“Gli eroi guerreschi come grandi criminali”. Due estratti da Camillo Berneri. Contro la retorica bellicista odierna

Tra ruberie, distruzioni e stupri, il soldato o il militare che agisce in guerra diventa il salvatore, il santo protettore delle popolazioni.
La creazione di questo eroe indefesso non è che una prassi atta a far accettare le azioni guerreggiate; una giustificazione, oseremmo dire, per qualsiasi nefandezza che in cosiddetti tempi di pace sarebbe stata etichettata come un vero e proprio crimine.
La classe dominante, costruito questo personaggio eroico, non fa altro che rinfocolare uno strumento come il militarismo che domina “i popoli ed affoga nel sangue gli aneliti d’indipendenza, libertà ed emancipazione” (cit. Comitato contro la guerra, “Disonoriamo la guerra”, 25 Ottobre 1914)
In tal senso, il giornalismo, insieme ai governi internazionali, ci regala esempi attuali di questi eroi che si battono o contro gli invasori o per liberare un territorio, lodando qualsiasi azione che, in tempi di pace, non si esiterebbe ad additare come omicidio di massa.
Allo stesso tempo, tutti questi soggetti governativi e massmediatici vomitano parole di odio verso chi si schiera dalla parte sbagliata della barricata o verso chi ha capito il gioco e denuncia a chiare lettere come due Stati e altrettante borghesie siano pronte a sacrificare migliaia di individui per salvare un’economia iniqua come quella capitalista.
Vogliamo allora presentare due scritti di Camillo Berneri, un compagno anarchico vissuto nel secolo scorso. Berneri fu attivo dapprima come militante del socialismo italiano, per poi rompere con i suoi ex compagni e passare alle fila dell’anarchismo. Partecipò alla costituzione dell’Unione Anarchica Italiana e fu un personaggio di spicco della lotta politica italiana. Con l’avvento del fascismo, andò in esilio in Francia, raggiunto poco dopo dalla moglie e dalle due figlie. La moglie, Giovanna Caleffi, sarà un’importante figura anarchica e femminista nel dopoguerra, fondando il periodico anarchico Volontà ed introducendo per la prima volta nel dibattito pubblico il tema dell’autodeterminazione facendo ricorso agli anticoncezionali con l’opuscolo Il controllo delle nascite del 1948(cosa che le costerà un processo per “propaganda contro la procreazione”).
Tornando a Berneri, questi in Francia continuò ad intessere rapporti con una serie di personaggi politici, anarchici e non, e lavorò politicamente in senso antifascista all’interno della comunità del fuoriuscitismo italiano in Francia.
Con lo scoppio della guerra civile spagnola nel ’36, Berneri si recò nel paese iberico e fondò il giornale Guerra di classe, in cui propose un’analisi del conflitto in corso in senso anarchico ed internazionalista. Il suo impegno in tal senso gli costerà caro.
Durante la resa dei conti passata alla storia come “Giornate di Maggio”, il 5 maggio 1937 verrà trovato morto a Barcellona, per mano di sicari stalinisti, insieme all’amico e compagno Francesco Barbieri.
I due articoli in questione sono “L’eroismo degli eserciti odierni” e “La delinquenza collettiva della guerra”, contenuti all’interno della pubblicazione “Gli eroi guerreschi come grandi criminali”, edita dal compagno Aurelio Chessa assemblando vari articoli che Berneri scrisse nel corso degli anni.
In tempi come quelli che stiamo vivendo, dove determinate figure (Zelensky, il battaglione Azov, Putin e gli eserciti cosiddetti popolari del Donbass, il gruppo di contractors Wagner), vengono considerate, a seconda della propaganda che le pompa, come figure sante o criminali, gli scritti di Berneri tracciano un quadro ancor oggi valido che smonta la finzione dell’eroismo militare, arma discorsiva fondamentale per tenere in vita lo sfruttamento di Stato e Capitale.
Una finzione che serve a nascondere quello che la guerra realmente è: massacri, distruzioni e stupri.

 

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“L’eroismo degli eserciti odierni”
da « Germinal », Chicago, a. III, n. 13, 1-7-1928

Nella guerra europea i decorati per meriti di guerra sono stati moltissimi. Quale miglior segno che l’eroismo guerresco è in decadenza? Nelle guerre odierne, eroi non mancano, ma il concetto dell’eroismo bellico è diventato elastico fino a comprendere colui che non scappa.
La guerra odierna, nel complesso, non è eroica. Perché è subita. Perché il soldato non si sente patriota al confine o in territorio nemico, quanto si sentiva cittadino il milite comunale sulle mura della città assediata.
Il patriottismo ardente fu possibile nei piccoli stati della Grecia, nelle repubbliche italiane del Medio Evo. Non nell’impero Romano del V Secolo.
Gli episodi di eroismo collettivo risalgono ai periodi repubblicani, non a quelli imperiali. La battaglia navale della Meloria (1284) fu disastrosa per la repubblica di Pisa. I Genovesi fecero prigionieri molti pisani. L’ambasciatore pisano offrì ai Genovesi il castello di Castro in Sardegna per il riscatto dei prigionieri. Narra il Sismondi, nella sua Histoire des rèpubliques italiennes che quando questi seppero della cosa, ottenuta l’autorizzazione di mandare a Pisa un legato, fecero sapere al Comune loro che piuttosto che consentire ad una capitolazione tanto vergognosa preferivano morire in prigione. Episodi di questo genere se ne potrebbero citare parecchi. Ma nelle guerre odierne quanti se ne troverebbero?
L’eroismo guerresco differisce dall’eroismo civile in quanto il primo è frutto di esaltazione, è facilmente soggetto ad oscillazioni; è in gran parte incosciente; è, in molti casi, totalmente inconscio. Nei casi singoli di vero eroismo bellico la differenza non c’è od è minima. Tra chi ponderatamente si dispone al sacrificio per affondare una nave, per far scoppiare un deposito di munizioni, ecc. e chi si dispone al sacrificio per esperimentare un ritrovato medico non c è alcuna differenza, rispetto al processo sentimentale e volitivo. Ma, nel loro complesso, l’eroismo bellico e l’eroismo civile hanno caratteri tipici che chiaramente li contraddistinguono e li differenziano nettamente.
Durante la guerra il frate Agostino Gemelli, psicologo e fisiologo, che fu capitano medico al fronte, pubblicò nella rivista « Vita e Pensiero » uno studio psicologico sull’eroismo guerresco, che credo utile riassumere e citare, sia perché acuto e coraggioso, sia perché autorevole, per la personalità scientifica e la posizione sociale dell’autore.
Le signorine sentimentali sono servite!
Lo psicologo osserva che lo stato d’animo eroico del combattente non è definitivo. Non sono rari i casi di decorati per atti di valore che, giorni dopo, si sono dati alla fuga. In molti casi, poi, quello che pare eroismo non è che fatalismo. Scrive il Gemelli: « In molti casi l’eroismo è figlio della superstizione: di una specie di convinzione fatalistica che si forma dopo aver corso parecchi pericoli: « Per me la palla non è ancor fusa » — dicono. « Se io debbo morire, la palla mi colpirà ugualmente; è inutile che mi ponga ad un riparo », « è vano che cerchi di sottrarmi al pericolo fuggendo: tanto la palla mi raggiungerebbe » (1).
I deboli, gli isterici, i nevrastenici subiscono una grave depressione morale, congiunta con la confusione mentale, come mostrano il loro mutismo, l’espressione atona del viso e i movimenti da automi (2). Nell’uomo normale, fisicamente, e medio, intellettualmente e moralmente, la guerra produce un’eccitazione incosciente. « Se parlate ad un soldato nella trincea – prosegue il Gemelli — sentite tosto che egli trovasi come in uno stato di difesa psichica: lo vedete tutt’occhi, tutt’orecchi; i muscoli sono tesi; ogni minimo rumore determina una reazione vivace; la mimica del volto, della mano è colorita; la parola concitata. A lungo andare, la vita della trincea rende stabile questa eccitazione nervosa… Non è da meravigliarsi se, quando un allarme si propaga in trincea… trova gli uomini singolarmente preparati a compiere le azioni più ardimentose ». E queste azioni sono compiute, il più delle volte in uno stato di esaltata incoscienza. A questo proposito, ecco come un ufficiale della « Brigata Sassari » descrive l’occupazione di una trincea austriaca da parte di trenta volontari:
« Ad una dato momento gridai loro che l’ora era giunta, bisognava sfidare la mitraglia nemica e il fuoco, senza sparare scagliarci all’assalto del trincerone. — Ragazzi, forza, all’assalto, in nome di Dio non abbiate paura, via… « Savoia! » —
Eruppe il grido come un boato, e con la baionetta fummo sulla trincea. Il nemico parte fuggì, parte rimase a terra attorno ad una mitragliatrice che avemmo in nostre mani. Non si può descrivere l’assalto, è impossibile. Il nemico vomitò fuoco e fiamme sul trinceramento da noi mirabilmente occupato e i miei uomini rimasti, sorridevano, l’occhio rosso, le baionette intrise di sangue, non domi ancora, non sazi.. Fu così che arrivammo sopra un altro trinceramento; l’occupammo e facemmo un centinaio di prigionieri. Vorrei si chiedesse a questi prigionieri cosa è stato l’assalto. Con l’occhio vitreo, con la bocca aperta, essi ci hanno guardati senza proferir parola, spaventati, meravigliati. Uno di loro ha esclamato « belve », ed era la vera parola ».
Automa e belva; è proprio così il soldato all’attacco.
Osserva il Gemelli: « Ho più volte assistito alle congratulazioni che ufficiali e soldati presentavano a qualche loro collega dopo un’ardita impresa, ed ho trovato che il primo ad essere sorpreso da quelle lodi era colui al quale venivano rivolte. Chi pensa teoricamente ad un atto di valore, immagina colui che lo compie nell’atto di valutare serenamente: di qui la morte probabile, di là l’azione generosa di qui il sacrifìcio, di là il servigio reso alla patria.
Niente di ciò. Il cosiddetto eroismo è dovuto a ben altri fattori, i quali non sono per nulla sentimenti elevati, altruistici, generosi, ma piuttosto personali, umani, capaci quindi di lottare efficacemente contro l’istinto di conservazione ».
Nell’atto eroico — seguita il Gemelli — l’amore alla patria interviene solo in assai piccola misura, ed ha scarsa influenza. Lo stesso sentimento religioso non vi interviene come sentimento elevato. Alcune volte è il desiderio di pace, della pace del Paradiso che sottragga alle pene, alle torture del cannone rombante con insistenza, alla vista dei feriti, alla visione tragica della guerra; e il contrasto della pace del Paradiso colle tristezze attuali fa desiderare la morte. Altre volte è il pensiero che la morte dev’essere incontrata presto, e che vai meglio incontrarla in battaglia, ove la preparazione spirituale garantisce meglio della vita dell’al di là. Altre volte invece è una specie di orgoglio: « Tutti sanno che io sono cristiano praticante; debbo quindi mostrare di saper morire ». Altre volte è la certezza che la preghiera d’una persona cara od una speciale pratica religiosa conferisce una certa immunità ».
Queste osservazioni coincidono con quelle che S. M. Levy, fece sui combattimenti dell’esercito interalleato dopo i combattimenti nel Belgio, durante la ritirata della Mosa e durante la battaglia della Marna.
In quella relazione, pubblicata nella Grande Revue si afferma che il soldato non pensa alla patria, al dovere, ecc. tanto se la paura lo domina quanto se riesce a battersi vigorosamente. Riassumo.
Un giovane sergente fu mandato in ricognizione verso una trincea tedesca che sembrava abbandonata. Credendo agevole l’incarico, vi si diresse senza paura. A dieci metri dalla trincea si sentì intorno una gragnuola di proiettili. Preso da terrore, strisciando sul suolo, giunse sotto il parapetto della trincea francese; ma il nemico colpiva quel parapetto con tanta precisione che al sergente era impossibile scavalcarlo. Per tre ore rimase là sotto, esposto alla morte: non pensò mai « nè alla sua famiglia, nè ai suoi amici, nè a Dio, nè al suo dovere di soldato ». Un solo pensiero lo teneva: raggiungere il ricovero protettore.
Sopra ogni altra ragione, vale, a tenere il soldato al suo posto, l’istinto della personale conservazione. Il principale ragionamento di chi si trova impegnato in un combattimento è, press’a poco, questo: « Le palle cadono a caso sul terreno che io debbo percorrere. Ne cadono da una parte e dall’altra nella schiena, così come, se resisto, posso essere ucciso da una palla nel petto. Combattendo, posso contribuire a domare lo sforzo degli assalitori. Ho quindi interesse a lasciarmi guidare dal mio dovere ». Perciò il soldato vuole ammazzare nemici quanti più gli è possibile. Ogni nemico ucciso diminuisce la probabilità di morte per il combattente. Della natura del… coraggio guerresco si sono resi conto gli ufficiali, con il metodo: porre il soldato fra due fuochi.
Il generale francese Maistre, presiedendo un Consiglio di Guerra, il 20 aprile 1920, diceva: « La polizia del campo di battaglia deve essere assicurata energicamente impiegando tutti i mezzi; occorrendo, anche le mitragliatrici. E’, infatti, indispensabile di provare a coloro che sarebbero tentati di fuggire che il pericolo loro è più grande dietro che davanti » (3).
L’ufficiale tedesco Albert Klein, professore dell’Oberrealschule di Giesen e luogotenente della Landwehr, pubblicò dei Feldpostbriefe (Lettere dal campo) in cui scriveva: « Siccome nessuno muore volentieri nessuno è veramente coraggioso, nel senso abituale della parola; se il coraggio non fosse così rado, non ci sarebbe bisogno di tanto sfoggio di religione, di poesia, di pensiero fino dai primi anni della vita nelle scuole per convincersi della bellezza della morte per la patria. Quando leggo nei giornali gli eroismi descritti da quelli che stanno tranquillamente al tavolo sento del disgusto. Ah ciarlatani, chi è nelle trincee non parla con tanta compiacenza di morire, di sacrificarsi, come lo fanno quelli che, al sicuro squillano le trombe marziali, declamano paroloni e fanno della retorica sui giornali. Chi è qui pensa e parla molto diversamente ».
I pretesi atteggiamenti eroici dei combattenti sono stati studiati da vari scienziati americani che hanno concluso, concordemente (4), che i soldati si battono per difendersi e muoiono con la paura di morire. Le memorie (5), del pittore Vereschagin, il grande pittore di battaglie, dimostrano che il coraggio militare è più immaginario che reale.
Anche nei romanzi contemporanei si va facendo strada la verità sull’eroismo guerresco. Pierre Mille, il Kipling francese, che fu al Madagascar, nel 1895, come giornalista, e fu presente a spedizioni militari, nel suo romanzo Barnavaux, pone in bocca al protagonista, volontario della Legione Straniera, queste definizioni ed osservazioni.
« Sì, io sono sicuro che, in fondo, ai primi colpi di fucile, il soldato in battaglia ha paura. Non è possibile impedirglielo. E allora egli… si mette a fuggire davanti a sè. Questo è ciò che si chiama il coraggio: una fuga davanti a sè: un istinto di conservazione ragionato. Vi è minor pericolo dinanzi a noi, che dietro di noi ».
Così, parlando d’un attacco proditorio degli indigeni ad Ain Souf, e del valore dimostratovi nella difesa dal sergente Chavarot, apache parigino divenuto legionario, si esprime senza peli sulla lingua:
« Non bisogna pensare la patrimonio di Chavarot, nè a quello de’ suoi camerati, i cinquantanove ladruncoli, barabba e souteneurs che l’accompagnavano; nè al loro spirito militare, nè a tutto ciò che di virtuoso si scrive poi, su tali fatti, nelle gazzette. Ma essi non perdettero un istante la testai non pensarono che ad uccidere coloro che stavano per ucciderli; e questa, infine, è la verità della guerra!…».
Gli scrittori che hanno scritto le pagine più vere sull’ultima guerra, come Barbusse e Latzko, la pensano come Pierre Mille. L’eroe guerresco è sempre più ridotto al tipo militare.
Il Gemelli afferma risultargli dalla sua inchiesta che i volontari sono quelli i quali danno il minimo numero di atti eroici. Questo perché, in generale, sono colti e se sanno maneggiare il fucile hanno una scarsa preparazione spirituale. La quale preparazione non è tale, poiché i soldati più ignoranti, più rozzi, meno coscienti, in una parola più primitivi, sono i più valorosi.
I meno affettivi sono più facilmente valorosi. Il Gemelli ci narra che « tutti i soldati » da lui interrogati, gli hanno detto: « lo ho bisogno di non pensare a casa mia »; “ Se leggo una ‘ettera di casa, mi tremano le gambe » e simili, e conclude: « La preparazione del soldato ad atti di valore consiste in un distacco completo dagli affetti famigliari, dai suoi interessi, da tutto ciò che lo tiene legato alla vita. Non già che tutto questo sia da lui dimenticato, ma giace tanto profondo nella coscienza, da non costituire una inibizione al sacrificio ».
Per essere eroi guerreschi bisogna svestirsi della propria personalità. E’ naturale, quindi, che riescano ad essere bravi combattenti coloro che hanno una personalità non formata. Il Gemelli conclude che « coloro che hanno compiuto atti eroici non sono per nulla tempre eccezionali »
Sono dei disciplinati.
« Il soldato eroico è il soldato molto disciplinato, al quale riesce indifferente compiere piuttosto questo che quell’altro atto. Tali atti lo interessano tutti al medesimo grado; li compie perché ordinati, in forza d’un medesimo principio: la disciplina militare. Il valore di questi atti non è un valore intrinseco: essi sono comandati. Il soldato cessa di essere lui; il suo io è un altro; la vita che conduce come soldato è una parentesi nella sua vita; essa non è la sua vita, ma un’altra vita alla quale annette scarsa importanza ».
Insomma, se il bravo soldato in caserma è un automa, il bravo soldato sul campo di battaglia è automa due volte.

Note
(1) Quest’osservazione del Gemelli ha particolare valore per gli Italiani del Sud, che somigliano agli Arabi, nella rassegnazione fatalista
(2) Lo psichiatra Leonardo Bianchi, dell’Università di Napoli, osserva« I cretinoidi generalmente appaiono coraggiosi; perché si rendono conto del pericolo quando esso è scomparso da un pezzo ».
(3) Le Journal – 21 Aprile – Le Temps 22 Aprile 1920.
(4) Revue des Revues, sett. 1893.
(5) Revue de Revues, ott. 1893.

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“La delinquenza collettiva della guerra”

da « Germinal », Chicago n. 16, del 1-9-1928 e da « L’Adunata dei Refrattari », New York, a. XVIII, n. 47, 9-12-1939

A. Hamon, nella sua “Psychologie du militaire professionel” dichiara: « lo non pretendo affatto che il militarismo non sia una scuola di coraggio, ma che il coraggio che egli sviluppa è contaminato dalla violenza, dalla brutalità ».
Quello che Hamon afferma è assiomatico.
Ne convengono anche i non pacifisti.
Il principe Giorgio di Sassonia ed il Kronprinz Federico-Carlo di Prussia, parlando con Vereschagin, gli dicevano che la morale guerresca predica: « Prendi, saccheggia tutto quel che puoi; inganna, prepara imboscate e più tu ucciderai, più grande sarà il tuo merito » (1).
Quel garzone di fattoria, francese, che, avendo ucciso per questioni di interesse, tre persone ed essendo stato condannato a morte, esclamava: « E’ curioso, al Tonkino ne ho ammazzati chissà quanti e mi si voleva decorare. Qui ne ho uccisi tre e mi si vuole raccorciare » (2).
Sintetizzava nella sua cinica boutade la… morale guerresca.
Quel criminale era un ottimo soldato.
Quasi sempre i criminali sono buoni soldati, in guerra.
C’è da scannare? Sono pronti.
Sono feriti? le loro ferite, anche gravi, si rimarginano rapidamente.
C’è da fare strapazzi enormi? Sono resistenti agli sforzi e alle privazioni.
La guerra si prolunga? Non hanno grandi nostalgie affettive
Ci sono gli amateurs della guerra, per ambizione, per bassi istinti, per gusti pervertiti.
Lo si vede specialmente nelle imprese coloniali.
Vehlan, il capo della spedizione di Bakoko, faceva incendiare i villaggi, battere e suppliziare i prigionieri, i vecchi, le donne, i bambini.
« I soldati — dice Vehlan a tavola — e sopratutto uno di essi hanno un modo meraviglioso di levare la pelle ai nemici; si fa un taglio con un coltello alla mandibola inferiore; segue un buon strappo coi denti ed ecco la pelle staccata dalla faccia… » (3).
Dopo la presa di Bossè, al ritorno Djenne, dei soldati francesi impiegarono come esca vivente per le belve, una bambina di dieci anni, e la legarono, per farla gridare, su un nido di formiche, sul quale morì, rosicchiata da quelle.
Dopo la presa di Bossè i soldati, tra l’altro, compravano e vendevano bambini, se li giuocavano a carte. Il senatore Gaudio de Villaire denunciava alla tribuna, il 18 febbraio 1909, il massacro di 2.500 indigeni senza difesa ordinato dal comandante Gerard ad Ambike, in condizioni così mostruose da sollevare vive esclamazioni di indignazione.
Nel 1860 per 5 soldati dell’armata anglo-francese uccisi a Pekino, Pekino fu in preda di uno dei saccheggi più vandalici che ricordi la storia, e 3.000 cinesi vennero uccisi. Nel 1901, a Blagonstchensk ben 5.000 Cinesi inermi furono spinti nel fiume Amour dalle truppe del generale Cribsky; a Tien-Tsin, i Russi si divertivano a lanciare in aria i lattanti e ad infilarli nelle baionette. Verso la fine del 1912 a Grimari (Cubagni-Chari) un capitano francese pagava ai tiratori senegalesi 1. fr. 50 per ogni paio di testicoli: prova dell’uccisione di un ribelle.
Le imprese coloniali italiane non sono meno barbare. L’impresa libica fu condotta nel modo più feroce. I corrispondenti esteri rimasero disgustati. Mac Cullagh, del New York World, rimandò la sua tessera di corrispondente al generale Caneva. Alle smentite di Giolitti, l’Agenzia Reuter rispose con le testimonianze di giornalisti inglesi, tedeschi ed americani. Il Grant, del Daily Miror rispose: « Per quattro giorni gruppi di soldati hanno epurata ogni parte dell’oasi uccidendo gli arabi senza distinzione. L’ordine del generale Caneva era di sterminare ».
Le pubblicazioni estere trovavano la più ampia conferma in quelle italiane. L’Eco di Bergamo (13-14 novembre 1911) pubblica, intitolandola: A caccia, la lettera di un soldato, inviata da Tripoli il 5 novembre in cui si leggeva. « Il vedere gli arabi-turchi saltare in aria, sotto i nostri colpi di cannone, ci si prova una vera soddisfazione qui ci PARE DI ESSERE A CÀCCIA E NON IN GUERRA ed uccidendo un nemico ci pare di schiacciare una mosca ».
Gli istinti bestiali degli autori di queste lettere trovavano il maggiore incitamento negli ordini che venivano dall’alto. Ecco infatti quanto narrava la lettera di un soldato pubblicata dal “Giornale”, (altro quotidiano di Bergamo), l’11 novembre 1911:
« Ieri è venuto L’ORDINE DEL GENERALE di far saltare per aria le case sospette, che si dubita abbiano sotterranei. E infatti abbiamo fatto saltare parecchie case e in una trovammo un sotterraneo vastoso, nel quale vi trovammo quindici ufficiali Turchi vestiti in borghese. Perlustrando le case, abbiamo trovato dei fucili, rivoltelle, cartucce e pugnali.
« Dal 23 al 30 abbiamo ammazzato 500 arabi e più CI LEGAMMO LE MANI E I PIEDI, TUTTI IN UN MUCCHIO E UNA COMPAGNIA A COLPI DI FUCILE LI AMMAZZAVA. Certi che non venivano fuori dalla casa, LI AMMAZZAVAMO SUL POSTO.
« lo ne ho ammazzato uno CHE STAVA A RACCOGLIERE I DATTERI SULLA PIANTA; ed io ci ho tirato un colpo,
I ho preso nello stomaco. E’ CASCATO GIU’ COME UN UCCELLO ».
Altre lettere parlavano dì fucilazioni di feriti compiute sotto gli occhi, anzi per ordine degli ufficiali.
Caratteristica delle lettere militari nelle quali vi sono espressioni di ferocia, di cupidigia, ecc. è il plurale.
Il soldato in guerra ritorna primitivo.
Come l’uomo che non ha mai tirato il collo ad un pollo giunge a scannare il prigioniero inerme, così l’uomo che restituisce al bottegaio, nella vita civile i due soldi avuti in più nel resto, saccheggia fattorie, chiese, magazzini. Chi è stato militare sa quanto sia vera l’affermazione di Voltaire « ladri e soldati sono sinonimi ».
Le storie militari sono piene di saccheggi. Dall’esercito romano agli ultimi eserciti mercenari il bottino fu sempre il compenso ed il maggiore stimolo delle milizie. Nelle guerre coloniali contemporanee il sistema del bottino si riaffaccia. Così nel gennaio 1892 il Ministero della Marina francese procedette a una distribuzione nella campagna del Tonkino dall’aprile 1882 all’ottobre 1884.
Inutile documentare sui saccheggi militari. Ci sarebbe da scriverne cento volumi. Il saccheggio del Palazzo d’Estate a Pekino (4).
I saccheggi della guerra balcanica, quelli della guerra europea dimostrano che tutti gli eserciti invasori hanno le unghie lunghe. I tedeschi, con l’invasione del 1870 sul suolo francese e con quella del 1914 sul suolo belga si sono fatti la fama di saccheggiatori. In realtà i Russi non si sono comportati diversamente nella Prussia orientale, e gli Italiani nei paesi tedeschi e sloveni, e nei paesi italiani stessi, durante la ritirata di Caporetto.
Quando un esercito invade la maggior parte di territorio nemico si macchia più di ogni altro di delitti. Questo bisogna tenerlo presente specialmente per quei delitti che più destano orrore e generano odio: le violenze alle donne. Durante la guerra i giornali intesisti presentano i « boches » come una massa di mandrilli, mentre in tutte le guerre ove vi fu occupazione militare di territorio nemico avvennero stupri e violenze.
Il soldato in guerra soggiace a condizioni speciali d’orgasmo che attivano ed eccitano il desiderio sessuale, nel tempo stesso che abbassano e smorzano il senso morale e il potere inibitorio.
Dal crociato che viola le donne di Gerusalemme al soldato inglese che viola le donne del Transwall, da quello tedesco che viola le donne francesi e belghe a quello russo che viola le donne prussiane e polacche, e così via, è sempre la foga erotica del combattente che la vince sul sentimento di pietà, sul senso di cavalleria. Se un certo numero di questi delitti, specie nelle forme più mostruose, si spiega con la presenza, nelle truppe, di criminali e di degenerati, e con la loro piena libertà d’azione, la maggior parte dei casi rivela una delinquenza collettiva.
La castità prolungata porta il bisogno sessuale ad uno stato di organismo che riporta l’uomo civile all’impulsività del primitivo. Anni or sono in un’isola del Pacifico abitata esclusivamente da maschi il governatore fece giungere un bastimento carico di donne. Allo sbarco si ripetè la scena del rapimento delle Sabine: le donne furono prese d’assalto dagli uomini imbestialiti, sì che alcune rimasero malconce, ferite e perfino uccise.
Negli episodi di stupro, che sono fra i più gravi oltre che per il carattere terrificante per la quasi sempre giovanissima età delle vittime, sarebbe lecito supporre che vi fosse un solo autore. Invece questi delitti presentano quasi sempre carattere collettivo. Nell’Ukraina, parecchi ufficiali e cosacchi dell’esercito di Denikine, andavano la sera fra la popolazione ebrea a scegliervi le fanciulle e perfino le bambine, che stupravano davanti agli occhi delle madri!
A Jroskouroff, nel 1918, l’ebrea Brila Beirerhs di 18 anni fu violata da ben 15 soldati di Petlura, in 15 volte!
A Britchany (Bessarabia), nel gennaio 1919, la bambina Reizen, di 14 anni, fu stuprata da un ufficiale rumeno, e nella stessa notte ne abusarono vari altri sotto-ufficiali, sì che la vittima morì il giorno dopo. Il poeta pangermanista Hureman così canta nel canto dei vincitori:
« La città vostra,
coll’oro, la porpora, i vasi
di vino, i bei letti e le donne,
alla nostra fame è promessa ».
***
« Le vostre vergini molli
le soffocheremo nel nostro
amplesso robusto. Sul marmo
dei ginecei violati
sbatteremo i pargoli vostri
come cuccioli. Il grembo
delle madri noi scruteremo
col fuoco, e non rimarranno
germi nelle piaghe fumanti
».
Stragi, saccheggi, stupri: ecco la guerra! Per sfogare le proprie voglie, il bruto trova il coraggio che gli mancherebbe per salvare un suo simile dal pericolo, per compiere un esperimento doloroso o pericoloso. E l’uomo medio nella fumosa e rossigna atmosfera guerresca ritorna barbaro, e talvolta ritorna selvaggio.

Note dell’articolo
(1) Revues de Revues, ott. 1893.
(2) HERMITTE, La guerre, Bordeaux, 1893.
(3) HAMON, Psychologie du militaire, pag. XXXI.
(4) Vedi: P. BRANDA, Mers de Chine, Paris, 1872.

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Nota bibliografica e storica a cura del Gruppo Anarchico Galatea.
Gli articoli estratti si trovano nell’opuscolo “Gli eroi guerreschi come grandi criminali”, pubblicato dalle “Edizioni Archivio Famiglia Berneri” nel 1987
Il curatore, Aurelio Chessa, aveva raccolto diversi articoli di Berneri pubblicati tra il 1925 e il 1939 nei vari giornali anarchici (“Germinal”, “L’Adunata dei Refrattari”, “Il Monito” e “Fede!”).
L’anarchico lodigiano, in essi, attaccava sia quegli eroi guerreschi innalzati da certa storiografia romantica e culturale come figure positive – quando in realtà non rappresentano il volto disumano del potere costituito –, che la guerra come giustificazione ai massacri e alla distruzione.
Gli articoli di Berneri, come scrisse Chessa nella sua “Introduzione” all’opuscolo, “doveva sbocciare in un libro dal titolo « Gli eroi ». Lo stava preparando con dei capitoli che io riunisco perché tutti sono leggibili singolarmente ed unificandoli, sono conseguenti come fossero stati scritti tutti di un fiato. Non avendoli pubblicati lui in libro, lo faccio io.

Su Aurelio Chessa rimandiamo le informazioni al seguente sito: Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa: http://panizzi.comune.re.it/Sezione.jsp?idSezione=238
Si ringrazia Gianpiero Landi della Biblioteca “Armando Borghi” di Castelbolognese (Ra) per la digitalizzazione dell’opuscolo.

Sul giornale “Germinal”
Pubblicato a Chicago il Primo Aprile del 1926, era diretto inizialmente da Erasmo Abate (anarchico nato a Formia ed emigrato negli USA nel 1912; usò lo pseudonimo Hugo Rolland) per poi passare a Armando Tiberi e Carlo Pagella e, infine, a Silvestro Spada.
Da mensile passò a quindicinale il 15 Marzo 1927. Tornò mensile dal 1 Aprile 1929 fino al 1 Maggio 1930 (anno in cui chiuse).
Il giornale pubblicava articoli teorici sul fascismo, sull’anarchismo etc. e seguiva la linea anarchica malatestiana.
Fonti consultate
-Bettini Leonardo, “Bibliografia dell’anarchismo : periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana, 1872-1971”
-Harzig Christiane, “The Immigrant Labor Press in North America, 1840s-1970s: Migrants from southern and western Europe”, Pennsylvania State University, 1987
-Interviste a Guy Liberti e a Erasmo Abate in Avrich Paul, “Anarchist Voices: An Oral History of Anarchism in America”, Princeton University Press, 1995

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