Le campagne in autogestione. Braccianti e contadini
È stata definita «la obra constructiva de la revolución» l’esperienza delle migliaia di collettività rurali che dall’Aragona all’Andalusia orientale, dal Levante alla Castiglia del sud, hanno fornito una quota importante della produzione agricola durante la guerra. Qualche dato concreto rende l’idea della dimensione e della qualità del fenomeno collettivista nelle campagne. Secondo i dati forniti da ambienti vicini ai collettivisti, considerati però con cautela da certi storici, le aziende agrarie collettivizzate si aggirano attorno alle 1.500 unità per un totale stimato in circa un terzo di tutti gli abitanti delle zone rurali non conquistate, almeno per alcuni mesi, dai golpisti [17] . I dati assoluti e le percentuali logicamente variano a seconda del periodo considerato, tenendo conto che con la caduta del nord (estate 1937) la popolazione attiva repubblicana si riduce da 6.000.000 a 5.000.000. Nel complesso le unità collettivizzate che fanno esplicito riferimento alla CNT sono circa il doppio di quelle che fanno riferimento alla UGT , senza tener conto delle situazioni miste. La UGT prevale in Andalusia e Castiglia-La Mancha (in entrambe ha circa il 60%), mentre la CNT conta più adesioni nel País Valenciano (l’80%), in Aragona (il 90%) e in Catalogna (il 95%).
È difficile stimare la percentuale di terra coltivata in regime di collettività per mancanza di dati attendibili ed è arduo anche valutare il grado di volontarietà nella loro formazione. Un certo livello di spontaneità si può intuire nell’adesione di braccianti o di contadini poveri che avevano un preciso interesse a emanciparsi dallo sfruttamento dei proprietari medi e grandi. La questione è più incerta per i proprietari autosufficienti, che avevano dei vantaggi concreti nell’utilizzo delle strutture tecniche a disposizione dei collettivisti, ma non potevano assumere dipendenti, né stagionali né stabili, com’erano abituati a fare fino a quel momento.
Inoltre, specialmente per l’Aragona, molti storici fanno notare che la presenza delle milizie confederali, per lo più catalane, spingeva verso la collettivizzazione, il sistema che più si avvicinava al «comunismo libertario» preconizzato dalla CNT , anche nel recente congresso di Saragozza. Peraltro, il fatto che nella cittadina di Caspe – sede del Consejo de Aragón, che disponeva di un potere politico quasi assoluto sulla regione – la percentuale delle aziende collettivizzate fosse molto bassa indica che le pressioni delle colonne armate non erano così pressanti come talora si afferma. Qual era il funzionamento delle collettivizzazioni rurali? È doverosa la premessa sull’inesistenza di un unico modello di riferimento, sia per la natura diversa delle zone dove si sperimentavano, sia per la composizione variabile delle organizzazioni sindacali che le sostenevano, sia per la stessa fisionomia non omogenea ma pluralista del nuovo metodo produttivo e sociale. In generale era l’assemblea del villaggio, o dei lavoratori, a decidere la messa in comune delle terre, a partire da quelle appartenenti a persone assenti, fuggite, espropriate o addirittura uccise durante le giornate attorno al 18 luglio 1936 in quanto simpatizzanti per il golpe. Si è calcolato che circa il 40% delle terre disponibili sia stato espropriato dal governo e, di questo, poco più della metà sia stato effettivamente collettivizzato [18] .
Dal punto di vista operativo, veniva nominato un Comité che, in riunioni aperte, esercitava una verifica giornaliera sulle attività svolte, e questo dopo l’orario di lavoro: i coordinatori non disponevano, in linea di principio, di alcun privilegio rispetto ai coordinati. La ripartizione degli incarichi era concordata nelle assemblee o con il Comité, e nelle riunioni plenarie della popolazione si decideva come far funzionare la distribuzione dei beni prodotti e di quelli giunti sulla base degli scambi con altre realtà simili. Di norma i generi di prima necessità erano distribuiti senza particolari controlli, in omaggio al principio della «presa nel mucchio» in base alle proprie necessità. Quando si presentava una situazione di carenza, si procedeva con il metodo della cartella indicante le quantità e qualità dei beni prelevati dal magazzino comune, determinate in proporzione ai componenti del nucleo familiare.
In certi casi il denaro, considerato inutile e pericoloso per il possibile ricrearsi di nuove disuguaglianze, era stato abolito e sostituito da una serie di vales, buoni intrasferibili che davano diritto a fornirsi nei depositi della collettività cui erano destinati i prodotti della coltivazione e degli scambi. In generale la collettività si preoccupava di acquisire mezzi meccanici per ridurre gli sforzi lavorativi e cercava di soddisfare anche le attività di svago, di socializzazione e i bisogni culturali, dalla musica in piazza ai balli, dal cinema alla biblioteca. Era il nucleo delle Juventudes Libertarias che spesso creava le occasioni di incontro conviviale e culturale. La partecipazione allo sforzo bellico veniva sostenuto con la fornitura di generi alimentari o prodotti della terra alle colonne miliziane più vicine o ai reparti militari nei quali erano presenti giovani della comunità.
Un episodio, raccolto da Abel Paz nel libro delle sue memorie dedicato agli anni dal 1936 al 1939, rivela in modo eloquente il non facile passaggio dalla mentalità del proprietario a quella del collettivista. Uno dei militanti più convinti della messa in comune delle sementi, degli attrezzi e degli animali si alza nel cuore della notte ed esce di casa senza fare rumore. Abel ricorda di averlo seguito di nascosto. L’uomo entra nella stalla, si avvicina a un cavallo, lo accarezza e gli parla. Spiega poi al giovane barcellonese venuto dalla città per conoscere le collettività rurali che l’animale fa sì parte del patrimonio collettivo, ma è rimasto il «suo» cavallo, verso il quale mantiene un’attenzione particolare [19] .
L’esempio collettivista analizzato con maggior attenzione è quello di un villaggio del basso aragonese, nella provincia di Teruel: Cretas. Su questo caso gli autori hanno svolto ricerche pluriennali raccogliendo sia fonti scritte che orali, e la ricostruzione effettuata è tra le migliori quanto a definizione dei problemi e delle soluzioni dei collettivisti [20] . Un episodio delinea, forse meglio di tante analisi, la questione della violenza e della tolleranza nel piccolo centro collettivizzato (1.600 abitanti), nel quale, dopo gli scontri iniziali, anche il medico reazionario è accettato per la sua indispensabile professione. Questi si rivela però troppo generoso con i suoi amici di destra a proposito di ricette e di permessi di uscita dal territorio comunale, e per dargli un messaggio chiaro un miliziano armato si mette a fare la fila nella sala d’attesa. Si ricorre cioè a un tipo di minaccia che ricorda più l’astuzia popolare che un potere istituzionale.
Logicamente non si tratta del «paradiso in terra» [21] , come si esprime con sarcasmo uno storico accademico, e non mancano i conflitti e le carenze, la disorganizzazione, e perfino un certo egoismo delle collettività più ricche verso le più povere. Inoltre, la leva obbligatoria costringe molti giovani, i più decisi nella sperimentazione della nuova realtà semiutopica, a vestire la divisa e a partire per il fronte. Ciò comporta che la terra è coltivata solo dagli anziani e dalle donne e, data la scarsa meccanizzazione, la produttività si riduce.
Talvolta gli stessi sostenitori della collettivizzazione entrano in conflitto tra loro sul ruolo degli organi collettivisti e delle sezioni sindacali oppure del Comité Revolucionario, sorto piuttosto per motivi di lotta armata. Sullo sfondo, il governo repubblicano cerca di seguire una tattica tesa a riprendere il controllo della produzione e toglierla alle strutture locali, decentrate e quasi autonome. Così il 7 ottobre 1936 il ministro dell’Agricoltura, il comunista Vicente Uribe, emana un decreto che al contempo legalizza le collettività esistenti, stabilisce le norme per quelle da costituire e affida compiti di supervisione all’Instituto de la Reforma Agraria, sua diretta emanazione. Questo riconoscimento giuridico, che in teoria può tranquillizzare il movimento collettivista più o meno legato alla CNT e all’ UGT , istituisce però meccanismi di controllo istituzionale in grado di rioccupare gradualmente quegli spazi sottratti all’iniziativa statale, anche in vista di un futuro possibile intervento di tipo meno conciliante.
In una regione ad agricoltura ricca come il Levante, dove si producono le migliori arance che si esportano in grandi quantità, la collettivizzazione comporta anche il tentativo di gestire in proprio, attraverso il Consejo Levantino Unificado de Exportación Agrícola ( CLUEA ) fondato da CNT e UGT , il ricco flusso di valuta straniera che, malgrado la guerra in corso, arriva dai mercati europei. All’inizio il governo tollera questo organismo in quanto non riesce, per un rapporto sfavorevole di forze, a ridurne l’importanza e l’autonomia. Ma già nell’ottobre 1936, su spinta dei comunisti, si fonda un organismo alternativo al CLUEA basato sull’adesione dei piccoli proprietari e dei mezzadri valenzani che in passato avevano aderito al sindacato cattolico, ora sciolto. Nel settembre del 1937, approfittando della svolta del maggio 1937, il governo dà vita alla Central de Esportación de Agrios ( CEA ), dipendente dal ministero dell’Economia, senza la minima partecipazione di esponenti della CNT – FAI.
È questa una delle tappe del processo di esautoramento del potere rivoluzionario e sindacale da parte dei partiti repubblicani tra i quali cresceva il peso del PCE – PSUC , contrari fin dall’inizio a una rivoluzione sociale con la motivazione che un cambiamento così radicale fosse sbagliato, se non addirittura opera di provocatori. L’obiettivo principale della lotta contro i golpisti avrebbe dovuto infatti essere quello di sconfiggerli militarmente per realizzare una Spagna democratica e antifascista. A questo scopo bisognava non spaventare le democrazie occidentali e seguire invece la politica estera dell’ URSS , impegnata a creare alleanze con la Francia e le altre democrazie occidentali. Il fronte che si opponeva alle collettivizzazioni, sia rurali che industriali, riteneva che nella battaglia antifascista fosse essenziale per le forze proletarie ottenere un’alleanza con la borghesia progressista, e perciò occorreva garantire i suoi interessi economici e rinviare a un tempo futuro ogni profonda innovazione delle strutture produttive.
Il passaggio dalle forme di legalizzazione a quelle più rigide di controllo avviene gradualmente, ma non in modo indolore. Ne è un esempio significativo ciò che succede nel villaggio catalano di La Fatarella nel gennaio 1937. Il paese viene considerato poco fidato dai rivoluzionari in quanto la destra ha raccolto in passato ampi consensi elettorali.
Qui vige un’economia rurale povera fondata sulla piccola proprietà e la mezzadria, mentre la miseria assilla i braccianti senza terra. Sono appunto questi ultimi i fautori decisi della collettivizzazione, la quale migliora il loro livello di vita, ma spaventa la maggioranza delle famiglie, che boicotta l’esperimento collettivista. Le tensioni si aggravano e in difesa del nuovo organismo giungono dai dintorni varie centinaia di miliziani che trovano una risposta armata da parte dei contadini, per lo più piccoli proprietari anticollettivisti entrati da poco nella UGT per limitare la forza della CNT . Due miliziani sono uccisi, ma poi gli abitanti del paese si arrendono. Le milizie vittoriose definiscono fascisti e quintacolumnistas gli oppositori armati e ne fucilano una trentina. A questo evento fa seguito l’arrivo di forti contingenti della polizia repubblicana che disarmano i miliziani, sciolgono la collettività e affidano la terra sequestrata a nuovi proprietari simpatizzanti della Esquerra Republicana de Catalunya, il partito di Companys ormai divenuto egemone attraverso l’alleanza con il PSUC . Il «ristabilimento dell’ordine» sembra mettere a tacere il conflitto che, in certa misura, anticipa i gravi eventi del maggio barcellonese.
Le industrie in mano agli operai
Le collettività industriali hanno una fisionomia alquanto diversa da quelle rurali. Esse si sviluppano quasi solo a Barcellona, centro produttivo e sede del potere politico catalano. Qui il modello seguito è comunque differenziato a seconda delle dimensioni dell’impresa, e il controllo della Generalitat si fa sentire molto presto. Il coordinamento spetta a un nuovo organismo, creato già l’11 agosto del 1936, ovvero il Consejo de Economía della Generalitat che emana la nuova normativa su produzione e scambi. Vi sono rappresentate tutte le tendenze del fronte antifascista in un’unità di facciata dai tratti contraddittori. Sui quindici membri, i due sindacati e la ERC hanno tre delegati ciascuno, la FAI ne ha due e gli altri uno: da Acció Catalana a Unió de Rabassaires (un sindacato rurale che difende i viticultori), dallo stalinista PSUC all’antistalinista POUM . Questa convergenza di tutte le formazioni catalane anticipa quanto avverrà il mese dopo nella costituzione del governo della Generalitat e, in novembre, nel governo della Repubblica.
Dopo lunghe e accese discussioni, il Consejo trova un accordo e decide di seguire due modelli: la collettivizzazione per le aziende con più di 100 operai, il controllo operaio per quelle più piccole. La ERC , espressione della piccola e media borghesia catalanista, e il PSUC appoggiano la limitazione della collettivizzazione alle sole imprese con più di 250 operai, coerente con la linea del PCUS volta a rassicurare le democrazie borghesi. Questo dato è molto significativo in quanto buona parte delle entità industriali è di medie dimensioni e così resterebbe escluso. Il decreto relativo è emanato il 24 ottobre e prevede numerosi interventi regolatori dell’economia catalana, al punto che alla caduta di Barcellona, il 25 gennaio del 1939, una parte importante non è stata ancora stata applicata.
La collettivizzazione regola la produzione di circa 2.000 imprese, mentre quelle a controllo operaio sono circa 4.500 [22] . I settori collettivizzati sono i più disparati: dal tessile allo spettacolo, dalla metallurgia alla chimica, dall’edilizia ai servizi. Un passo ulteriore viene realizzato nel settore del legno, dove si attua la socializzazione, cioè l’unione tra le varie fasi del ciclo produttivo, in questo caso dal bosco al mobile. Si pongono comunque alcuni problemi assillanti per l’industria catalana. Non è facile far funzionare l’apparato produttivo con i pochi tecnici che aderiscono alla nuova realtà, nella quale in teoria vige l’egualitarismo: dal responsabile della produzione fino all’addetto alle pulizie, i lavoratori dovrebbero ricevere lo stesso stipendio. In realtà i salari si diversificano per incentivare la collaborazione indispensabile dei tecnici alla nuova realtà. Qui si tocca con mano la difficoltà di concretizzare una nuova società economicamente sviluppata partendo da quella capitalista, nella quale è considerevole la divisione tra lavoro intellettuale direttivo e lavoro manuale esecutivo. L’utopia egualitaria deve tener conto degli ostacoli costituiti dalla prolungata divisione gerarchica dei lavoratori. Qualcosa del genere succede nella flotta militare in cui, dopo il 18 luglio 1936, gli equipaggi repubblicani hanno eliminato gli ufficiali filogolpisti e si ritrovano con una nave, in pratica un’industria galleggiante, di cui sanno gestire solo alcune piccole manovre. E le navi resteranno per lo più inattive.
Talvolta nel Comité di gestione della singola impresa entra l’antico direttore o proprietario con incarichi di responsabilità, anche se sotto controllo operaio, in attesa di tempi migliori. I rapporti economici e finanziari con i fornitori di materie prime e i mercati di consumo dei prodotti finali risentono ovviamente della guerra. Dall’estero, con cui bisogna scambiare merci con valuta, spesso le forniture vengono bloccate o rallentate e ridotte. I consumatori spagnoli, ai quali è destinata buona parte della produzione tessile, sono via via sempre più irraggiungibili. A Barcellona si crea, quasi dal nulla, l’industria di guerra della Repubblica trasformando la produzione di varie fabbriche metallurgiche, con notevoli costi sul piano organizzativo e dell’autogestione.
Il trasferimento a Barcellona del governo Negrín, nell’ottobre 1937, comporta un aumento prevedibile del controllo governativo sulle industrie di guerra, che vengono nazionalizzate e tolte al controllo operaio o alla Generalitat.
Sul terreno delle condizioni di lavoro, le collettività cercano di unificare varie piccole unità produttive, ritenute antieconomiche, in entità di maggiori dimensioni. In questo passaggio si dà notevole attenzione al miglioramento della situazione sanitaria sui luoghi di produzione, all’aumento della specializzazione e, nei limiti del possibile, alla modernizzazione dei metodi produttivi, nonché alla semplificazione e centralizzazione amministrativa. Talora la ristrutturazione porta a un aumento degli orari di lavoro per usare al massimo il macchinario disponibile, e ciò comporta una serie di reazioni operaie che il Comité Sindical riesce solo in parte a rappresentare. In diversi casi si assiste a forme di resistenza, soprattutto della manodopera meno qualificata, che esprimono in questo modo un dissenso di base ai nuovi ritmi lavorativi [23] .
Pur con tutti i limiti e le contraddizioni esposte, l’esperimento collettivista catalano dà risultati positivi, soprattutto se si tiene conto dell’eccezionale serie di ostacoli che ha dovuto affrontare. Non di secondaria importanza è la diffidenza del governo centrale, tramutata dopo il maggio 1937 in aperto boicottaggio, in particolare nel delicato campo finanziario. Malgrado tutto, la produzione non solo raggiunge livelli crescenti, ma molte industrie conoscono miglioramenti tecnici. Paradossalmente, diversi padroni, ad esempio quelli del centro tessile di Sabadell [24] , che nel febbraio 1939 tornano in possesso delle imprese, a seguito della vittoria franchista in Catalogna, riconoscono di aver trovato lo stato degli impianti migliore di come lo avevano lasciato nel luglio 1936.
Al di là delle questioni di efficienza produttiva, l’analisi dell’esperienza collettivista industriale in Catalogna deve considerare l’ambizioso progetto ideale e politico cui si è ispirata: il «comunismo libertario». Si tratta del più ampio tentativo storico di mettere in pratica un sistema produttivo alternativo sia a quello capitalista, sia a quello del socialismo di Stato.
Fine IV Capitolo
Continua…
Note al capitolo
[17] F. Mintz, Autogestión y anarcosindicalismo en la España revolucionaria, Traficantes de sueños, Madrid, 2006, pp. 143-145.
[18] J. Casanova, De la calle…, cit., p. 199.
[19] In forma lievemente diversa in A. Paz, Spagna 1936. Un anarchico nella rivoluzione, Lacaita, Manduria, 1996, p. 196.
[20] E. e R. Simoni, Cretas. Autogestione nella Spagna repubblicana (1936-1938), La Baronata, Lugano, 2005.
[21] J. Casanova, De la calle…, cit., p. 198.
[22] P. Pagès, Cataluña en guerra y en revolución, Espuela de plata, Sevilla, 2007, pp. 141-142.
[23] M. Seidman, A ras de suelo, Alianza, Madrid, 2004, passim.
[24] A. Castells, Les col .lectivitzacions a Barcelona 1936-1939, Hacer, Barcelona, 1993, pp. 259-260. Dello stesso autore osservazioni sul difficile rapporto tra istituzioni e collettività industriali catalane in Desarrollo y significado del proceso estatizador en la experiencia colectivista catalana (1936-1939), Nossa y Jara-Madre Tierra, Barcelona, 1996.