Traduzione dall’originale “Gunshots in Khartoum”
Il 15 Aprile, a Khartoum, capitale del Sudan, sono iniziati gli scontri tra le Forze Armate Sudanesi (SAF), fedeli ad Abdel Fattah al-Burhan, il generale che guida il consiglio di governo del Paese, e le forze paramilitari del suo vice, Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemedti” (piccolo Mohamed), il pretendente bonapartista al trono del Sudan. Inizialmente, le milizie di Hemedti, note come RSF (Rapid Support Forces), sembravano in vantaggio; hanno preso il controllo di diverse basi aeree e si sono piazzate nei quartieri residenziali di Khartoum, facendo presagire una difficile campagna di guerra urbana per Burhan. Verso la fine del 16 Aprile, tuttavia, la superiorità delle armi delle SAF si è fatta sentire: i jet da combattimento hanno bombardato le caserme delle RSF e hanno allontanato le forze paramilitari dalle posizioni prese in città. Gran parte della situazione rimane incerta, anche per chi è sul posto. Tutto quello che posso dirti, mi ha scritto un amico, è da dove proviene il fumo. A differenza del colpo di Stato dell’Ottobre 2021, internet funziona ancora, ma non ha portato molta chiarezza. I fatti sono nascosti da affermazioni e controaffermazioni, tutte veicolate da post su Facebook.
Ciò che è chiaro è il motivo per cui è scoppiato questo scontro. Le tensioni tra le due parti erano aumentate dopo la firma di un accordo nel Dicembre 2022, il cosiddetto “Accordo quadro”, che avrebbe dovuto aprire la strada verso la transizione di un governo a guida civile e all’abbandono del potere da parte della giunta militare che governava il Sudan dall’Ottobre 2021. L’accordo ha messo in secondo piano tutte le questioni più spinose. In particolare, non ha affrontato l’integrazione delle RSF nell’esercito – uno sviluppo per il quale Burhan auspicava due anni e Hemedti dieci. Il processo politico avviato ha avuto la rara caratteristica di essere estremamente vago e del tutto irrealistico.
Secondo un programma creato in gran parte per attirare l’attenzione internazionale, i [risultati] dei compromessi delicati [tra le due parti] erano attesi in poche settimane [– quando, invece,] avrebbero richiesto dei mesi.
Queste richieste hanno acuito le tensioni latenti tra le due parti, spingendo le RSF a credere che l’Egitto – da sempre sostenitore dell’esercito sudanese – sarebbe intervenuto. Hemedti ha schierato le sue forze vicino alla base aerea di Merowe all’inizio del Ramadan, fornendo il catalizzatore per gli attuali scontri.
***
Per capire le radici della lotta tra l’esercito e le RSF, bisogna risalire alla formazione dello Stato sudanese. La prima guerra civile del Sudan era iniziata nel 1955, un anno prima dell’indipendenza dall’Impero britannico. Le lotte postcoloniali avevano seguito i lineamenti del dominio coloniale, con un’élite politica ripariale 1 a Khartoum e nelle sue città satellite, dominata da poche famiglie, in lotta contro le “periferie” multietniche del Paese – sfruttate per il lavoro e le risorse. Ad una guerra civile (1955-1972) ne seguì presto un’altra (1983-2005). Negli anni ’80, una crisi del debito aveva quasi mandato in bancarotta il Sudan e Khartoum aveva faticato a pagare il suo esercito, mentre il conflitto continuava nella “periferia” del Paese, soprattutto nel sud.
Da queste basi poco promettenti, Omar al-Bashir, allora feldmaresciallo dell’esercito che prese il potere con un colpo di Stato nel 1989, aveva forgiato una forma di governo duratura. Invece di fornire servizi alle “periferie”, aveva usato le milizie per condurre una controinsurrezione a basso costo, mettendo i numerosi gruppi etnici del Sudan gli uni contro gli altri. Aveva privatizzato lo Stato, suddividendolo in feudi governati dai suoi servizi di sicurezza – moltiplicati e frammentati per rendere il suo regime a prova di colpo di Stato. L’esercito sudanese si era trovato presto a competere con il National Intelligence and Security Service (NISS) e, successivamente, si era confrontato con le RSF di Hemedti, per citare solo alcuni degli organi di sicurezza. Ciascuna di queste forze aveva costruito il proprio impero economico. I militari sudanesi gestivano imprese di costruzione, servizi minerari e banche, mentre le RSF avevano preso il controllo dell’estrazione dell’oro e dei lucrosi servizi mercenari.
Bashir aveva stretto un patto faustiano con le città del Sudan: far accettare il terrore alla “periferia” del Paese in cambio di prodotti di base a basso costo e sussidi per il carburante e il grano, la cui importazione richiedeva valuta estera ottenuta dalla vendita delle risorse prodotte nelle “periferie”. Il petrolio aveva iniziato a fluire nel 1999, in gran parte dal Sudan meridionale. I proventi della vendita sovvenzionavano i consumi urbani e ingrassavano gli ingranaggi di una macchina transazionale al cui centro c’era Bashir, che fungeva da faccendiere per un’ingombrante coalizione politica e di servizi di sicurezza. Se la “periferia” fosse stata in grado di controllare le proprie risorse, questa macchina si sarebbe fermata inevitabilmente. Pertanto, i loro interessi erano strutturalmente opposti a quelli del “centro” – un rapporto di classe articolato come antagonismo geografico.
Nel 2003, mentre la guerra nel Sudan meridionale volgeva al termine, era scoppiata una nuova guerra nel Darfur. Bashir decise di ripetere il trucco usato nel sud – dove le milizie avevano combattuto contro una forza ribelle meridionale – e di armare le comunità arabe del Darfur per combattere i ribelli non arabi. Soprannominate “Janjaweed” (i cavalieri del male), queste milizie si erano rapidamente trasformate in una forza di decine di migliaia di persone che avevano condotto una guerra feroce contro i ribelli e i civili del Darfur. Questa era la guerra in cui “nacque” Hemedti: commerciante di cammelli della piccola tribù Mahariya (etnia araba Rizeigat), che vivono sia in Ciad che in Darfur, era diventato un signore della guerra, mettendo insieme e rapidamente una forza di 400 uomini. Nel 2007 era diventato per breve tempo un ribelle, ma solo per far leva sulla violenza ed ottenere una posizione migliore nel governo. Cinque anni dopo, quando il controllo di Bashir sui Janjaweed vacillava, Hemedti si era presentato come l’uomo in grado di combattere le ribellioni del Sudan, capeggiando le neonate RSF – che avevano assorbito gran parte dei Janjaweed.
Hemedti si era avvicinato a Bashir e divenne rapidamente il suo scagnozzo prediletto. Si dice che Bashir si fosse affezionato così tanto a Hemedti da chiamarlo affettuosamente “Himyati” (il mio protettore). Tuttavia, mentre Hemedti infliggeva una serie di sconfitte ai movimenti ribelli del Darfur, il regime di Bashir era in difficoltà. Nel 2005, sotto la pressione internazionale, il governo sudanese aveva firmato un accordo di pace con i ribelli del sud, con la promessa di un referendum sull’indipendenza. Nel 2011, il Sudan meridionale aveva votato per la secessione, privando Khartoum del 75% delle sue entrate petrolifere. Senza liquidità in dollari, la macchina transnazionale di Bashir aveva iniziato a bloccarsi.
Il regime aveva cercato di diversificare la propria base economica vendendo terreni agli Stati del Golfo e dedicandosi all’estrazione dell’oro. Hemedti aveva aperto la strada, usando la sua posizione di capo delle RSF per costruire un impero economico, fondando una holding chiamata “al-Jineid” e rilevando la miniera d’oro più redditizia del Sudan. Come tutti i grandi imprenditori della violenza, Hemedti aveva ampliato ben presto i suoi interessi: al soldo degli Emirati, egli inviò i miliziani delle RSF come mercenari per combattere contro gli Houthi nello Yemen. Era stato anche coinvolto nell’organizzazione del passaggio dei migranti nel Sahel: prima fermando i migranti che attraversavano il Paese (un’impresa un tempo finanziata dall’UE), poi costringendo gli stessi migranti a comprare la loro libertà. Nel 2018, Hemedti gestiva un impero commerciale che comprendeva immobili e produzione di acciaio e aveva costruito una rete clientelare che rivaleggiava con quella di Bashir. Pochi nel “centro” erano contenti. Sia per l’élite politica ripariale che per l’esercito sudanese, Hemedti era un usurpatore analfabeta, proveniente dalla “periferia”. Sebbene fosse arabo, non proveniva dalla ristretta cerchia di famiglie che avevano governato a lungo il Sudan e il suo impero economico era una minaccia diretta al dominio militare sudanese.
Nonostante gli sforzi di Bashir per trovare fonti alternative di valuta estera, nel 2018 l’economia era in picchiata. Disperato, il dittatore aveva tagliato i sussidi per il grano e il carburante, rompendo il patto con le città del Sudan. Le proteste sono iniziate nelle “periferie” e si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese. La Sudan Professionals Association (SPA), un gruppo-ombrello di sindacati dei colletti bianchi, ha aperto la strada e ha iniziato a chiedere le sue dimissioni. A Gennaio, si è unita ad una coalizione di partiti politici di opposizione, formando un gruppo chiamato “Forces of Freedom and Change” (FFC).
Le proteste a Khartoum sono state organizzate da una serie di comitati di resistenza e hanno assunto un’atmosfera carnevalesca, offrendo mutuo aiuto e assistenza sanitaria gratuita come esplicito rimprovero verso la violenza e la repressione del regime. Con l’intensificarsi della rivolta, i sostenitori di Bashir nel Golfo temporeggiavano e i militari si sono trovati sempre più a disagio. Una cosa era uccidere le persone nelle “periferie”, un’altra era falciare i giovani urbani di Khartoum, molti dei quali provenivano dalle famiglie dei soldati stessi. Il 10 Aprile 2019, Bashir avrebbe dato l’ordine di aprire il fuoco sul sit-in. Hemedti sostiene di aver rifiutato l’ordine e il giorno dopo Bashir era sparito.
***
I servizi di sicurezza speravano che deponendo Bashir avrebbero potuto conservare il controllo dei loro imperi economici. Per un momento, i soldati sono stati degli eroi ed Hemedti ha persino trovato un certo sostegno popolare a Khartoum, una città che lo ha sempre considerato un estraneo. Ma è stato solo un momento. I manifestanti volevano un governo civile, non un nuovo dittatore militare, e invece di disperdersi hanno inscenato un sit-in davanti al quartier generale militare di Khartoum. I servizi di sicurezza hanno giocato d’anticipo, sperando di riuscire a logorare i manifestanti, ma con il passare dei mesi i militari si sono allarmati e le SAF e le RSF hanno trovato una causa comune nel reprimere i disordini civili.
La mattina presto del 3 Giugno 2019, i servizi di sicurezza, comprese le RSF, hanno tentato di sciogliere il sit-in. Alla fine della giornata, circa 200 manifestanti erano morti e circa 900 erano feriti.
Tuttavia le proteste sono continuate. Il 30 Giugno, nel trentesimo anniversario della salita al potere di Bashir, un milione di persone ha marciato contro la giunta. Eppure la leadership politica dell’opposizione era divisa su come procedere. Molti comitati di resistenza ritenevano che il massacro del 3 Giugno avesse distrutto la credibilità dell’esercito e che fosse giunto il momento di preparare uno sciopero generale per estrometterlo dal potere. Ma la FFC aveva avviato dei negoziati con l’esercito – messo sotto pressione dagli Stati Uniti e Gran Bretagna attraverso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti -, per la formazione di un governo di transizione civile. Il 1° Luglio, l’ASP ha annunciato due settimane di proteste che sfoceranno in uno sciopero generale. Pochi giorni dopo, la FFC ha annunciato un accordo verbale con i militari e l’ASP ha cambiato rotta.
Gli accordi firmati nell’Agosto 2019 hanno portato la FFC ad un governo di transizione con i militari, ma hanno rinviato le questioni più sostanziali del Sudan, che sarebbero state risolte in un futuro lontano. Le elezioni si sarebbero tenute nel 2022 e fino ad allora il Paese sarebbe stato governato da un consiglio sovrano composto da ufficiali militari e politici civili, con Burhan a capo e Hemedti come suo vice, e che avrebbe supervisionato un gabinetto tecnocratico guidato dall’ex economista delle Nazioni Unite Abdalla Hamdok.
In ritardo, l’Occidente si è interessato alla lotta per l’indipendenza del Sudan. La posta in gioco era il riallineamento regionale – il Sudan doveva normalizzare le relazioni con Israele – e la riforma dell’economia nazionale. Ascoltare i diplomatici e i funzionari della Banca Mondiale che avevano invaso i caffè climatizzati di Khartoum dopo la rivoluzione, significava ritornare alla fine della Storia. Per loro, un’utopia democratica sarebbe sorta attraverso l’austerità e l’eliminazione dei sussidi. Il gabinetto di Hamdok si è convertito presto a questa dottrina, anche se ciò significava calpestare gli obiettivi socio-economici della rivoluzione che aveva rovesciato Bashir. Appena insediato, il primo ministro delle Finanze, Ibrahim Elbadawi – un ex allievo della Banca Mondiale – annunciava che l’obiettivo della rivoluzione era quello di liberare il Paese dalla crisi del debito tagliando i sussidi.
Molte delle azioni della FFC sembravano destinate ad attrarre un pubblico internazionale; l’organizzazione era ostacolata nella sua agenda interna da un establishment militare che, lungi dallo smantellare il motore economico del vecchio regime, era intenzionato a raccoglierne gli scarti. Le finanze militari non erano di competenza della parte civile del governo e la riforma del settore della sicurezza non era mai stata avviata. Hemedti continuava ad accrescere il suo potere militare ed economico: le RSF reclutavano in tutto il Paese, Darfur compreso, portando alcuni suoi sostenitori ad affermare che erano i paramilitari, e non le SAF, a costituire le vere forze armate del Sudan.
Hemedti ha assunto anche un ruolo guida nell’affrontare le “periferie”. L’accordo dell’Agosto 2019 aveva messo da parte il “Sudan Revolutionary Front”, un raggruppamento di ribelli armati provenienti dalla “periferia” del Paese. Ancora una volta, il potere è stato accaparrato dal “centro”. Per questo motivo, alcuni comandanti ribelli vedevano la FFC solo come l’ultima iterazione del dominio ripariale e speravano che Hemedti, pur avendo inflitto loro gravi sconfitte nel decennio precedente, potesse essere qualcuno con cui fare affari. Sebbene sia stato il governo civile ad assumere formalmente la guida dei successivi negoziati con i ribelli, Hemedti ha esercitato un controllo informale sul processo. Nell’Ottobre 2020, è stato firmato un accordo tra il governo di transizione e i ribelli che garantiva loro dei seggi nel governo e prometteva una maggiore devoluzione politica. Alla fine, quasi nessuna delle misure più ambiziose dell’accordo era stata attuata. Invece, l’integrazione dei ribelli nel governo di Khartoum ha permesso a Hemedti di usare il manuale di Bashir – frammentare le forze di opposizione e metterle l’una contro l’altra – contro i suoi rivali. Dall’Ottobre 2020 in poi, Hemedti ha usato i ribelli per dividere il “centro”.
A questo punto, la frustrazione dell’opinione pubblica nei confronti del governo di Hamdok stava crescendo, con alcuni manifestanti che chiedevano le sue dimissioni e l’esercito che aumentava la pressione. I ribelli, ormai incorporati nel governo, hanno organizzato delle “proteste Potemkin”2 davanti al quartier generale dell’esercito, imitando quelle che avevano portato alla caduta di Bashir. Sostenevano che il governo di Hamdok avesse perso la bussola: era interessato solo al “centro”, non alla giustizia per il Darfur o a cambiare le disuguaglianze geografiche che da tempo affliggevano il Paese. Questa retorica era molto veritiera, ma sotto di essa si nascondeva una motivazione politica diversa: destabilizzare il Paese e gettare le basi per un colpo di Stato.
***
Il colpo di Stato, previsto da tempo, è stato uno shock solo per gli apparati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, i quali non avrebbero mai immaginato che i militari potessero rinunciare agli investimenti internazionali – e che si sarebbero esauriti in caso di una loro presa di potere. Burhan e Hemedti, a cui erano stati promessi i fondi dai paesi del Golfo, non hanno avuto esitazioni di questo tipo. Il 25 Ottobre 2021, Burhan ha ringraziato Hamdok per il suo servizio e ha dichiarato lo stato di emergenza. I commentatori internazionali hanno deplorato questo susseguirsi di colpi di Stato avvenuti in Sudan, Myanmar, Mali e Guinea. Ma in realtà, il colpo di Stato del Sudan non avrebbe mai dato vita ad una dittatura militare di stampo egiziano. A differenza del regime di Bashir, che ha governato con l’assistenza degli islamisti sudanesi, almeno per il primo decennio, la giunta di Burhan non aveva un’ideologia, tanto meno una vera base sociale. La loro presa di potere è stata di fatto una mossa negoziata e progettata per spingere Hamdok a tornare al governo con un gabinetto indebolito, preservando la base del potere militare.
Hamdok era tornato regolarmente in carica un mese dopo il colpo di Stato, per poi dimettersi sei settimane dopo a causa delle continue proteste di piazza. Nell’Ottobre 2022, era chiaro che il regime militare si stava sfaldando. Il Golfo non aveva mantenuto le promesse finanziarie fatte alla giunta, l’inflazione e la fame stavano aumentando vertiginosamente e le manifestazioni pubbliche non accennavano a diminuire. Il colpo di Stato ha dimostrato che l’antagonismo di base della rivoluzione sudanese era rimasto intatto. Da una parte c’era il Consiglio di sicurezza di Bashir (trasformato solo nominalmente in assenza dello stesso Bashir). Dall’altra, con la FFC messa da parte, c’erano i cittadini urbani del Sudan, fedeli al governo civile e rappresentati dai vari comitati di resistenza.
Per gli americani e i britannici, i militari non stavano andando da nessuna parte; la realtà dei fatti richiedeva un nuovo governo di transizione civile-militare. Nei circoli diplomatici, Burhan non era considerato un islamista e quindi era una persona che l’Occidente poteva tollerare. Da parte sua, la giunta ha ritenuto che il modo migliore per preservare il colpo di Stato fosse quello di porvi fine e formare un nuovo governo di transizione – dove i militari avrebbero potuto successivamente attribuire la responsabilità dei crescenti problemi economici del Sudan. Questo è stato il contesto dell’Accordo quadro, firmato il 5 Dicembre 2022, che ha riunito alcuni partiti politici sudanesi e della FFC in un nuovo governo con i militari. I funzionari delle Nazioni Unite e i diplomatici occidentali si sono dichiarati soddisfatti, mentre in tutto il Sudan l’accordo è stato accolto dalle proteste.
Ancora una volta, l’accordo non affrontava le questioni più urgenti del Paese. Le dinamiche del settore della sicurezza, la posizione delle RSF e il ruolo dei militari nel governo sono stati lasciati alla “Phase II”, a cui era stato dato il termine assurdamente breve di un mese. L’accordo ha messo in primo piano Hemedti, che si è preoccupato di criticare il colpo di Stato e ha cercato di posizionarsi il più vicino possibile con i civili della FFC. Ciò ha preoccupato l’Egitto, che temeva l’emarginazione delle SAF e ha quindi creato un quadro di negoziati separati al Cairo, includendo alcuni dei gruppi ribelli che si erano uniti al governo prima del colpo di Stato.
Con la firma dell’Accordo quadro, l’opposizione civile-militare che aveva precedentemente dominato la politica sudanese si è notevolmente complicato. Burhan e Hemedti hanno iniziato a cercare il sostegno sia dei civili che dei ribelli, cercando anche dei sostenitori regionali. Ciò significava che la riforma delle forze di sicurezza era quasi impossibile da prevedere, poiché i due principali attori militari del Paese erano sempre più ai ferri corti: l’Egitto si era allineato con Burhan, mentre Hemedti era in affari con il Gruppo Wagner della Russia.
A Marzo erano stati avviati provvisoriamente dei seminari sulle questioni più profonde del conflitto nel Paese, tra cui il posto delle RSF all’interno dell’esercito sudanese. Il capo della missione ONU in Sudan, Volker Perthes, ha annunciato al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 20 Marzo, di essere “incoraggiato da quanto poche siano le differenze sostanziali tra i principali attori”. Tuttavia, il resto del Sudan non era convinto. I miei amici che vivono a Khartoum ritengono che un conflitto tra Burhan e Hemedti sia ormai inevitabile.
***
E così è stato. Il barattolo, calciato a lungo sulla strada, ha sbattuto contro un muro. Burhan ha espulso i rappresentanti delle RSF da un incontro sulla riforma del settore della sicurezza, mentre le RSF hanno iniziato a consolidare le proprie forze intorno a Khartoum in preparazione dei futuri scontri. I programmi arbitrari dei diplomatici, che volevano un governo entro la fine del Ramadan, hanno senza dubbio intensificato queste divisioni. Ora, mentre i combattimenti entrano nel loro terzo giorno (17 Aprile, ndt), ci sono poche possibilità di un cessate il fuoco nell’immediato futuro. La retorica di entrambi gli uomini è bellicosa. Per Hemedti questa è, con ogni probabilità, la sua prima e unica possibilità di governare. Se verrà sconfitto e le RSF verranno sciolte nell’esercito, la sua base di sostegno verrà erosa e seguirà la dissoluzione del suo impero economico. Per Burhan, sostenuto dall’Egitto, rimangono più opzioni di negoziazione, ma non bisogna sottovalutare il profondo rancore provato dall’esercito nei confronti del darfuriano Hemedti. Nonostante la forza delle SAF – e il sostegno egiziano – è improbabile che sia una battaglia facile. Le RSF sono radicate nelle aree civili di Khartoum e alcuni dei combattimenti più letali si sono già verificati in Darfur, nel territorio di origine di Hemedti.
Qualunque sia l’esito del conflitto – ed è probabile che porterà ad una devastante perdita di vite umane – segnerà una nuova era per il Sudan. Le tre guerre civili precedenti sono state combattute nelle periferie e hanno preservato le relazioni di classe geograficamente associate a Bashir. Al contrario, questa guerra civile – se avverrà – si svolgerà a Khartoum e nelle sue città satellite. Hemedti, che è salito alla ribalta grazie alla politica transazionale di Bashir e alla sua strumentalizzazione delle milizie, ha ora una vita politica sua. Il suo status di outsider è una sfida all’elitarismo ripariale del Sudan, che si gioca nelle strade e nei cieli dei suoi spazi urbani.
Note del Gruppo Anarchico Galatea
1Ci si riferisce a “riva” o “sponda” e viene indicato come il contatto tra il terreno ed un corso d’acqua. Nel caso sudanese specifico ci si riferisce a quei gruppi di potere presenti nelle città che sorgono lungo il percorso del fiume Nilo
2Proteste atte a voler sovvertire l’ordine costituito