Articolo scritto da Caterina Camastra per il Gruppo Anarchico Galatea-FAI di Catania
La questione dei diritti della comunità LGBTQIA+ in Messico è molto complessa (come, del resto, dappertutto). Per potersi almeno approssimare alla comprensione del fenomeno, è necessario prendere in considerazione le specificità del caso.
Prima di tutto, è importante tenere presente che il Messico è profondamente immerso e avvolto da un cattolicesimo molto conservatore, triste eredità coloniale, al quale ultimamente si sono affiancate le sette protestanti più oscurantiste e anche (in alcune zone del Chiapas, per esempio, o in alcuni settori urbani di Città del Messico) l’Islam nella sua sinistra versione wahabita e salafita.
La questione è spinosa : la religiosità oscurantista è spesso un tratto identitario sociale ed economico dove i gruppi più impoveriti ed emarginati, di fronte a certa modernità percepita come bianca ed estranea, attuano un meccanismo di rivendicazione e difesa, portando a tristi conseguenze quali omofobia e la transfobia diffuse e, ahimè, spesso e volentieri violente.
E qui veniamo a toccare un altro punto dolente: la società messicana, per complesse ragioni socio-storiche, è intrisa di maschilismo violento. Il tasso di femminicidi è spaventoso, e sappiamo bene che (come dappertutto) il femminicidio è solo la punta dell’iceberg di una patologia culturale ben più insidiosa e ramificata. All’interno del problema è importante segnalare la piaga silenziosa – in quanto non fa notizia -, degli omicidi di donne transessuali e di persone dall’espressione di genere non conforme. Non fa notizia perché in un certo modo si dà tacitamente per scontato che queste persone sono intrinsecamente sordide e “si meritano di fare una brutta fine”, “se la sono cercata” etc.
Qualcunx potrebbe obiettare che le cose vanno molto meglio, che negli ultimi decenni si sono visti molti cambiamenti in positivo, che anche in Messico c’è il gay pride, che l’università nazionale si veste di arcobaleno e condanna la discriminazione. E ciò corrisponde al vero. Il punto, però, è che si tratta di un fenomeno circoscritto a certi settori privilegiati della società. Chi sventola la Zona Rosa di Città del Messico o Puerto Vallarta come paradisi di libertà, dimentica che questi posti sono riservati a ceti sociali con un potere d’acquisto alto o medio-alto, a cui si combinano altre variabili: fondamentalmente stiamo parlando di gay maschi bianchi cis e ricchi, o almeno benestanti, con tutta la conosciuta estetica dello strafigo palestrato ipermascolino. Più che di vera inclusione, si tratta di una ridefinizione delle frontiere della discriminazione. Per quanto riguarda l’università, è vero che per certi versi è un’isola felice, ma è proprio quello il problema: fai un passo fuori e la società è tutt’altra cosa. Andare all’università, tra l’altro, continua ad essere un privilegio; non dimentichiamolo, perché, sebbene sia pubblica e gratuita, opera attraverso un sistema a numero chiuso (con esame di ammissione).
Infine, trovo che valga la pena dedicare qualche riga a un fenomeno tipico di una zona del Messico: l’Istmo di Tehuantepec, la cui popolazione è di lingua ed etnia zapoteca (ovviamente, con svariati gradi di meticciato) e si regge secondo un sistema che, sebbene sia incorretto e approssimativo definire “matriarcato” come tale, è caratterizzato da una forte presenza e importanza femminile nel tessuto sociale.
Las juchitecas o “tecas”, dal gentilizio della città di Juchitán, il centro urbano più importante dell’Istmo, sono sinonimo nell’immaginario nazionale di forza e potere. All’interno della società juchiteca esiste la figura dex muxe (alcunx di loro usano articolo e pronome maschile, altri femminile), che è vagamente, per intenderci, l’equivalente del femminiello napoletano. Unx muxe è una persona AMAB (“assigned male at birth”) che assume un’identità e un’espressione di genere femminile – e che viene pienamente accoltx nel “mondo” in cui vive. È comune che x muxes siano consideratx un vessillo; in queste culture originarie, in generale, si trovano categorie identitarie di genere differenti e sovversive rispetto alla visione eurocentrica.
Ma bisogna comunque fare attenzione a non romantizzare e a considerare la realtà in tutte le sue complesse sfaccettature. Se da un lato è vero che x muxes godono di piena accettazione nella società juchiteca, è anche vero che vengono loro assegnati alcuni ruoli ben precisi e piuttosto rigidamente regolamentati, come quello di essere la figlia femmina che non si sposa e resta a vivere a casa dei genitori per prendersene cura, o la prostituta che si dedica all’iniziazione sessuale dei ragazzini in una società in cui la verginità femminile continua ad essere un valore.
Moltx muxes, oggi giorno, sono di fatto altamente criticx del proprio ruolo tradizionale. Vorrei, però, concludere queste note veloci e personali con un aneddoto che mi hanno raccontato a Juchitán. Una volta alcuni visitatori, messicani ma forestieri, nel vedere passare alcunx muxes nei pressi del mercato hanno fatto ciò che fanno tradizionalmente i maschi messicani quando vedono per strada persone dall’espressione di genere non conforme: fischiare e gridare parole di scherno e insulto. Dal mercato di Juchitán è uscito un drappello di agguerrite tecas impugnando padelle e mattarelli, mettendo in fuga gli incauti sciocchi al grido di “Come vi permettete di venire qui a dare fastidio alle nostre figlie!”. Mi piace ricordare questa scenetta di autodifesa popolare e di umiliazione del maschio eterocis in una delle sue espressioni più tossiche. Senza romantizzare, certo, ma… brave le signore!