Il 4 Marzo del 1976, Antonio Ruiz, un adolescente spagnolo, fu arrestato a Valencia perché omosessuale.
Il giovane aveva da poco fatto coming out con la sua famiglia e, dopo che sua madre ne parlò al prete durante la confessione, una suora denunciò la cosa alla polizia.
Ruiz venne giudicato colpevole di aver violato la “Ley sobre peligrosidad y rehabilitación social”, una legge emanata nel 1970 da Franco.
La legge del 1970 andava molto più nello specifico rispetto alla “Ley de vagos y maleantes” del 1933 (che era stata modificata dal regime franchista nel 1954), in quanto colpiva maggiormente la comunità LGBT tramite la reclusione nelle carceri e nei manicomi.
Ruiz venne trasferito in diversi carceri: El Modelo di Valencia, Carabanchel e Badajoz.
Dai suoi ricordi in carcere, Ruiz racconta di aver vissuto in mezzo ai ladri e assassini nonostante la sua giovane età e di come le guardie lo portassero fuori tutte le sere dalla cella per spingerlo a denunciare altri omosessuali presenti in carcere. Ogni sera erano botte a non finire visto che non parlava.
Altri hanno avuto la sfortuna di finire confinati a Tefía, un campo di concentramento noto come Colonia Agricola Penitenciaria, operativo dal 1954 al 1966.
Le persone incarcerate vi rimanevano per un periodo massimo di tre anni. Costretti a lavorare i campi in condizioni molto dure, nel mezzo di un arido deserto, i prigionieri erano sottoposti a torture ed umiliazioni, a cui si aggiungeva la mancanza di cibo adeguato.
Essere omosessuali durante il regime franchista non significava solo repressione, ma era anche sinonimo di esclusione, poiché i precedenti penali impedivano loro di trovare lavoro. Nemmeno la successiva Costituzione democratica garantiva i diritti alla comunità LGTB+.
L’abrogazione totale della “Ley sobre peligrosidad y rehabilitación social” avvenne solo nel 1995.
La storia di Ruiz è stata una fonte di ispirazione per lo sceneggiatore Juan Sepúlveda – imbattutosi nella sua storia mentre guardava un documentario negli anni ’90 -, che creò, insieme ad Antonio Santos Mercero e all’illustratrice Marina Cochet, il fumetto “El Violeta”.
Il termine “violeta” indicava in modo dispregiativo le persone omosessuali in Spagna; come detto da Ruiz stesso, “parte di “El Violeta” è ispirato alla mia vita, anche se nel fumetto il protagonista sposa una donna in modo che non gli succeda nulla, cosa che non ho mai fatto perché significava distruggere due vite”.
L’opera del trio Sepúlveda-Mercero-Cochet mostra attraverso il protagonista Bruno la vita infernale che le persone omosessuali erano costrette a vivere nella Spagna franchista.
Una vita dove le violenze poliziesche e carcerarie erano la quotidianità. Chi “guariva”, era costretto a vivere una “vita normale”, rinnegando se stesso e pensando di essere malato. Chi invece era refrattario, veniva escluso e messo ai margini della società cattolica spagnola, subendo le violenze della polizia.
Di seguito, la parte del fumetto “El Violeta” in cui viene ritratto il momento della retata e dell’interrogatorio fatto da Bruno, il poliziotto e protagonista della storia, e Aguado, un omosessuale e suo ex compagno di cella.