Patriarcato e difesa della razza: un connubio indissolubile
Per questo paragrafo si ringraziano Caterina, Nicoletta e Rita per la collaborazione
Dopo la morte di Ogorchukwu e l’arresto di Ferlazzo, la compagna di quest’ultimo ha detto che “quell’uomo chiedeva soldi con insistenza. Si è avvicinato a me con grande invadenza e il mio compagno ha perso le staffe”.
A sua volta, l’avvocato di Ferlazzo, Roberta Bizzarri, ha rilasciato la seguente dichiarazione:
“È veramente addolorato, ha pianto sempre, non si capacita che quell’uomo è venuto a mancare. A far scattare la molla dell’aggressione sarebbe stato uno strattonamento ricevuto dalla compagna, Elena, da parte del nigeriano ucciso. Lui dice di aver aggredito l’ambulante quando la compagna è stata presa per un braccio, sostiene che voleva fargli capire che non ci si comporta così, impartirgli una lezione.”
Le parole sono importanti e rivelatorie di certe attitudini e concezioni mentali di chi le pronuncia. E così, leggere di lezioni impartite e “non ci sono comporta così” è indice di una forma di razzismo interiorizzato, spesso anche inconsapevole, per cui “l’africano” in Italia non può comportarsi come al “suo paese”: va rieducato, anche con le cattive, per fargli capire che certe cose non si possono fare. In particolare, non si può importunare la “sacra femmina” accompagnata dall’uomo bianco nello spazio pubblico.
Il discorso patriarcale si lega indissolubilmente a quello nazionalista e razziale.
Nel corso degli anni, la propaganda di destra ci ha deliziato con notizie strumentalizzate dove le donne vengono importunate o abusate da persone nere o arabe, minimizzando o negando allo stesso tempo le violenze dello stesso tipo compiute da soggetti “italianissimi e bianchissimi”.
Tale discorso, lungi dall’essere anche solo vagamente emancipatorio per le donne, rivela in realtà una serie di concezioni del pensiero dominante.
Il corpo femminile viene difeso solo perché tramite esso è più facile difendere il mito della bianchezza, innestando il discorso razziale su quello patriarcale e misogino.
Non a caso, uno dei cavalli di battaglia delle destre, è proprio la “difesa delle nostre donne”.
Secondo i cultori della bianchezza:
-in primo luogo, la donna che si muove da sola nello spazio pubblico non è al sicuro; questo perché lo spazio pubblico è “inquinato” da soggetti alieni (pericolosi e potenziali stupratori per definizione) e non a causa delle dinamiche patriarcali trasversali alla società;
-in secondo luogo, le persone non bianche – in particolare quelle migranti -, sono intrinsecamente cattive, portatrici di una cultura violenta nei confronti delle donne.
Questa concezione è ancora più rimarcata se si tratta di persone appartenenti ad una religione avversaria al cristianesimo cattolico; uno dei cavalli di battaglia della destra nostrana, in particolare nelle sue frazioni neofasciste e tradizionaliste, è l’identità cristiana come opposta e più civilizzata rispetto all’Islam.
Considerazioni di questo tipo hanno mosso, proprio a Macerata, Luca Traini nel febbraio 2018 a compiere un atto di “giustizia fai da te”, sparando letteralmente a caso su ogni persona nera incontrata per strada, evitando la strage per pochissimo.
Traini agì da “lonewolf” [4] come atto di “vendetta” nei riguardi della morte violenta della diciottenne Pamela Mastropietro, avvenuta a fine gennaio dello stesso anno per mano di Innocent Oseghale, uno spacciatore nigeriano.
Traini agì da solo, ma il suo gesto è stato apprezzato da molti che pensavano ci fosse bisogno di dare una lezione a questi soggetti (le persone migranti dedite, secondo la concezione comune, alla criminalità), rimettendoli “al loro posto”.
Ma in generale, qual è la concezione che la società italiana ha della donna?
Nella rissa tra due uomini, la donna viene ritenuta come un oggetto, una proprietà da salvaguardare o un territorio di conquista.
Nonostante nel 1981 siano state abrogate le leggi sul “matrimonio riparatore” (art. 544 c.p.; una misura che serviva a nascondere abilmente lo stupro commesso) e sul “delitto d’onore” (art. 587 c. p.; la donna sposata non doveva disonorare il marito pena la sua morte), le istituzioni e la società italiana hanno mantenuto in auge la visione della donna subordinata all’uomo, al maschile dominante.
Quando parliamo di subordinare, in senso generale, intendiamo “far dipendere una cosa da un’altra. Mettere una cosa in sottordine rispetto a un’altra” (“Lo Zingarelli 2011. Vocabolario della lingua italiana”, 2010, Dodicesima Edizione).
In un contesto patriarcale, la subordinazione femminile si riferisce alla posizione secondaria delle donne, all’accesso negato alle risorse, al processo decisionale, ecc che le portano ad una continua sensazione di impotenza, discriminazione ed esperienza di una limitata autostima e fiducia in se stesse.
L’utilizzo dell’espressione “subordinazione femminile” non è usato a caso; Gerda Lerner, nell’ “Appendix. Definitions” del libro “The creation of patriarchy”, spiega le differenze tra “oppressione” e “subordinazione” e del perché si tende ad utilizzare quest’ultimo termine:
“[…] la parola “oppressione” implica il vittimismo; in effetti, coloro che la applicano alle donne spesso concettualizzano principalmente come vittime le “donne-come-gruppo”. Questo modo di immaginare le donne è fuorviante e antistorico. Sebbene tutte le donne siano state vittime in alcuni aspetti della loro vita e alcune, in certi momenti, più di altre, le donne sono strutturate nella società in modo tale da essere sia assoggettate che agenti. Come abbiamo detto in precedenza, la “dialettica della storia delle donne”, la complessa attrazione di forze contraddittorie sulle donne, le rende contemporaneamente marginali e centrali negli eventi storici. Cercare di descrivere la loro condizione usando un termine che oscura questa complessità è controproducente.
La parola “oppressione” si concentra su un torto; è soggettiva in quanto rappresenta la consapevolezza del gruppo assoggettato di aver subito un torto. La parola implica una lotta per il potere, una sconfitta che porta al dominio di un gruppo sull’altro.
Può darsi che l’esperienza storica delle donne includa “oppressioni” di questo tipo, ma comprende molto di più.Le donne, più di ogni altro gruppo, hanno collaborato alla propria subordinazione accettando il sistema di sesso e genere.
Hanno interiorizzato i valori che le subordinano a tal punto da trasmetterli volontariamente ai loro figli e alle loro figlie. Alcune donne sono state “oppresse” in un aspetto della loro vita da padri o mariti, mentre loro stesse hanno esercitato un potere su altre donne e uomini. Queste complessità diventano invisibili quando il termine “oppressione” viene usato per descrivere la condizione delle donne come gruppo.
L’uso dell’espressione “subordinazione delle donne” al posto della parola “oppressione” presenta vantaggi distintivi. La subordinazione non ha la connotazione di un’intenzione malvagia da parte del dominante; consente la possibilità di collusione tra lui e la parte subordinata. Include la possibilità di accettare volontariamente lo status di subordinato in cambio di protezione e privilegi, una condizione che caratterizza gran parte dell’esperienza storica delle donne. Per questa relazione userò il termine ” predominio paternalistico”. Il termine “subordinazione” comprende altre relazioni oltre al ” predominio paternalistico” e ha l’ulteriore vantaggio, rispetto a “oppressione”, di essere neutrale rispetto alle cause della subordinazione. Le complesse relazioni tra sesso e genere di uomini e donne nel corso di cinque millenni non possono essere attribuite a un’unica e semplice causa – l’avidità di potere degli uomini. È quindi meglio usare termini abbastanza privi di valore che ci permettano di poter descrivere le varie e diverse relazioni tra sesso e genere, costruite da uomini e donne in tempi e luoghi diversi.”
Il rapporto di potere così creato porta gli uomini, secondo femministe come Simone de Beauvoir e Kate Millet, a considerare le donne come un secondo sesso (o subalterno a quello maschile), o una classe sessuale dipendente dal dominio patriarcale.
Il patriarcato, come sistema, pone e accentua diversi tipi di violenza che possono essere usati per controllare e sottomettere le donne.
Tale violenza da parte degli uomini può persino essere considerata legittima e le donne sono sempre considerate vittime della violenza maschile. La violenza maschile è sistematicamente condotta con l’avallo delle istituzioni (statali e clericali) e della cultura del dominio.
In questo sistema patriarcale, uomini e donne si comportano, pensano e aspirano in modo diverso perché è stato insegnato loro a pensare alla mascolinità e alla femminilità in modi che condizionano la differenza di genere.
In tal senso, si dimostra che gli uomini e le donne hanno, o dovrebbero avere, una serie di qualità e caratteristiche completamente diverse e contrapposte. Ad esempio, le qualità “maschili” sono forza, coraggio, impavidità, dominio, competitività, ecc., mentre quelle “femminili” sono cura, accudimento, amore, timidezza, obbedienza, ecc.
Per preservare tale stato di cose – in cui è compresa la subordinazione -, fin dall’infanzia gli individui vengono plasmati tramite un processo di socializzazione di genere.
Chi alimenta questi processi (subordinativi e di socializzazione) sono la famiglia, la cultura, le istituzioni e il sistema capitalistico.
In un sistema ineguale, discriminatorio e di subordinazione, scriveva Sylvia Walby in “Theorizing Patriarchy”, “la forza lavoro delle donne, la riproduzione delle donne, la sessualità delle donne, la mobilità delle donne, la proprietà e altre risorse economiche sono sotto il controllo patriarcale”.
Conclusioni
Alla luce di quello che abbiamo riportato, risultano chiare le dinamiche che sono accadute in quel frangente. L’uccisione di un soggetto ricadente in più linee di fragilità, in quanto soggetto razzializzato, disabile e presumibilmente ai gradini più bassi della gerarchia maschile, è solamente la punta dell’iceberg di un sistema di violenze interiorizzato che agisce dal e sul corpo sociale.
Quanto abbiamo riportato nei tre paragrafi precedenti costituisce quelle condizioni di contorno che hanno fatto sì che una persona, in evidente situazione di difficoltà e pericolo, venisse uccisa.
Non abbiamo voluto trattare alcuni dettagli che sono circolati sui social e sui media mainstream nel corso di questa ultima settimana:
– il TSO a cui era stato sottoposto l’omicida in passato: non tanto perché non lo ritenessimo importante, ma perché esula dalle nostre conoscenze. Inoltre, concentrarsi sul problema psicologico-psichiatrico rischierebbe di far passare la vicenda come opera di “un pazzo”, quando invece si tratta di un fatto sociale che ha radici ben precise e non può essere ricondotto, secondo noi, ad un momentaneo raptus di violenza;
– la turistificazione del territorio: Civitanova Marche è una località balneare che affaccia sull’Adriatico. Non abitando in quelle zone, non sappiamo quanto abbiano inciso i processi di turistificazione e mercificazione sulle dinamiche sociali di quel territorio.
Per poter aiutare la famiglia di Ogorchukwu, riportiamo l’IBAN del conto corrente intestato alla moglie Charity Oriakhi: IT85N0200869201000106469918
Bibliografia
-Bianco Alessandro, conte di Saint-Jorioz, “Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863. Studio storico-politico-statistico-morale-militare”, G. Daelli e C. Editori, Milano, 1864
-Del Boca Angelo, “Italiani, brava gente?”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2011
-bell hooks, “Tutto sull’amore. Nuove visioni”, Feltrinelli, Milano, 2003
-Dando Dandi, “Bianchi e Negri”, Edizioni L’Antistato, Cesena, 1962
-Simoons Frederick J., “Non mangerai di questa carne”, Eleuthera, Milano, 1991
-Hortensius Ruud, de Gelder Beatrice, “From Empathy to Apathy: The Bystander Effect Revisited”, “Current Directions in Psychological Science”, n. 4, anno 27, Agosto 2018, pagg. 249–256
-(a cura di) Mantovani Giuseppe, “Manuale di psicologia sociale”, Giunti Editore, Firenze, 2003
-Zamperini Adriano, Testoni Ines, “Psicologia sociale”, Einaudi, Torino, 2017
-Schroeder et al., “The psychology of helping and altruism: Problems and puzzles”, McGraw-Hill, 1995
-Lerner Gerda, “The creation of patriarchy”, Oxford University Press, 1986
-de Beauvoir Simone, “Il secondo sesso”, Il Saggiatore, Milano, 1999
-Millett Kate, “La politica del sesso”, Rizzoli, Milano, 1971
-Walby Sylvia, “Theorizing Patriarchy”, Wiley-Blackwell, 1991
Note
[4] Traduzione per “lupo solitario”. Secondo “urban dictionary”, un lupo solitario è “una persona che preferisce stare da sola piuttosto che con gli altri. Diversamente da un eremita, un lupo solitario vivrà e lavorerà nella società piuttosto che nascondersi da essa. Può anche riferirsi a una persona che preferisce lavorare da sola […] non cercano la compagnia degli altri.”
Nei casi di atti terroristici (come quello di Traini, ma anche di Anders Breivik nel 2011), i lonewolves sono quelle persone che agiscono in via informale dopo essersi radicalizzate, solitamente in forum online, ed aver avuto accesso a tutta una serie di informazioni che vanno dai target da colpire al reperimento di armi da fuoco o fabbricazione di materiali esplodenti.