CNT – FAI in armi e semindipendente a essere un’anomalia da chiudere al più presto. L’imposizione della disciplina e del comando unico per fronteggiare le urgenti necessità della guerra favorisce il loro progetto di restaurazione dello Stato e della gerarchia organizzativa. Tuttavia, anche alcuni militanti libertari di vecchia data ritengono non rinviabile l’applicazione di una disciplina gerarchica al posto della purtroppo fallimentare autodisciplina. In particolare le memorie appassionate e sincere di Cipriano Mera, uno dei leader del Sindicato de la Construcción di Madrid, più volte incarcerato per l’attività e i tentativi insurrezionali dei primi anni Trenta, si soffermano sul problema del passaggio dall’autodisciplina miliziana alla disciplina gerarchica dell’Ejército Popular.
La decisione ufficiale del governo di Largo Caballero risale all’autunno 1936, ma le resistenze si susseguono man mano che le nuove norme circolano e vengono applicate. La via d’uscita seguita da diverse formazioni miliziane per superare la situazione sconfortante e il ricatto governativo riguardante le forniture necessarie a condurre la lotta armata è quella di trasformarsi in una Divisione. La Colonna Durruti diventa ad esempio la 26a Divisione del nuovo esercito, mantenendo i propri appartenenti e la propria struttura operativa. Analogamente procedono la Ortiz, la Vivancos, la Ascaso-Jover, colonne miliziane così chiamate dal nome dei loro comandanti.
Più radicale è la risposta della Columna de Hierro, formata da combattenti libertari provenienti da Valencia e dintorni. Tra di essi prevale la tendenza antimilitarista, ma dopo una serie di discussioni animate i più irriducibili alla gerarchia e alla disciplina militare si ritirano e il 21 marzo 1937 anche questa colonna, o ciò che ne resta, si sottopone alla militarizzazione, cioè alla trasformazione degli incarichi temporanei in gradi e all’inserimento a tutti gli effetti nell’Ejército Popular. Questa metamorfosi significa l’allontanamento delle miliziane, che pure avevano dimostrato un impegno indiscutibile.
Note al capitolo
[6] A. Paz, Durruti…, cit., t. 2, pp. 231-276.
[7] G. Berti (cur.), Dizionario biografico degli anarchici italiani, 2 voll., BFS , Pisa, 2003-2004. Sugli anarchici italiani in Spagna puntuali riferimenti in L. Di Lembo, Guerra di classe e lotta umana. L’anarchismo in Italia dal Biennio Rosso alla Guerra di Spagna (1918-1938), BFS , Pisa, 2001, pp. 192-219.