Traduzione dall’originale “Derrière la mort de Nahel, l’institution policière”
Un altro caso di violenza mortale poliziesca ha scosso il Paese. In queste situazioni le autorità, di solito, preferiscono contestare la veridicità dei fatti. Questa volta, un video mostra le circostanze della morte di Nahel e la rivolta che ne è seguita non poteva essere ignorata. È stato eretto un nuovo argine per proteggere l’istituzione poliziesca dalle critiche: la spiegazione integrale dell’atto violento [ricadrebbe] su un errore individuale commesso dal poliziotto che ha sparato e dal suo collega. Voci più critiche sottolineano che la causa fondamentale sia stato un cambiamento della legge che regola l’uso delle armi da fuoco, oltre che la formazione carente delle forze di polizia. Come spiega Paul Rocher, autore di “Que fait la police?” (edito da La Fabrique), il dibattito attuale non riesce a cogliere i risvolti più profondi della violenza e del razzismo della polizia – i quali sono alla base dell’istituzione stessa.
Quando la legge mette in pericolo la popolazione
La morte di Nahel riapre tragicamente il dibattito sulle persone uccise dai poliziotti in un contesto dove la narrazione poliziesca presenta [il tutto] come una mera resistenza a pubblico ufficiale.
Grazie al lavoro di compilazione dei dati del ministero dell’Interno, un team di giornalisti di “Basta” ha messo in evidenza che “in cinque anni, il numero di persone resistenti all’arresto ed uccise dai poliziotti è quadruplicato rispetto a venti anni fa.”
Sembra opportuno chiedersi il perché di questo impressionante e relativamente recente incremento delle sparatorie. Circa 5 anni fa, nel Marzo 2017, una nuova legge sulla sicurezza interna ha allentato l’uso delle armi da parte degli agenti di polizia. Questo testo autorizza i poliziotti e i gendarmi ad usare le armi se non sono in grado di fermare un veicolo in cui “i guidatori non rispettano l’alt imposto dagli agenti e gli occupanti rischiano di perpetrare, nella loro fuga, danni alla propria vita o integrità fisica o a quella degli altri”.
La formulazione di questa legge è notoriamente vaga: come può un agente di polizia conoscere realisticamente le intenzioni di un guidatore? Ed è proprio in questa vaghezza che risiede il problema. Un gruppo di ricercatori ha analizzato gli effetti di questa legge dai contorni instabili. Come riassume uno dei coautori dello studio [di “Basta”], “la legge che autorizza gli agenti di polizia a sparare più spesso fa sì che… sparino più spesso, e il numero di omicidi polizieschi (numero medio al mese) aumenta in modo massiccio”. Una legge sulla sicurezza interna che riduce la sicurezza pubblica: questa situazione sarebbe quasi comica se non comportasse conseguenze drammatiche.
L’elefante nella stanza: il razzismo istituzionale
Concentrandoci sull’aumento delle sparatorie poliziesche dopo la modifica legislativa, si rischia di trascurare silenziosamente un aspetto cruciale della morte di Nahel e di tanti altri. Infatti, il focus sulle sparatorie – per quanto importante – tende a porre il dibattito su un terreno che è a priori miope[rispetto] alla dimensione razziale delle violenze poliziesche. Spesso le vittime delle sparatorie sono persone non bianche. Alla luce di questo fatto, la discussione sulla resistenza a pubblico ufficiale deve essere, invece, una discussione sul razzismo della polizia – la cui esistenza è ampiamente dimostrata. Nel 2009, uno studio ha formalmente evidenziato e quantificato ciò che gli abitanti delle periferie sapevano da tempo:
“Secondo i siti di osservazione, i neri correvano un rischio maggiore di essere controllati [dalla polizia] tra le 3,3 e le 11,5 volte rispetto ai bianchi”, mentre gli arabi, “correvano un rischio maggiore di essere controllati dalla polizia tra l’1,8 e le 14,8 volte rispetto ai bianchi.” [1]
Il “contrôle au faciès” (sinonimo di profilazione etnica o razziale, ndt) è una vera e propria realtà. Dieci anni dopo, i risultati sono gli stessi. Nel 2019, il Difensore dei diritti umani francese ha evidenziato l’esistenza di una “discriminazione sistemica che si traduce nella sovra-rappresentazione di alcune popolazioni di immigrati e di pratiche poliziesche sprezzanti durante i controlli dei documenti d’identità.”[2] Queste pratiche sistemiche sono così profondamente radicate nel funzionamento stesso dell’istituzione che gli agenti di polizia non ne sono necessariamente consapevoli.
Per capire chiaramente la portata del razzismo istituzionale, è istruttivo il lavoro svolto dal grande sociologo britannico Stuart Hall sulle rivolte dei quartieri popolari britannici in seguito all’intervento della polizia:
“In primo luogo, il razzismo istituzionale non ha bisogno di individui apertamente razzisti: il razzismo è visto come il risultato di un processo sociale. […] In secondo luogo, [i comportamenti razzisti] sono portati avanti all’interno della cultura professionale di un’organizzazione e trasmessi in modo informale e implicito dalla sua routine; le sue pratiche quotidiane[, quindi, diventano una] parte indistruttibile dell’habitus istituzionale. Il razzismo di questo tipo diventa una routine, un’abitudine data per scontata. È molto più efficace nelle pratiche di socializzazione dei poliziotti rispetto alla loro formazione e regolamentazione formale. [… ] E impedisce l’esistenza di una riflessività professionale. Lungi dall’essere considerato eccezionale, questo tipo di razzismo “involontario” sta diventando parte integrante della definizione stessa di “normale lavoro di polizia””[3].
In parole povere, la definizione di un buon lavoro di polizia, comunemente accettata all’interno dell’istituzione poliziesca, implicherebbe di agire sull’ipotesi che un non bianco sia sospetto.
L’esistenza di questo atteggiamento è confermata da una serie di studi sul caso francese che si estendono nell’arco di diversi decenni. Nel 2017, il lavoro del sociologo Christian Mouhanna era giunto a una conclusione molto simile a quella del suo collega René Lévy nel 1987. [Mouhanna] precisava che le categorizzazioni razziali, “in un certo senso, costituiscono gli strumenti del mestiere e fanno parte di quel corpo di conoscenze pratiche che formano il retroterra, il riferimento del lavoro della polizia.”[4] Inoltre questa letteratura mostra che “il sospetto poliziesco agisce come una profezia auto-realizzatrice: contribuisce a produrre ciò che ci si aspetta e conferma come la convinzione dei poliziotti verso queste categorie sia valida.”[5]
Il potere di categorizzare la popolazione, che la ricerca mette in evidenza, a sua volta modella l’uso della forza. La polizia è l’unico organismo riconosciuto in grado di determinare cosa si intende per ordine pubblico e il suo contrario (il disturbo all’ordine pubblico), giustificando l’uso di metodi coercitivi: l’uso di un’arma “letale” o “non letale”, o l’utilizzo di altre pratiche di “immobilizzazione”.[6] Il sociologo Ralph Jessen sottolinea che il primo criterio determinante per l’intervento di un poliziotto sia la sua valutazione della situazione; le leggi e le regole hanno un’importanza secondaria e le forze dell’ordine ne hanno spesso una conoscenza parziale. [7]
A questo punto si comincia a misurare meglio la portata della legge del 2017. Ampliando il campo sull’utilizzo delle armi, basato sopra un giudizio individuale del poliziotto – che a sua volta è immerso in un ambiente professionale intriso di pregiudizi razzisti -, questa legge espone in particolare la parte non bianca della popolazione. Ma è anche chiaro che la discussione non può concentrarsi solo sull’uso delle armi da fuoco, poiché la violenza poliziesca non si limita solo a questo.
Un’altra serie di statistiche compilate dai giornalisti di “Basta” mostra che delle 676 persone uccise dalle azioni di polizia tra il 1977 e il 2019, solo il 60% è stato colpito da un’arma da fuoco. Inoltre, la portata dell’aggressività poliziesca supera ampiamente il caso più estremo – la violenza mortale.
Un’istituzione che trasforma gli agenti
Il razzismo istituzionale è un fatto stabilito dagli studi scientifici; per comprendere appieno la violenza della polizia, dobbiamo tenere conto di un’altra sua caratteristica specifica, vale a dire che essa è caratterizzata da uno straordinario grado di isolamento dal mondo esterno e da un formidabile grado di coesione interna. Vediamo di dipanare questo argomento in due fasi.
In primo luogo, la maggior parte delle persone che decidono di diventare agenti di polizia sono caratterizzate da una concezione puramente repressiva della professione. [8] Quindi la polizia non attrae uno spaccato rappresentativo della società; [alletta, invece, quelle] persone che prediligono l’uso dei mezzi autoritari. Dopo questa fase iniziale di auto-selezione, l’istituzione stessa approfondisce maggiormente l’isolamento dei poliziotti dalla società. Per capire questo, è utile studiare la socializzazione professionale. Si tratta di un duplice processo durante il quale il candidato, da un lato, acquisisce le competenze e le conoscenze tecniche della professione e, dall’altro, assorbe la visione della società che prevale all’interno dell’istituzione in cui è arruolato.
Per chiarire la visione che prevale all’interno dell’istituzione di polizia, si possono riprendere i termini di un articolo scientifico dove i poliziotti credono di vivere in una “cittadella assediata” [– e questo contribuisce a] unire il gruppo.[9] In altre parole, gli agenti di polizia si sentono assediati dal resto della società. La formazione dello spirito di gruppo avviene attraverso la costruzione di un nemico; questo processo, a sua volta, incoraggia un “comportamento eccessivamente violento che va oltre i limiti della violenza legittima.” [10] Sebbene le forze di polizia attraggano profili molto specifici, è soprattutto l’istituzione stessa, durante la socializzazione professionale, a creare agenti altamente coesi al loro interno e sospettosi o addirittura ostili nei confronti della società.
Una volta portato alla luce il funzionamento interno di questa istituzione, l’argomentazione secondo cui la violenza della polizia sia causata da una formazione inadeguata, di breve periodo e dall’abbassamento della soglia di idoneità per gli aspiranti poliziotti, perde gran parte della sua forza. Sebbene questi fattori possano avere un ruolo marginale, il problema non è chi entra in polizia: è la stessa istituzione repressiva a trasformare gli agenti che lavorano all’interno di essa – un effetto che, come sottolinea Hall, priva l’istituzione di qualsiasi capacità auto-riflessiva.
Senza diluire il razzismo della polizia, riflettere sull’istituzione poliziesca in generale ci permette di capire come l’aumento della violenza contro il movimento operaio e il movimento ambientalista nella primavera del 2023 non provenga esclusivamente dal governo ma dallo stesso apparato [repressivo]. Specie se si considera l’espansione senza precedenti delle forze di polizia negli ultimi 30 anni.
Contrariamente a un mito molto diffuso secondo cui la polizia avrebbe subito l’austerità – come tutto il servizio pubblico -, in “Que fait la police?” abbiamo dimostrato come questa istituzione, in realtà,abbia avuto un aumento senza precedenti delle risorse: + 35% (un aumento superiore alle risorse destinate all’istruzione nello stesso periodo: 18%)[11].
Il numero di poliziotti è aumentato in proporzioni simili. L’ultima legge di programmazione del Ministero dell’Interno, approvata alla fine del 2022, prevede di andare ancora oltre, stanziando quasi 15 miliardi in più nei prossimi cinque anni.
Questi sviluppi indicano che la polizia è materialmente in grado di esercitare un controllo senza precedenti sulla società. Ciò si riflette, tra l’altro, in un contatto più regolare con la popolazione – e che offrirà un’opportunità ulteriore all’istituzione di mettere a nudo i pregiudizi che la caratterizzano.
Questo spiega perché le rivolte successive alla morte di Nahel non si siano limitate a Nanterre. E soprattutto spiega perché un’indagine sull’autore della sparatoria e sul suo complice non riuscirà a sradicare la rabbia pluriennale sulle discriminazioni e sui dolori vissuti dalle persone della zona – quasi esclusivamente nere o arabe che hanno subito violenze o addirittura perso una persona cara.
Note
[1] Fabien Jobard et René Lévy, Police et minorités visibles : les contrôles d’identité à Paris, Open Society Justice Initiative, 2009.
[2] Défenseur des droits, Décision du Défenseur des droits n°2020-102, Paris, 2020.
[3] Stuart Hall, « From Scarman to Stephen Lawrence », History Workshop Journal, 48, 1999, p. 195.
[4] Cité dans Xavier Dunezat, Fabrice Dhume, Camille Gourdeau et Aude Rabaud, « Racisme d’État en France ? Le cas de la police ».
[5] Ibid.
[6] Pour comprendre comment les armes « non létales » amplifient les violences policières, voir Paul Rocher, Gazer, mutiler, soumettre : Politique de l’arme non létale, Paris, La Fabrique, 2020.
[7] Ralph Jessen, « Polizei und Gesellschaft », in Die Gestapo. Mythos und Realität, Darmstadt, Primus, 1995, p.
[8] Philippe Coulangeon, Geneviève Pruvost et Ionela Roharik, « Les idéologies professionnelles », Revue française de sociologie, vol. 53-3, 2012, p. 493‑527.
[9] Cédric Moreau de Bellaing, « Comment (ne pas) produire une critique sociologique de la police », Revue française de science politique, Vol. 62-4, 2012, p. 665‑673.
[10] Carsten Dams, « Polizei », in Gewalt: Ein interdisziplinäres Handbuch, Luxemburg, Springer-Verlag, 2013, p.
[11] Paul Rocher, Que fait la police – et comment s’en passer ?, Paris, La Fabrique, 2022 chapitre 1.