V. Mayo sangriento: Barcellona 1937 e dopo
Una tempesta prevedibile
I «fatti di maggio», cioè lo scontro armato dentro il campo antifascista, non sono un fulmine a ciel sereno. Le avvisaglie di una crescente tensione si ritrovano, oltre che nelle uccisioni di La Fatarella di fine gennaio 1937, in un paio di incidenti nei quali muoiono due importanti esponenti delle tendenze contrapposte: CNT – FAI e POUM da un lato e PSUC ed ERC dall’altro. Il 25 aprile viene ucciso, in circostanze oscure, Roldán Cortada, esponente della UGT , del PSUC ed ex della CNT (ala treintista); due giorni dopo è la volta, nel villaggio di Puigcerdà sui Pirenei, di Antonio Martín, noto militante anarchico, che cade in un conflitto con la polizia della Generalitat.
Sempre in aprile esplodono le proteste della popolazione per le carenze alimentari, e ciò aumenta il senso di precarietà e di tensione causato soprattutto dai primi bombardamenti dell’aviazione legionaria italiana, che procurano decine di morti e notevoli distruzioni. Il Primo Maggio, tradizionale appuntamento internazionale dei movimenti dei lavoratori, non vede alcun corteo o altre iniziative di massa che, nel clima già acceso, avrebbero potuto dar luogo a provocazioni e ulteriori scontri violenti.
In quei giorni la Generalitat rinnova un ennesimo pressante invito alle Patrullas de Control delle organizzazioni operaie affinché consegnino le armi al nuovo servizio di sicurezza unificato e posto ai suoi ordini. La convinzione prevalente nella base lavoratrice è ben espressa da un articolo apparso su «Solidaridad Obrera» il 2 maggio: «Compagni, le armi valgono più dei discorsi!», cui fa seguito il coerente rifiuto da parte del «popolo in armi». Di fatto, le Patrullas continuano a operare e rendono nulla l’ingiunzione del governo catalano, al quale ricordano che quelle armi sono state conquistate a costi umani molto elevati il 19 luglio 1936 e che esse garantiscono un potere reale e non delegato, nemmeno tramite la CNT – FAI , ai vertici istituzionali. Da tempo le forze che si oppongono alle collettivizzazioni e in genere alla rivoluzione in atto hanno trovato nel PSUC il proprio referente politico. Questo partito è sorto a Barcellona nel luglio 1936 subito dopo la vittoria sul golpe, alla quale i suoi aderenti hanno partecipato molto poco, ed è cresciuto prepotentemente mese dopo mese. L’ingresso nel governo autonomo catalano gli procura inizialmente pochi posti, ma ben presto il suo spazio si espande sfruttando la popolarità dell’Unione Sovietica, l’unico paese importante ad appoggiare la Repubblica e a sbarcare nel porto catalano una certa quantità di viveri, oltre che di armi.
Il PSUC diventa in breve il referente cruciale dell’ URSS per mettere sotto controllo la situazione rivoluzionaria in Catalogna, territorio dove l’anarcosindacalismo e, sia pure in misura molto minore, il marxismo non stalinista hanno una considerevole influenza sulle masse dei lavoratori. Entrambi si permettono oltretutto di attaccare l’immagine e la politica del Cremlino, in particolare denunciando i processi staliniani in corso nel 1936. Tali critiche, che accomunano la dissidenza marxista a settori della più potente CNT , danno molto fastidio allo Stato sovietico che si presenta come la «patria del socialismo». Per sottolineare la funzione strategica del PSUC , la Terza Internazionale fa un’eccezione al principio di riconoscere un solo partito in ogni paese e concede il crisma di membro dell’Internazionale anche a questo promettente partito in cui, al di là del nome di «socialisti unificati», i comunisti dispongono di una netta egemonia.
La «guerra fratricida» tra antifascisti inizia il 3 maggio quando un gruppo di poliziotti della Generalitat, al comando di Rodríguez Salas, ufficiale appartenente al PSUC , attacca il palazzo della Telefonica nella centrale Plaza de Catalunya. Lo scopo dichiarato è insediare il delegato nominato dal governo di Companys quale responsabile della gestione di un prezioso servizio che detiene un potere di fatto. Da tempo circola la voce, verosimile, che una telefonata del presidente della Repubblica Manuel Azaña sia stata ostacolata da un centralinista cenetista che avrebbe beffato la massima personalità politica. L’offesa costituirebbe la goccia che fa traboccare il vaso già colmo della «pazienza» di Companys, che si lamenta di fronte all’indisciplina di buona parte dei militanti anarcosindacalisti. Ma l’episodio, o la sua rappresentazione, può essere letto anche come il simbolo dell’insofferenza del potere istituzionale nei confronti di un potere reale che conta sul controllo di punti strategici, quale appunto la Centrale Telefonica. Questa sede, occupata dopo un’aspra lotta dai combattenti della CNT , è gestita in regime di collettività da un suo Comité, con qualche delegato della UGT in posizione subordinata. Per molti militanti della CNT – FAI è una conquista, raggiunta il 19 luglio 1936, da non perdere.
I lavoratori armati della Telefonica si barricano nei piani superiori, mentre la polizia autonoma resta al pianoterra. La notizia circola subito nei quartieri popolari della città e in poche ore esplode uno sciopero generale spontaneo: vengono innalzate decine di barricate, simili a quelle del 19 luglio, attorno alle quali le sparatorie si moltiplicano.
Una parte notevole degli aderenti alla CNT – FAI ritiene che sia venuto il momento di porre un freno all’espansionismo del PSUC , che conta sull’alleanza con l’ ERC . Gli appelli alla calma e alla fiducia lanciati dai vertici politici e sindacali nel corso delle trattative per «risolvere l’incidente» lasciano perplessi. Alla radio si alternano, per un paio di giorni, i proclami dei leader autonomisti e comunisti affiancati a quelli dei dirigenti anarcosindacalisti. Tra questi ultimi si sentono le voci di due ministri catalani della CNT ritenuti esponenti di punta dell’anarchismo irriducibile: García Oliver e Montseny. Tutti si dicono favorevoli a porre fine alla lotta, a smantellare le barricate e a tornare al lavoro e alla calma, con la promessa che i responsabili della provocazione poliziesca alla Telefonica sarebbero stati rimossi. Ormai i morti si contano a decine e giungeranno, in tutta la Catalogna, a più di 300 [1] . Il 5 maggio si spara vicino alle sedi delle organizzazioni e si registra l’uccisione di due esponenti di primo piano delle parti in conflitto. Antoni Sesé, segretario generale della UGT e dirigente del PSUC , non riesce a prendere possesso del posto di neoministro della Generalitat in quanto cade vicino al Sindicato de la Industria del Espectáculo della CNT ; Domingo Ascaso, fratello maggiore di Francisco, l’eroe caduto il 20 luglio 1936, è colpito a morte un paio di ore dopo Sesé.
Nel frattempo il governo Largo Caballero si appropria dei servizi di ordine pubblico e di difesa della Generalitat, sopprimendo le cariche autonome catalane, manda un paio di navi da guerra nel porto e prepara la spedizione di migliaia di Guardias de Asalto per ristabilire il controllo istituzionale e l’ordine pubblico. La mattina del 6 maggio sono rinvenuti anche i corpi di Camillo Berneri e di Francesco Barbieri nei pressi di Plaça Sant Jaume, vicino alla sede del governo autonomo. Gli appelli a cessare le sparatorie ottengono infine l’effetto desiderato, e se qualche scontro continua, nel complesso l’intensità e la gravità diminuiscono sensibilmente. Un gruppo di radicali, sia libertari che marxisti, che si denomina Los Amigos de Durruti [2] cerca di innescare un movimento rivoluzionario contro la linea rinunciataria delle burocrazie delle organizzazioni libertarie, ma l’intento riesce a sopravvivere solo alcuni giorni. Il 7 maggio, secondo la Generalitat, riprende il lavoro nelle fabbriche e negli uffici, oltre che nei trasporti pubblici. La conclusione viene salutata come una vittoria dal PSUC , evidentemente consapevole dei rischi corsi in quei giorni, mentre la CNT – FAI dichiara che le convulse giornate sono terminate senza vincitori né vinti. In realtà non è facile per i leader anarchici fare un bilancio di questo tragico conflitto che mette a nudo i limiti e le contraddizioni della collaborazione in nome della guerra antifascista. Il progressivo aumento di influenza da parte di formazioni, come il PSUC e la ERC , che il 19 luglio 1936 sembravano contare assai poco, e ciò a scapito dei punti di forza dei libertari, comporta un giudizio assai negativo sulla scelta della dirigenza CNT – FAI di non spingere a fondo lo slancio rivoluzionario, quanto meno in Catalogna [3] . D’altra parte, come ribadito più volte, il confronto non si svolge solo nella regione più ricca, più moderna e più libertaria della Spagna.
Il maggio 1937 provoca l’irreversibile crisi della partecipazione anarchica al governo di Largo Caballero. Il dirigente socialista, espressione della UGT , è messo in difficoltà dalla pressante richiesta dei ministri del PCE di decretare lo scioglimento del POUM , accusato di «spionaggio a favore del nemico» e di essere «l’ispiratore del putsch criminale di Catalogna» [4] . L’ex dirigente sindacale, a suo tempo osannato dagli stalinisti come il «Lenin spagnolo», non vuole accogliere questa richiesta e si dimette. Due giorni dopo, su immediata designazione di Azaña, è nominato un nuovo governo presieduto ancora da un socialista, Juan Negrín, ma stavolta proveniente dalla corrente di Indalecio Prieto, responsabile delle strutture organizzative e burocratiche del PSOE e quindi rivale di Largo Caballero. Al di là dell’etichetta di socialista, il dottor Negrín, secondo molti esponenti della CNT – FAI , è invece più che disposto a cedere alle pressioni del PCE – PSUC per eliminare il marxismo dissidente.
Caccia ai rivoluzionari dissidenti
Dopo la sospensione del quotidiano «La Batalla», la chiusura delle sedi e l’espulsione dagli organi di governo locali, il 16 giugno 1937 si procede a Barcellona all’arresto in blocco del Comité Ejecutivo del POUM , compreso il segretario Andreu Nin, già membro del governo della Generalitat.
L’obiettivo per i comunisti stalinisti, sulla scia dei contemporanei processi di Mosca, è di ottenere delle piene confessioni dagli imputati di spionaggio, in particolare dalla personalità più in vista, il catalano Nin. Questi, dopo aver esaltato la rivoluzione russa nei primi anni Venti e aver poi attaccato l’accentramento del potere nelle mani di Stalin e la repressione contro i vecchi bolscevichi, era scappato dall’URSS per sfuggire alla polizia sovietica. Gli interrogatori cui viene sottoposto, in prigioni gestite direttamente e segretamente dal PCE , sono particolarmente duri, ma Nin sembra non cedere. Gli inquisitori continuano a torturarlo per fargli dichiarare la propria colpevolezza, secondo la prassi collaudata in Unione Sovietica nei processi ai «controrivoluzionari». Come in altri casi simili, l’inutile interrogatorio porta alla morte o alla impossibilità di presentare l’imputato in un pubblico processo. La delicata questione è risolta con una pratica già sperimentata: si finge la sua liberazione da parte di una squadra nazista e il corpo sparisce nella campagna madrilena. A chi scrive sui muri: «¿Donde está Nin?», i comunisti filomoscoviti rispondono «¡Está en Burgos o en Berlín!», le capitali dei nemici franchisti e nazisti. In tempi recenti, ricerche condotte nell’archivio della KGB a Mosca hanno confermato che tanto questa quante altre sparizioni erano direttamente guidate dal Cremlino. Il processo agli altri dirigenti del POUM si tiene nell’ottobre 1937 e termina con l’assoluzione dall’accusa di spionaggio e tradimento, ma con una condanna per aver provocato gli scontri del Mayo sangriento [5].
A Barcellona, e non solo, dopo la fine dello scontro armato le istituzioni repressive procedono a centinaia di arresti tra i militanti più radicali. Si crea una situazione paradossale. La CNT apparentemente mantiene quasi intatta la sua forza: le colonne armate confederali sostengono una parte non secondaria dello sforzo bellico, le collettività industriali e rurali continuano a funzionare grazie alla forte influenza anarchica, i sindacati sono in piena attività. Contemporaneamente, però, centinaia di militanti, se non migliaia, vengono arrestati con accuse infamanti come aver rubato o ucciso sotto la protezione sindacale. E i reati sarebbero stati compiuti anche nelle prime fasi della risposta armata popolare al tentativo di golpe. Per avere un’idea della dimensione del fenomeno, si tenga conto che nel carcere di Tortosa, nel sud della Catalogna, a fine giugno 1937 risultano detenuti da alcune settimane circa 300 militanti.
La risposta della CNT catalana avviene a due livelli: promuovere la costituzione, dentro e fuori le carceri, di Comité pro Presos di sostegno ai detenuti e la formazione, decisa dal Comité Regional, di un’apposita Comisión Jurídica diretta dall’avvocato Eduardo Barriobero, repubblicano vicino alla CNT e difensore in molti processi prima del 1936. In effetti la Comisión sconta la progressiva perdita di potere reale del sindacato e poco può fare a favore dei «prigionieri antifascisti» che aspettano per lungo tempo lo svolgimento dei relativi processi pubblici. Funzionari delle carceri e degli uffici giudiziari rispondono con sufficienza e genericità, impensabili prima del maggio 1937, alle richieste di notizie precise sui contenuti delle accuse e sulle detenzioni in atto. La situazione pare bloccata al punto che alcuni sindacati criticano la «commissione fantasma» e giungono al punto di organizzare evasioni contando sulla complicità dei dipendenti dalla struttura carceraria, nominati al tempo in cui García Oliver era ministro della Giustizia. Alcuni detenuti liberati in modo illegale vengono poi fatti fuggire anche da Barcellona e trovano protezione nelle colonne confederali al fronte.
All’interno dei vari organismi della CNT si svolgono accesi dibattiti sul modo di operare in difesa dei detenuti, che spesso sono accusati di reati del tutto pretestuosi. I vertici sindacali si mostrano particolarmente restii a proteggere i militanti della CNT che si sono più esposti negli scontri del maggio 1937, i quali restano per lo più senza appoggi organizzativi ufficiali fino al dicembre 1937.
In una riunione del Comité Regional di quel periodo la mozione finale riconosce corretta la posizione del Comité Jurídico contrario alla difesa degli elementi estremisti, anche se tesserati CNT , e delega l’eventuale impegno solidale ai singoli sindacati che lo sceglieranno sotto la propria responsabilità.
Dalle prigioni, in particolare dalla Modelo di Barcellona, vengono spedite numerose lettere di protesta agli organismi istituzionali e ai Comité della CNT . In genere si minacciano forme di lotta aperta nel caso di mancati interventi protettivi o di non rispetto dei diritti dei «prigionieri antifascisti» [6] . Il segretario della CNT catalana, Josep Doménech, incontra il ministro della Giustizia della Generalitat per ottenere il permesso di visitare i militanti incarcerati, i quali sono peraltro sul punto di scatenare una rivolta. Dopo un paio di giorni, oltre 200 detenuti ritenuti «pericolosi» sono trasferiti d’urgenza in altre prigioni della regione e per qualche mese la situazione resta sotto il controllo delle autorità. In seguito a varie forme di protesta, dallo sciopero della fame alla distruzione di arredi, cui partecipano anche volontari internazionali incarcerati, 800 detenuti di varie tendenze politiche vengono spostati nella nuova residenza carceraria del centro di Barcellona, da poco inaugurata, e nei campi di lavoro dei dintorni. È quest’ultima soluzione quella che, nel corso del 1938, permette di disinnescare le rivolte carcerarie, con l’accordo della CNT che riesce a ottenere molte scarcerazioni.
Note al capitolo
[1] P. Pagès, Cataluña en guerra…, cit., p. 209. Altre fonti stimano in circa 500 i morti del maggio 1937.
[2] M. Amorós, La revolución traicionada. La verdadera historia de Balius y Los Amigos de Durruti, Virus, Barcelona, 2003.
[3] C. Semprun Maura, Libertad!, Elèuthera, Milano, 1996.
[4] P. Pagès, Cataluña en guerra…, cit., pp. 211-213.
[5] Il tema scottante del maggio 1937 produce tuttora nuove opere. Recentissima è quella densa ed «equidistante» di F. Gallego, Barcelona, mayo de 1937, Debate, Barcelona, 2007. Tra le «schierate» ricordiamo almeno l’antologia Barcelona, mayo 1937. Testimonios desde las barricadas, Alikornio, Barcelona, 2006 e A. Guillamón, Barricadas en Barcelona, Spartaco Internacional, s.l., 2007. Intenti di riflessione ideologica sul maggio e sulla linea politica della sinistra rivoluzionaria si trovano nel lavoro di G. Munis, Lezioni di una sconfitta, promessa di vittoria, Lotta Comunista, Milano, 2007. Per difendersi dall’accusa di aver progettato e gestito il complesso piano del sequestro, dell’interrogatorio e della sparizione di Nin, il comunista triestino Vittorio Vidali rinvia alla normalità delle eliminazioni staliniane: «Perché mai avrei dovuto organizzare quella messa in scena? In quell’epoca se si doveva fucilare un anarchico o un poumista lo si faceva senza tante storie. Figuriamoci poi se avevano bisogno di me». In G. Bocca, Palmiro Togliatti, Laterza, Roma-Bari, 1973, p. 301.
[6] F. Godicheau, La guerre d’Espagne. République et révolution en Catalogne (1936-1939), Odile Jacob, Paris, 2004, pp. 297-328.