Acratibis, “Il fattore morale nell’anarchismo”

In momenti di forte crisi sociale, economica e culturale, la disaffezione verso i modelli organizzativi verticistici è molto alta. Una collettività sociale del genere, pur essendo controllata, può evidenziare al suo interno varie spaccature in maniera maggiore. All’interno di tale tipo di società troviamo coloro che: accettano lo stato di cose esistente per calcolo (o per difendere uno o più privilegi); vogliono cambiare radicalmente tutto; rimangono fermi in attesa dell’arrivo di un messia; fanno quel che vogliono incuranti di tutto e tutti; e via dicendo.
Il contesto divisorio, in generale, è un tratto dei vari movimenti politici.
Tra questi, vi troviamo il movimento anarchico
Ne “Il fattore morale nell’anarchismo”, pubblicato su “La Battaglia. Periodico Settimanale Anarchico” da Acratibis (pseudonimo di Alessandro Cerchiai) il 28 Febbraio 1909, l’anarchico pesciatino criticava una serie di modalità date dall’individualismo, comunismo e sindacalismo che mantenevano in vita le logiche di sfruttamento.
La coerenza tra mezzi e fini, punto centrale della teoria anarchica – che Cerchiai metteva in una logica di fattore morale-, veniva modificata, dimenticata o accantonata per via di atteggiamenti personalistici ed egoriferiti, contribuendo al mantenimento dello stato di cose.
Nonostante sia passato più di un secolo dalla critica di Cerchiai, vi sono alcune macro-somiglianze tra il movimento anarchico di adesso e quello dell’epoca.
Innanzitutto si nota una profonda divisione, quando non spaccatura, dovuta a fattori di tipo personale (ma spacciati per politici), a fattori politici (legati al tema delle alleanze con gruppi e personaggi non anarchici) ed all’inserimento all’interno delle lotte in corso.
Su quest’ultimo punto, in particolare, si portano avanti dei discorsi e delle pratiche “single issue”, cioè centrate solo su un tipo di lotta (antimilitarismo, ambito storico etc), annacquando – nel migliore dei casi – l’ideale anarchico e negando, di conseguenza, qualsiasi velleità di scardinamento di un sistema che si basa sull’oppressione di classe genere, razza e specie.
C’è un altro aspetto che oggi è ancor più evidente: l’incapacità di guardare all’ideale anarchico come uno strumento per arrivare ad una società libera, senza quelle prevaricazioni ed alienazioni date dal Dominio al cui interno vi ritroviamo non solo i classici “Stato e Capitale” ma anche le varie oppressioni sopracitate.
Questa incapacità, spesso, si accompagna all’intendere l’appartenenza politica (e questo vale anche per chi non si definisce anarchicx) come una questione sottoculturale o identitaria, senza poi realmente portare avanti un’opera di studio critico e di pratica contro lo status quo che possa servire da base per scardinare il nostro esistente – e andare, quindi,verso un modello alternativo e liberatorio.
Di fronte ad una situazione infuocata e potenzialmente esplosiva in Italia, così come nel resto del mondo (ed in alcune zone l’esplosione c’è già stata), bisogna riuscire a capire le posizioni e le prassi errate all’interno del mondo anarchico e porvi rimedio.
Intendiamo l’anarchismo come un contenitore: in esso troviamo gli strumenti adatti a distruggere e superare il Dominio nelle sue mille manifestazioni, macro o micro che siano, in cui sono compresi gli atteggiamenti tossici di appartenenti al movimento anarchico stesso.

La Battaglia. Periodico Settimanale Anarchico”, Anno V, n. 205, 28 Febbraio 1909

I

Mi ricordo di avere letto un libro di Schopenhauer ch’è più difficile risolvere un problema di filosofia che il più complicato calcolo di trigonometria. Schopenhauer ha espresso una grande verità – una verità che meriterebbe di essere ben meditata dagli anarchici d’ogni tendenza o scuola.

Siamo arrivati in un’epoca – e questa è una dolorosa constatazione – in cui non si guarda più al fine da raggiungere (e la prova n’è che malgrado tutte le nostre critiche…reciproche si è quasi del tutto cessata l’opera rivoluzionaria contro le presenti istituzioni) ma ad accapigliarci come tanti cani, per abbaiare le più strampalate sciocchezze sull’individuo e la società.

Vent’anni fa, quando gli anarchici si potevan contare, come si suol dire, sulle dita, poche diecini di individui risoluti riescirono a richiamare l’attenzione del mondo sulle loro idee e su sé stessi…

E pure si discuteva anche allora di comunismo e d’individualismo, ma dopo la discussione, magari dopo l’alterco, gli uni e gli altri si separavano, non per meditare l’insidia contro il compagno, ma per far guerra al nemico – alla borghesia.

L’individualista si mescolava alla folla cenciosa e affamata dei lavoratori, e nel momento propizio saliva su un fanale o su un baroccio che fermava nella strada, e la sua voce, se non dotta, sempre sincera e inesorabile suonava come una maledizione e come una minaccia contro i dissanguatori di sé stesso e di quei poveri paria che l’ascoltavano, stupiti e sbigottiti di udire delle verità che facevano pulsare i loro cuori contro il giogo secolare abborrito, ma che fino allora, come gli avevan detto i loro nonni, credevano fatale.

I comunisti dalla lor parte facevan lo stesso. E come lo dimostrano tutte le leggi di eccezione votate in quel tempo in tutti i parlamenti contro l’anarchismo e gli anarchici, individualisti e comunisti, malgrado le loro beghe, compievano un’opera altamente rivoluzionaria, di vera e propria demolizione del regime borghese.

E oggi? Le cose sono purtroppo mutate. Non si va più nella chiesa stessa a far ringollare al prete le sue turpitudini e le sue menzogne. Non si va più nei comizi elettorali a smascherare i ciarlatani della scheda. Non si va più nelle riunioni operaie a far propaganda delle nostre idee.

E perché? La ragione è subito pronta: l’uno non è oratore; l’altro non ha istruzione.

Queste giustificazioni non fanno una grinza: sono una confessione assoluta d’impotenza.

Impotenza? I fatti smentiscono una tale asserzione. L’oratore che manca per sbugiardare il prete, c’è più vivo che mai, gonfio e tronfio per sfidare a contraddittorio il comunista anarchico, anche se è avvocato. Il filosofo neppure manca quando c’è da sbrodolare un documento di psicopatia sociologica, sul più forte e sull’amoralismo.

Il più forte, l’amoralista, colui che non ha stolti pregiudizi di umanità di diritto, di giustizia, cosa fa egli? Atterra tiranni? sgozza borghesi? svaligia le banche? Lancia bombe nei banchetti dei ministri? si ribella a qualcuno? ha qualcosa da raggiungere?
Egli non è un pazzo…anche tutta questa roba son pregiudizi…

Dall’altro lato il sofisma vigliacchissimo non conduce a una via diversa.
Il sindacalismo, si grida, è sufficiente a sé stesso. Bisogna fare della politica puramente operaia. Non occorre aver una determinata convinzione per raggiungere un fine. Col sindacalismo operaio può esser clericale, monarchico, quacquero per lottare per il quarto stato.

Il clericale può andar a messa, mandare i suoi figli alla dottrina e la moglie a confessarsi; il monarchico può essere fedele al re a mandare i suoi figli a servire ciecamente la patria;il quacquero può aspettare come un fakiro la giustizia da Dio; purché paghino la quota al sindacato, la rivoluzione non può mancar di venire.
Ecco, in riassunto, qual è il pensiero degli individualisti puri e dei sindacalisti ancora più puri dell’anarchismo.

Gl’individualisti puri negano verbalmente (il verbalismo è il loro campo) l’essenza morale dell’anarchismo; i sindacalisti puri, più pratici, la negano coi fatti.

***

E pure checchè ne cianciano gli idioti, se l’anarchia non è una utopia, essa deve basarsi su un principio morale inviolabile: non opprimere il proprio simile, nè per nessuna cosa al mondo subire l’oppressione di chicchesia.

È ciò che purtroppo dimenticano da una parte gl’individualisti e dall’altra i sindacalisti.

Per i primi non vi è che un’entità superiore: l’individuo, per i secondi che una forza suprema: il proletariato.

Gli uni e gli altri cadono nello stesso errore: negano l’umanità.

Il loro rispettivo punto di partenza è diverso, ma si congiungono nel fine.

È d’uopo per afferrare bene questa verità non perdersi nel labirinto dei loro rispettivi contrasti iniziali. Per gli individualisti l’io è il tutto, il Dio onnipossente, per i sindacalisti il tutto, il Dio onnipossente è il noi.

L’io onnipossente, che considera esseri – non esclusi gli umani – e cose come proprietà sua, è un tiranno il cui potere non ha limiti che nella forza degli opposti: questo principio sarebbe la lotta perpetua, il trionfo assurdo e, non a-morale, ma immorale del forte sul debole.

Il noi (questo noi, è il proletariato) onnipossente vuol dominare il mondo, in nome di un preteso diritto, basato sul lavoro materiale.

Qui non è più l’individuo che si impone, ma è la classe che s’impone a tutta la specie.

Non starò qui a confutare dei paradossi evidenti, sia degli uni che degli altri. Ho riso assai di buon cuore di certe invincibili argomentazioni, le une più stravaganti delle altre. Vi pare forse una buona ragione per giustificare l’eterna violenza nelle relazioni degli uomini, che per nascere si deve strappare il cordone ombelicale che ci lega al ventre della madre? E pure anche questa è una prova, secondo i più forti, dell’impossibilità di una morale spontanea, di mutuo appoggio fra gli uomini. I sindacalisti non cadono in errori meno madornali. Per loro non ci sono che i calli alle mani che concedono dei diritti. Chi non lavora materialmente è un nemico, per forza di cose, della classe proletaria.

Io non credo che assurdità più madornale, più immensa sia mai stata concepita.

L’azione rivoluzionaria non può essere circoscritta da un vangelo di somari né di dotti. Come vi sono dei lavori intellettuali abominevoli, ve ne sono di quelli materiali non meno abominevoli.

Il muratore che costruisce il carcere, il fabbro che fabbrica inferriate e ceppi, il tipografo che compone bibbie o lavora nei giornali borghesi sono senza dubbio degli operai manuali, ma – sia pure contro la loro volontà – non meno perniciosi del giudice che condanna, e del giornalista che mistifica le sue vittime per fargli adorare le catene della propria oppressione.

Del resto, noi tutti vediamo che nella società attuale, fatte le debite proporzioni, un vero senso morale sociale è tutt’ora da nascere, non meno fra il proletariato che fra la borghesia. Infatti, noi vediamo che i padroni più perversi, più tiranni, sono appunto degli antichi proletari autentici, saliti a forza d’imbrogli e di birbanterie.

Ed appunto per sviluppare fra gli uomini questo senso morale sociale che noi anarchici dobbiamo combattere senza tregua, non tralasciando mai di dimostrare che la nostra lotta di classe ha per fine l’abolizione di tutte le classi sociali.

La nostra azione non può esser un’azione operia (sic), ma umana, eminentemente umana.

 

II

Non sono pochi coloro che confondono il fine da raggiungere (nel nostro caso è l’anarchia), coi mezzi tattici coi quali si tende a conseguire questo stesso fine.

Fra gli anarchici non vi sono norme materiali fisse di azione (e si comprende: sottoposti a delle norme cesserebbero di esser tali) e tanto meno ve ne saranno quando avranno raggiunto i loro scopi. Ma se non vi sono norme materiali, nell’insieme dottrinario stesso – sia nel fine che nell’azione che questo fine deve raggiungere – scaturisce un criterio morale che forma l’insieme del fine (l’anarchia) e qualifica nell’azione gli atti, individuali e collettivi, come utili per il conseguimento del fine stesso, quando verso questo fine ci conducono, o di dannosi, quando da esso ci allontanano. Così nell’insieme generale degli anarchici rivoluzionari, si è formato un criterio morale attivo che valuta coerentemente le azioni dei singoli e della collettività che dell’anarchia si reclamano, di utili o di dannosi al fine da raggiungere, a seconda se hanno agito nella estensione di questo criterio morale o lo hanno apertamente violato.

L’amoralismo dell’individuo è un non senso: ogni azione umana si estende sempre al di là dell’IO. L’uomo che vive in sé e soltanto per sé è un fossile verso cui i ragli idioti di pochi disgraziati si elevano, ma non esiste nè mai potrà esistere. Non un uomo, ma anche semplicemente il suo cadavere, obbliga gli altri a muoversi per seppellirlo. Immaginiamoci ora se un uomo che vive può pensare senza rivolgersi ai suoi simili, o spandere tutte le qualità, morali o immorali della sua individualità complessa senza che i suoi atti abbiano nessuna influenza su gli altri.

E poi uno non può far tutto da sé. Ma ammettiamo che uno si contenti di quello che può far da sé. Dove andrà ad abitare? Al polo? ci sono gli eschimesi. Ed anch’essi han delle abitudini, dei costumi propri. In una foresta vergine? Ma anche le forte son vergini per modo di dire: ci sono gli indii. Ma l’amoralista si infischia di tutto e di tutti: rovescia tutto quello che si oppone al suo fatale andare. L’amoralismo allora è la guerra di uno contro tutti; poiché chiacchiera a parte, anche gli altri uomini hanno delle braccia per difendersi. L’amoralismo sarebbe la morale della guerra come forma di convivenza umana.
Non occorre allora far propaganda. Anzi c’è una propaganda sola: sfruttare il prossimo. Ma è cosa vecchia – ci son già i borghesi e per il popolo cambiare gli sfruttatori non è una prospettiva troppo bella. Si può tentare un’altra strada per far trionfare la morale dell’amoralismo: prendere il popolo bene dove si trova. Ma ci sono i birri, i boia, le galere. E allora l’amoralismo è una stupida storia di impotenti chiacchieroni se si deve aspettar che non ci siano più leggi, più forza pubblica, più tribunali, insomma se si deve aspettare che il popolo abbia distrutto lo stato (sic) e tutte le istituzioni dell’attuale dominazione per iniziare la morale dei più forti. È meglio star come si sta, perché ben presto lo Stato e tutto il suo corredo di terrori risusciterebbe dalle proprie ceneri.
Insomma se si basa la società umana sulla volontà delle forze dei singoli, agenti, non verso un fine, uno scopo determinato da un consentimento morale comune, ma disparatamente secondo il capriccio dei più disparati istinti, dei più bestiali appetiti, questa società sarebbe il regime borghese peggiorato, poiché l’uomo normale non può vivere solo. La sua natura lo spinge a pagare il tributo per la conservazione della specie; salvo che virtù del nostro amoralista non sia anche di considerare la donna un vile strumento di libidine. Per arrivare a un tal punto non occorre correr tanto: la società borghese ci ha i postriboli. A parte anche tutto ciò se gli amoralisti non vogliono riconoscere nessun legame di affetto le donne fanno gli uomini e, abbandonate, li allevano alla loro morale. Quel che accadrebbe tutti lo comprendono.
Per ritornare la nostro scopo, possiamo dunque stabilire che l’anarchismo come negazione assoluta di ogni legge coercitiva, come negazione di ogni privilegio e come negazione dello stato, deve assicurare la libertà più completa a ogni essere umano, cioè confidare nelle mani di ogni individuo, e per estensione di tutta l’umanità, la sua regione di essere. E come sarebbe possibile un tal fatto, cioè la realtà dell’anarchia, se dalla mentalità collettiva non scaturisse un criterio morale che garantisca la completa libertà dei singoli individui?

L’evidenza di questa proposizione è assiomatica. Non ammette violazioni. Di qui non se n’esce: o la ragione sociale si basa su un consentimento morale, e questa è l’anarchia; o la si basa sulla ragione del più forte, e allora scaturisce la necessità di leggi coercitive per la protezione dei deboli, ed allora abbiamo la società oppressa da un governo.

Ma poi l’importanza del fattore morale nell’anarchismo è ben dimostrata dall’azione comune di tutti gli anarchici. Non abbiamo santi ma l’esempio dei forti, di quelli cioè che han sacrificata la loro vita per vendicare le vittime della tirannia borghese, l’esempio dei forti i nostri giornali li rievocano anche troppo spesso.

Quando si scopre qualche spia in mezzo a noi, che la forte borghesia paga per tendere insidie alla nostra vita, cosa facciamo? Individualisti e comunisti siamo tutti d’accordo: si smaschera la spia e se la si agguanta in tempo le si fa pagare il fio della sua infamia. Anche gli amoralisti, credo, sono d’accordo in questo. È però una incoerenza. Se l’individuo può far tutto ciò che gli conviene, perché metterlo, anche quando fa la spia, alla gogna? Anche per essi dunque havvi una morale che condanna l’infamia ed approva chi fa bene! Ma smascherare la spia è una necessità, si risponderà. È giustissimo; noi non facciamo altro: la nostra morale scaturisce dalla necessità di essere rispettati, poiché sappiamo che il giorno che calpesteremo la ragione del nostro simile, non possiamo aspettarci altro che di veder calpestata la nostra.

Ma da mille e mille fatti quotidiani scaturisce l’importanza del fattore morale nell’anarchismo. Se un sedicente anarchico battezza i figlioli o sposa in chiesa, i nostri giornali lo mettono alla berlina. Se un altro va a fare il krumiro o peggio lo diffidiamo. Perchè? Perchè la nostra morale è contro i farabutti di ogni specie.
Noi siamo contro i capi-popolo. Perchè? Perchè la nostra morale è contro i capi popolo. Siamo contro il parlamentarismo. Perchè? Perchè i nostri principi non ammettono leggi, e di conseguenza crediamo immoralissimo andare a votare per mandare dei fabbricanti di leggi in parlamento.

Così scaturisce chiara, come acqua di purissima sorgente l’importanza del fattore morale nell’anarchismo; e ben possiamo essere certi che nella società del domani sarà la suprema legge custodita nella coscienza degli uomini.

***

Noi non possiamo metterci completamente al di là del bene e del male. Il popolo riempie i quadri della polizia, dell’esercito e di altre istituzioni non meno criminali di queste, per difendere la causa dei propri oppressori, non perché ciò sia morale, ma pel motivo opposto: cioè, perché non è mosso da un criterio morale proprio, ma obbedisce a una immoralità imperante, che chiamasi per ironia moralità civica. I popolani infagottati in una divisa militare possono anzi devono uccidere in difesa dello ordine (moralità o per dir meglio immoralità borghese), turbato dalla canaglia affamata, che chiede ad alta voce, ma inerme – questo è il suo torto – un po’ più di pane, un po’ più di riposo. Domani però se questi stessi figli del popolo si servissero delle armi per dar pane – essi che han tutto prodotto – alle loro famiglie affamate, la legge li dichiarerebbe ribelli e chiederebbe il loro sterminio.
Qui non è in giuoco nessuna morale, ma dei turpi appetiti, dei turpi privilegi, che appunto l’azione anarchica tende a distruggere, o per dir meglio ad abolire, con dei mezzi adeguati, disorganizzando lo stato e tutte le istituzioni di cui è il fedele guardiano. Ora per sapere se un atto collettivo o individuale sia di natura a colpire lo Stato nella sua vitalità o a rafforzarla, occorre naturalmente un criterio morale comune – ed esiste già, come abbiamo dimostrato più sopra – per distruggere l’azione rivoluzionaria, cioè di demolizione dell’ordine vigente, da quella che tende a conservarlo.

E questo criterio morale sovrasta a tutte le nostre azioni, sia collettive che individuali, ci distacca completamente da tutti i partiti politici che lottano nell’orbita della legalità, fa di tutti noi una falange, che in piena società borghese si distingue appunto per il valore altamente morale delle sue concezioni novatrici, che tendono a trasformare completamente la società su basi assolutamente libere.
E ora un’ultima questione da delucidare. Il criterio morale nell’anarchismo restringe l’azione individuale, la sottopone cioè all’approvazione della collettività? La risposta non può essere dubbia. No! L’anarchico può agire da solo, come, se lo crede utile, può entrare nei sindacati. Non c’è nulla che ci obblighi ad agire in un modo piuttosto che nell’altro. Però – e questo è l’importante – non si deve mai dimenticare ch’egli è anarchico, e come tale deve sempre agire e far propaganda. Su ciò non vi possono essere dubbii: la nostra via è dritta: sempre contro la legge, sempre contro i privilegi, con tutti i mezzi che il luogo e l’ora richiedono.

Note storiche curate dal Gruppo Anarchico Galatea

Sul giornale “La Battaglia”
Periodico fondato e diretto da Oreste Ristori (anarchico livornese emigrato in Sud America agli inizi del novecento) dal 1904 fino al 1911 a São Paulo (Brasile), si può definire una delle pubblicazioni più importanti a livello di propaganda e di intervento degli anarchici italiani presenti in Brasile.
Tra i collaboratori troviamo Gigi Damiani, Alessandro Cerchiai (di cui presentiamo l’articolo “Il fattore morale nell’anarchismo”) e Angelo Bandoni.
Il giornale puntava ad una serie di interventi politici organizzati e coordinati.
Tali mosse servivano per prendere le distanze sia dalle posizioni individualiste anarchiche (che nel periodo storico in cui usciva “La Battaglia” prendevano piede all’interno del movimento) che dall’opportunismo e dalla “reincarnazione del corporativismo” del sindacalismo brasiliano.
Gli interventi de “La Battaglia” si concentravano sulla contro-informazione e su un attacco contro i proprietari terrieri, il clero e le violenze poliziesche – responsabili a pari merito sia dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici (specie del campo agricolo) che di rimbambire con false promesse di ricchezze le persone emigrate disoccupate europee.
Dal Gennaio 1912 “La Battaglia” venne diretta da Gigi Damiani. In meno di pochi mesi, il periodico ricevette un attacco dall’organo anarchico “Tierra y Libertad” di Barcelona nella quale si accusava la vecchia redazione de La Battaglia di essersi appropriata dei fondi di una sottoscrizione aperta « pro rivoluzione messicana».
Nonostante la smentita pubblica di Damiani e di Cerchiai, la diffidenza persistette verso il giornale. Di conseguenza, dal Settembre del 1912, “La Battaglia” cambiò nome in “La Barricata”.

Fonti consultate
– “La Battaglia” in “Latin American Anarchist and Labour Periodicals (1880-1940)” raccolti da Max Nettlau, conservati presso l’International Institute of Social History di Amsterdam
-Bettini Leonardo, “Bibliografia dell’anarchismo : periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana, 1872-1971”

Su Alessandro Cerchiai
Nato a Pescia (in provincia di Pistoia) il 14 dicembre 1875 per poi emigrare con la famiglia sette anni dopo in Francia. Verso la fine degli anni ‘90, Cerchiai si avvicinò agli ambienti anarchici francesi venendo espulso dal paese transalpino.
Partecipò ai moti del 1898 e per questo venne arrestato e condannato a tre anni di reclusione. Lasciata l’Italia per il Brasile nel 1901, Cerchiai iniziò a collaborare con due periodici anarchici pubblicati a San Paolo, “Germinal” e “O Amigo do Povo”. Con la fondazione del giornale “La Battaglia”, l’anarchico toscano ne divenne il più fedele dei collaboratori e, dopo l’abbandono di Ristori nel 1911, i suoi articoli occuparono frequentemente la metà delle quattro pagine pubblicate ogni settimana. Tra le sue firme si ricordano i pseudonimi “Anna de’ Gigli”, “Acratibis” e “Mastr’Antonio”. Cerchiai, a livello di militanza politica, si oppose all’organizzazione istituzionalizzata del mondo operaio e alla richiesta di quelle donne che lottano per il diritto di voto e che vogliono somigliare agli uomini – per Cerchiai la donna deve essere quella “madre fiera dei suoi piccoli e che lotta per istruirli, farli godere le gioie dell’infanzia e renderli degni di vivere in un mondo migliore”.
Dopo un soggiorno in Argentina, Cerchiai tornò in Brasile per occuparsi del giornale “La Barricata”, fondando alla fine del 1913 un nuovo periodico: “La Propaganda libertaria”.
Durante tutto questo periodo, venne più volte interrogato dalla polizia di San Paolo, incarcerato e minacciato d’espulsione.
A partire dal 1917 iniziò a collaborare con giornali non anarchici, non abbandonando l’ideale e rendendosi attivo nel supportare con la sua penna alcune pubblicazioni antifasciste o anarchiche come “La Libertà”, “La Vittoria”, “Lo Spaghetto” e “Quaderni della Libertà”.
Morì in un ospedale di San Paolo il 6 ottobre 1935.

Fonte consultata
-Dizionario biografico online degli anarchici italiani, BFS, Pisa, 2003, Vol. 1

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