Traduzione dall’originale “Normalizing Bashar al-Assad’s Regime. Syria, the Arab League, and the Counter-Revolutionary Process”
Articolo scritto da Joseph Daher, studioso e socialista svizzero-siriano. È autore di “Hezbollah: The Political Economy of the Lebanon’s Party of God” (2016) e “Syria after the Uprisings: The Political Economy of State Resilience” (2019).
La Lega Araba, dopo aver imposto la sospensione e l’isolamento della dittatura di Bashar al-Assad negli ultimi dodici anni, ha votato per reintegrarla nuovamente tra i suoi membri il 7 Maggio 2023. Poi, il 19 Maggio, Assad è stato incluso nel vertice della Lega a Gedda, in Arabia Saudita, ospitato dal principe ereditario e primo ministro del Regno dell’Arabia Saudita, Mohammed Bin Salman (MBS).
MBS ha dichiarato di essere “felice di dare il benvenuto al presidente Bashar al-Assad”, auspicando come “il ritorno della Siria nella Lega Araba porti alla fine della crisi siriana” e che si volti pagina da questi “dolorosi anni di [guerra civile]”. Durante il suo discorso al vertice, Assad, prima di incontrare MBS, ha chiesto “un’azione araba congiunta per la solidarietà, la pace nella regione, lo sviluppo e la prosperità invece della guerra e della distruzione”.
All’inizio dello stesso giorno ha stretto la mano al presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi, ha incontrato il suo omologo tunisino Kaïs Saïed e il vicepresidente emiratino, lo sceicco Mansour ben Zayed. Mentre gli Emirati Arabi Uniti (EAU) hanno sostenuto la normalizzazione di Damasco dal 2018 e, secondo quanto riferito, hanno invitato Bashar al-Assad alla COP28, l’Arabia Saudita ha svolto un ruolo chiave nel far ritornare la Siria dentro la Lega. L’Arabia Saudita ha accelerato il processo dopo il terremoto, aprendo dei colloqui con l’Iran – e culminati col ripristino ufficiale dei legami diplomatici, mediati dalla Cina, tra Teheran e Riyad. L’Arabia Saudita e gli altri Stati arabi hanno ridimensionato l’isolamento di Assad col fine di stabilizzare la regione [e metterla] sotto il loro dominio autoritario collettivo [- il cui impianto societario] è brutalmente disuguale
Nessuna concessione da Damasco
Damasco non ha fatto alcuna concessione reale in cambio del suo ritorno nella Lega Araba. I membri della Lega, pur non richiedendolo, si aspettavano che Assad consentisse il ritorno [senza incarceramenti] dei rifugiati siriani, creasse un processo politico credibile tale da avviare le elezioni e adottasse misure per fermare il contrabbando di narcotici dalla Siria ai Paesi vicini.
Dovremmo essere scettici su queste aspettative, in quanto sono in gran parte di facciata. Il regime di Assad non ha intenzione di realizzare nessuna di queste aspettative. Proprio di recente, l’Access Center for Human Rights ha documentato che il suo regime pagava dei contrabbandieri di esseri umani tra i 150 e i 3000 dollari a persona per riportare in Libano quei rifugiati siriani [rientrati dopo essere stati espulsi dalle autorità] di Beirut.
Gli altri Stati arabi non eserciteranno di certo alcuna pressione su Damasco riguardo le aspettative di democratizzazione – specie perché questi non sono “fari della democrazia”, per non dire altro. Sono poco interessati al benessere delle classi popolari nei loro Paesi, figuriamoci in Siria. Queste aspettative sono destinate principalmente agli Stati Uniti e agli Stati europei.
Gli Stati Uniti hanno ufficialmente denunciato la normalizzazione di Assad, ma non sono riusciti a impedire agli Stati della regione di riallacciare i legami con Damasco. Tuttavia, una nuova proposta di legge introdotta nel Maggio 2023, denominata “Assad Regime Anti-Normalization Act of 2023”, cerca di ampliare l’elenco delle sanzioni presenti nel Caesar [Syria Civilian Protection Act], includendo tutti i membri del parlamento siriano, i membri di spicco del partito Baath al potere e i responsabili dei dirottamenti degli aiuti umanitari internazionali.
Il disegno di legge prende anche di mira uno sforzo sostenuto dagli Stati Uniti nell’inviare elettricità dalla Giordania e gas dall’Egitto in Libano, attraverso un gasdotto transnazionale che passa dalla Siria. Il governo siriano riceverebbe una compensazione in natura – sotto forma di forniture di gas -, anziché in denaro per la sua partecipazione al progetto energetico, attualmente in stallo, dei quattro Paesi. Il disegno di legge modificherebbe il “Caesar Act”, rendendo sanzionabili tali transazioni in natura con Damasco.
Anche nell’UE ci sono segnali di ostilità da parte di alcuni Stati europei che si oppongono alla normalizzazione – come la revoca delle sanzioni e qualsiasi erogazione di fondi per la ricostruzione prima di una transizione politica. D’altro canto, molti altri Paesi, tra cui Italia, Grecia, Romania, Cipro e Austria, sono favorevoli alla normalizzazione con Damasco, sperando così di rimandare i rifugiati in Siria.
Giro di vite sui trafficanti di droga
Il regime ha mostrato un’intransigenza sui rifugiati e sulla democratizzazione e una certa flessibilità nella repressione del contrabbando del captagon, uno stimolante che crea dipendenza. Ma anche in questo caso, [il regime] dovrà affrontare una certa resistenza al suo interno. Gran parte della produzione e della distribuzione del captagon è controllata dalla Quarta Divisione dell’esercito siriano e dagli uomini d’affari siriani ad essa affiliata. Nell’ultimo decennio, le operazioni sul captagon, e in particolare il contrabbando della droga all’estero, sono esplose, trasformandosi in una parte lucrativa dell’economia di guerra siriana – il cui valore è stimato in miliardi di dollari l’anno.
I sauditi, tuttavia, sono intenzionati a reprimere tutto questo. Tra il 2016 e il 2022, hanno sventato i tentativi di contrabbando di oltre 600 milioni di pillole di anfetamina dal Libano. E Assad ha manifestato la volontà di collaborare. Così, in occasione di un incontro ospitato dalla Giordania nel Maggio 2023 con l’Arabia Saudita, l’Iraq e l’Egitto, Damasco ha accettato di “prendere le misure necessarie per fermare il contrabbando attraverso i confini con la Giordania e l’Iraq” e di lavorare per identificare i produttori e i trasportatori di stupefacenti.
A Maggio, due attacchi aerei, probabilmente ordinati dalla Giordania, hanno preso di mira le operazioni di traffico di droga in Siria – uno dei quali ha assassinato il noto signore della droga siriano Merhi al-Ramthan e la sua famiglia. Inoltre, Damasco ha effettuato una serie di arresti di trafficanti di droga nel sud della Siria. Inoltre, secondo alcune fonti, l’Arabia Saudita ha promesso alla Siria aiuti finanziari fino a 4 miliardi di dollari in cambio della riduzione e del controllo della produzione e del contrabbando di captagon.
Il cambiamento della strategia politica estera saudita
Il riavvicinamento tra Arabia Saudita e Siria si sta sviluppando da diversi anni. Nel Maggio 2021, il ministro del Turismo siriano, Rami Martini, ha effettuato la prima visita ufficiale del regime nel regno saudita dopo la rivolta di oltre dieci anni fa. Le ragioni dell’Arabia Saudita di riabilitare Damasco sono legate ai suoi interessi nazionali e alle dinamiche regionali.
Il processo di normalizzazione è un prodotto dell’evoluzione della strategia politica saudita all’interno della regione. La politica estera conflittuale di MBS, esemplificata dalla guerra mortale del regno [saudita] nello Yemen e dalla sua politica di ostilità contro l’Iran e i suoi alleati regionali, è stata un fallimento.
Questa strategia è diventata una complicazione politica per i piani di Riyadh nel riformare l’economia, attrarre investitori stranieri e aprire il Paese ai turisti. [Il governo saudita], quindi, ha cercato di stabilire relazioni più cordiali con i suoi vicini. Ha iniziato a muoversi in questa direzione, ponendo fine alle ostilità con il Qatar e favorendo la Turchia di Erdogan. Nel Marzo del 2023 ha depositato 5 miliardi di dollari nella banca centrale turca per rilanciare l’economia del Paese. Il riorientamento strategico dell’Arabia Saudita è culminato lo scorso Aprile con l’instaurazione delle relazioni diplomatiche con l’Iran – grazie alla mediazione della Cina.
Da allora, i due Stati hanno affermato la loro volontà di lavorare insieme per “la sicurezza, la stabilità e la prosperità” del Medio Oriente. Questo patto è particolarmente importante per l’Arabia Saudita nello stabilizzare lo Yemen e prevenire le minacce alla sicurezza dal suo confine meridionale. Il riavvicinamento permetterà ai due Paesi di riaprire le loro ambasciate e di attuare gli accordi di cooperazione economica e di sicurezza firmati più di 20 anni fa.
La riforma economica come obiettivo fondamentale
Questi cambiamenti di politica estera sono motivati dalla necessità del Regno saudita di concentrarsi sulle riforme economiche e sugli obiettivi definiti nella “Vision 2030” – il cui fine è quello di porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili e garantire 100 miliardi di dollari annuali in Investimenti Diretti all’Estero (IDE) entro la fine del decennio.
L’Arabia Saudita aveva affrontato delle sfide importanti prima di cambiare recentemente la sua politica estera. I flussi di IDE erano scesi dal 200% tra il 2018 e il 2019 al 20% tra il 2019 e il 2020. Il regime dominante spera di invertire questo declino, attirando più investitori grazie alla normalizzazione delle relazioni regionali e alla stabilizzazione delle crisi.
L’obiettivo principale della diversificazione economica è lo sviluppo del settore turistico. Riyadh intende raggiungere i 100 milioni di visitatori all’anno nel 2030 e aprire 315.000 nuove camere d’albergo per accoglierli. Nel Marzo 2023 ha lanciato una nuova compagnia aerea, Riyadh Air, che mira a servire 100 destinazioni internazionali.
Il regno spera di indirizzare gli investimenti in megalopoli come NEOM, il progetto del Mar Rosso, e Qiddiya, che dovrebbe diventare un centro di intrattenimento internazionale con tanto di parco a tema Six Flags. La monarchia saudita promette di investire, nel prossimo decennio, ben 1.000 miliardi di dollari nel settore turistico. [Nel frattempo,] ha investito del denaro nel sito archeologico di al-Ula, abbandonato da decenni, per attirare i visitatori. Sta creando altre destinazioni turistiche dal nulla, come il lussuoso Progetto Mar Rosso, che si estende per 17.400 miglia lungo la costa occidentale, e la stazione sciistica di Trojena nel cuore della futuristica metropoli NEOM, che ospiterà i Giochi Asiatici Invernali del 2029.
Sviluppando la sua economia in questo modo, la monarchia spera di competere con altri Paesi del Golfo che stanno costruendo enormi industrie turistiche. Il Qatar ha ospitato, per la prima volta nel mondo arabo, i Mondiali di calcio del 2022, mentre l’Expo 2020 si è tenuto a Dubai – accogliendo più di 12 milioni di turisti internazionali.
Riyadh sta portando avanti tutto questo sviluppo nel classico modo neoliberale. Ha annunciato partenariati pubblico-privati (PPP) per molti servizi governativi, compresi settori tradizionalmente gestiti dallo Stato come l’istruzione, gli alloggi e la sanità. Il Financial Times ha descritto i piani [del regno] come “Thatcherismo saudita”.
Nell’Aprile 2023, MBS ha lanciato quattro nuove “Zone Economiche Speciali” (ZES) al fine di stabilire industrie non tradizionali, in particolare legate al turismo, all’informatica, alle energie rinnovabili e alla logistica, offrendo alle imprese aliquote fiscali competitive e l’esenzione dai dazi doganali su importazioni, attrezzature di produzione e materie prime. La nuova strategia economica pone il capitale privato al centro della futura economia saudita.
Multipolarità e stabilità autoritaria regionale
La ragione finale che spinge l’Arabia Saudita a normalizzare le relazioni regionali è che Washington non può più essere attendibile nel fornire la sicurezza regionale. Il regno non vede gli Stati Uniti come un’entità egemone affidabile, specie dopo la sconfitta in Iraq, l’incapacità di proteggere i suoi alleati dalle rivolte popolari e la sua posizione sempre più critica nei confronti di Riyad.
Con il relativo declino del potere statunitense nella regione, altre forze imperialiste come Cina e Russia hanno affermato i propri interessi. Potenze regionali come l’Iran, la Turchia, il Qatar e l’Arabia Saudita hanno fatto lo stesso, perseguendo i propri obiettivi, bilanciandosi tra le potenze imperialiste rivali e talvolta sfidando apertamente gli Stati Uniti. La decisione della leadership saudita di tagliare la produzione petrolifera e mantenere alti i prezzi del petrolio – anche a costo di innalzare l’inflazione -, sintetizza la sua nuova indipendenza da Washington. In questo nuovo scenario, tutte le potenze regionali sono determinate a consolidare una forma di stabilità autoritaria. Nonostante le loro persistenti rivalità, gli Stati vogliono ridurre i loro conflitti aperti, migliorare le loro economie e, quindi, rafforzare il loro dominio – evitando una ripetizione delle rivolte della Primavera araba del 2011.
In questo modo, il Qatar ha messo da parte le sue obiezioni e ha permesso a Damasco di tornare nella Lega Araba, evitando così di irritare la leadership di Riyadh e di altre capitali arabe. Il Qatar, inoltre, ha ricucito i rapporti con l’Arabia Saudita, l’Egitto, gli Emirati Arabi Uniti e il Bahrein.
Siria, Turchia e autodeterminazione curda
Allo stesso modo, la Turchia ha avviato un processo di normalizzazione con il regime siriano. A Maggio, i ministri degli Esteri di Russia, Siria, Turchia e Iran si sono incontrati a Mosca per colloqui ad alto livello sulla ricostruzione dei legami tra Ankara e Damasco.
Il cambiamento di Ankara è motivato da due obiettivi principali. In primo luogo, Erdogan ha cercato di guadagnare voti in vista delle elezioni presidenziali del 2023, accelerando il ritorno forzato dei rifugiati siriani in Siria. Negli ultimi due anni, in Turchia si è registrato un aumento degli attacchi razzisti e xenofobi contro i siriani ed Erdogan ne ha espulsi a migliaia.
Durante la campagna elettorale, il candidato dell’opposizione Kilicdaroglu ha adottato una posizione ancora più severa, promettendo di espellerne un numero maggiore. Al contrario, Erdogan e il suo ministro degli Esteri Çavusoglu hanno dichiarato di aver elaborato e sviluppato una tabella di marcia insieme al regime siriano dopo il loro incontro a Mosca; l’obiettivo è far ritornare in Siria le persone rifugiate.
L’altro motivo del riavvicinamento tra Erdogan e Assad è la comune determinazione a negare le aspirazioni autonomiste curde. Nel 2022, Erdogan ha dichiarato che “è necessario finire ciò che è stato iniziato”; ha intensificato il dispiegamento dell’esercito turco e dei miliziani siriani contro le forze curde in Siria.
Le loro operazioni congiunte nella regione di Afrin nel 2018, hanno portato a massicce violazioni dei diritti umani e allo sfollamento forzato di circa 137.000 persone, in prevalenza curdi. Erdogan, per fomentare il nazionalismo turco e sconfiggere il suo avversario al ballottaggio, ha usato con successo queste minacce di nuove operazioni militari contro i curdi in Siria.
Ma non è ancora chiaro se la Siria supporterà la Turchia. Da parte sua, il regime di Assad ha dichiarato che non ci sarà nessun progresso nelle relazioni tra i due paesi finché la Turchia manterrà la sua presenza militare in Siria.
La Turchia è frustrata dall’incapacità di Damasco nel soddisfare le sue richieste riguardo il ritorno dei rifugiati siriani e la fine del dominio curdo nel nord-est della Siria, noto anche come “Rojava”. Il regime siriano è politicamente, economicamente e militarmente troppo debole per intervenire a nord e vede il ritorno di milioni di rifugiati come una minaccia politica e di sicurezza, oltre che un peso economico insostenibile.
Nessuna speranza per la ricostruzione siriana attraverso la normalizzazione
La reintegrazione di Assad nella Lega Araba non faciliterà la ricostruzione e la ripresa economica in Siria. Le sanzioni sono un ostacolo significativo nell’attirare gli investimenti stranieri. Ciononostante vi sono altri impedimenti che bloccano lo sviluppo economico del paese.
In primo luogo, la Siria non dispone di una condizione economica sicura e stabile, il che rende troppo rischioso per le imprese locali e straniere investire nel Paese. In secondo luogo, Damasco si è dimostrata incapace di impedire il costante deprezzamento della sterlina siriana – minando ulteriormente la volontà degli investitori nell’avviare operazioni economiche. In terzo luogo, il Paese non dispone di infrastrutture funzionanti e Damasco non ha investito fondi per ricostruirle, dirottando la maggior parte delle spese verso lo sforzo bellico, i salari del settore pubblico e i sussidi – ma anche questi ultimi sono in calo.
In quarto luogo, il Paese semplicemente non ha i fondi per investire. I depositi nelle banche private sono scesi da 13,87 miliardi di dollari nel 2010 a 1,9 miliardi nel 2022. Infine, il Paese soffre di una carenza di manodopera qualificata, aggravata dagli alti tassi di emigrazione dei giovani laureati.
In questa situazione, Damasco cercherà di utilizzare il processo di normalizzazione per assicurarsi aiuti e investimenti. Ma qualsiasi ricostruzione sotto il regime di Assad non sarà al servizio delle classi popolari del Paese.
Le sue politiche non sono pensate per porre rimedio ai problemi economici e alle disuguaglianze sociali del Paese. Al contrario, la priorità è consolidare il proprio potere dispotico, garantire la propria sicurezza e utilizzare i fondi erogati per accattivarsi i favori dei propri sostenitori clientelari.
La disuguaglianza e l’ingiustizia sono al centro delle politiche del regime siriano e nessuna quantità di fondi ottenuti farà cambiare le macchie a questo leopardo.1 Si limiterà, semmai, a usare queste forniture di denaro per rafforzare la manipolazione dei beni statali, realizzare privatizzazioni clientelari e completare la deregolamentazione neoliberista dell’economia.
Tutto questo avverrà a scapito delle classi popolari del Paese. Un Paese dove il 90% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; pochi rifugiati e sfollati interni torneranno volentieri nel Paese, mentre quelli che saranno costretti a rientrare si troveranno in condizioni disperate e di assoluta indigenza.
La normalizzazione della Siria serve, quindi, gli interessi di Bashar al-Assad e del suo regime dispotico anzichè quelli della popolazione del Paese. Serve anche agli interessi dei leader autoritari della regione, determinati a difendere il loro potere e a schiacciare gli ultimi residui delle ondate di lotta per la trasformazione sociale dal basso iniziate nel 2011.
Nota del Gruppo Anarchico Galatea
1“A leopard cannot change its spots” è un detto inglese; equivalente all’italiano “il lupo perde il pelo ma non il vizio”.