All’inizio del film “Demoni” di Lamberto Bava del 1985 vi è una parte dove, all’ingresso del cinema in cui si svolgono i fatti, una ragazza prova una maschera a forma di demone che, fino a quel momento, era indosso ad una statua di un cavaliere a cavallo di una vera moto.
Indossando questa maschera, la ragazza si procura un taglietto sul viso che, in men che non si dica, fa uscire copiosamente del sangue.
La poverina, appena entra in bagno per sciacquarsi la faccia, vede che sulla ferita si è formato un bubbone bianco; questo esplode e la ragazza muta in un essere dagli occhi giallastri, unghie lunghe, denti aguzzi e sangue che esce dalla bocca. È diventata un demone.
Ora immaginiamo che questa ragazza con il bubbone bianco e la sua mutazione rappresenti, di base, delle persone represse che appaiono positive e benevole con i loro discorsi e e le loro prassi.
La repressione di costoro viene nascosta – abilmente o meno – da una o più maschere.
Se seguiamo la concezione pirandelliana, queste non sono altro che strumenti con cui le persone si spersonalizzano e assumono molteplici identità, diverse tra loro, ma sempre ossequiose alle regole e morali sociali vigenti.
In contesti del genere, le informazioni ricevute da questi individui, portano costoro ad accogliere (con approvazione o riprovazione) una serie di messaggi senza forma (informi) ricevuti tramite un “canale” – ovvero una serie di mezzi di comunicazione che provvedono a trasmettere i messaggi alle persone potenzialmente destinatarie.
Nel mondo dei nuovi media, il linguaggio adottato spinge quanto più possibile gli individui a manifestare delle reazioni, facendo leva su argomenti di tipo emotivo.
Accade allora che a Mascalucia, un paese dell’hinterland catanese, una madre uccida la propria figlia di 4 anni.
I media non si sono lasciati sfuggire questa ghiotta occasione.
Un evento del genere, messo in mostra dagli interventi audiovisivi dei parenti paterni della bimba uccisa, dell’avvocato difensore della madre e della maestra d’asilo, la lettera del padre e via di questo passo, porta la testata giornalistica a diventare rilevante e fondamentale nel dare determinate informazioni, ottenendo al tempo stesso un guadagno monetario.
Oltre ciò, in pochissimi giorni si è vista la corsa delle varie testate giornalistiche nel riportare le “breaking news”, i particolari più macabri, scabrosi o semplicemente intimi della vicenda. Il tutto assume la forma di quella che si potrebbe definire “pornografia del dolore”: ogni minimo dettaglio viene scandagliato per creare ora il mostro, ora il soggetto incapace di intendere e di volere. In ogni caso non viene lasciato un minimo spiraglio di tempo che serva sia a rispettare il dolore delle persone coinvolte nella faccenda, sia a poter guardare a quanto successo con la mente più lucida.
Ed infatti, le reazioni delle persone che commentano sui social sono di aperta ostilità e di odio verso una ragazza considerata ora come una moderna Medea, ora come una povera pazza a cui non si deve dare assistenza legale.
Sembra di assistere ad una concezione tipicamente orwelliana dei “due minuti di odio”, con la differenza che “1984” era un romanzo mentre questa è la realtà quotidiana.
Qualsiasi cosa sia successa e il dolore genuino provato dai parenti della piccola, quindi, passano in secondo piano. Per la gioia di repressi e chi monetizza su queste notizie.