Traduzione dell’articolo “El mundial se harà en Qatar”, pubblicato su “La Oveja Negra”, a. II, numero 84, Settembre 2022
Sì, lo sappiamo da diversi anni, ma sembra ancora strano che la Coppa del Mondo si tenga in Qatar. Un Paese poco più piccolo dell’agglomerato urbano di Buenos Aires e, se non consideriamo quello che era l’Uruguay nel 1930, il Paese con la popolazione più piccola ad aver ospitato una Coppa del Mondo.
Un Paese in cui la tradizionale accoglienza di Giugno-Luglio dovrà essere posticipata alla fine dell’anno per mitigare un po’ gli effetti del torrido caldo arabo.
Un Paese che, nonostante rivendichi il calcio come sport nazionale, non ha avuto praticamente nessun successo e, quando lo ha avuto, le vittorie sono state macchiate da polemiche e sospetti di corruzione.
Sembra che l’unica attività in cui il Qatar eccelle veramente, a parte la produzione e la distribuzione di gas naturale, sia quella di ospitare eventi. Negli ultimi anni ha ospitato la Coppa del Mondo U-20 del 1995, i Giochi Asiatici del 2006, i Campionati del Mondo per Club del 2019 e del 2020, tornei di tennis maschile e femminile di alto livello, la Formula 1 e molto altro. L’unica attività sportiva che sarebbe ragionevole che il Qatar ospitasse sarebbe il Rally Dakar,(1) in cui per molti anni uno dei piloti di maggior successo è stato il qatarino Nasser Al-Attiyah.
Ma naturalmente, dopo 10 anni disastrosi in terra sudamericana, la Dakar si terrà dal 2020 in Arabia Saudita, che negli ultimi dieci anni, ma soprattutto dal 2017, è stato uno dei numerosi Stati arabi che hanno interrotto i legami diplomatici e condotto una guerra silenziosa contro il Qatar.
Negli ultimi anni è diventato popolare il termine sport-washing: una pratica messa in atto soprattutto dagli Stati, ma anche da aziende e istituzioni, che si associano finanziariamente a entità sportive, organizzando eventi, investendo in pubblicità o acquistando e gestendo direttamente tali entità.
Tutto questo con il semplice scopo di riciclare la loro immagine di Stati dittatoriali, con una storia di politiche repressive e di mancato rispetto degli standard di diritti civili delle potenze occidentali. Insieme alla Russia, agli Emirati Arabi Uniti, all’Arabia Saudita e all’Azerbaigian, il Qatar è una delle nazioni che ha affinato maggiormente questa pratica e attualmente è sponsor di squadre di calcio come Barcellona, Roma, Bayern Monaco, Boca Juniors e proprietario, attraverso una società privata, del Paris Saint Germain.
L’elenco delle controversie e delle pratiche di corruzione associate alla Coppa del Mondo e ad altri grandi eventi sportivi è molto lungo. Potremmo soffermarci su alcune piccole irregolarità legate a questa Coppa del Mondo: l’incertezza dei lavoratori riguardo alla qualità dei loro alloggi improvvisati in alberghi-container, la preoccupazione dei giornalisti per la saturazione delle linee di fibra ottica, o la forte possibilità di un collasso delle infrastrutture di trasporto. Il consumo di alcolici sarà limitato per i turisti di lusso che parteciperanno alla Coppa del Mondo – poiché il Paese è soggetto alla legge della Sharia.
Per lo stesso motivo, sono vietate le dimostrazioni di affetto da parte dei membri della comunità LGBTQIA+ così come l’utilizzo dei loro simboli rappresentativi. Sebbene il regime islamico del Qatar sia più flessibile nei confronti del turismo e dei partecipanti alla Coppa del Mondo, è ancora molto repressivo nei confronti della dissidenza sessuale e delle donne. In effetti, i portavoce dell’emirato hanno insistito sulla questione come monito.
Dopotutto, lo sport-washing coesiste con l’imposizione di norme locali ai visitatori occidentali, in un contesto in cui le “battaglie culturali” sono sempre più presenti nelle dispute commerciali e nei conflitti bellici che esse possono richiedere.
Un caso esemplare è quello di Paola Schietekat, una donna messicana di 28 anni che lavorava per gli organizzatori della Coppa del Mondo: dopo aver subito e denunciato uno stupro in territorio qatariota nel giugno 2021, è stata accusata di aver avuto una “relazione extraconiugale”, passando immediatamente da vittima ad accusata. È riuscita a lasciare il Paese il prima possibile grazie all’intervento delle organizzazioni internazionali per i diritti umani. È stata condannata a 100 frustate e 7 anni di prigione, ma è stata assolta dopo un intervento diplomatico.
Il progressismo occidentale, così abituato a condannare gli eccessi e l’ “arretratezza”, chiude gli occhi quando sono in gioco le passioni popolari e gli affari che ne derivano. Con diversi gradi di gravità, non va dimenticato che i problemi sopra citati riguardano soprattutto gli appassionati che viaggiano volontariamente e un piccolo settore di lavoratori che partecipano ufficialmente all’evento.
Poi abbiamo tutto ciò che la borghesia si permette al di fuori delle leggi di Dio e degli Stati.
Se ricordiamo i Mondiali “infami” come quello in Argentina del ‘78 – che si svolse mentre le persone venivano torturate, uccise e fatte sparire nei campi di concentramento -, quello di quest’anno in Qatar è tra i campioni dell’infamia: sono state segnalate le morti di più di 10.000 lavoratori edili, generalmente provenienti da Paesi come India, Pakistan, Bangladesh e altri del sud-est asiatico.
La cifra è incerta, perché dopo il rapporto di “Amnesty International” e del quotidiano “Guardian” del Febbraio 2021 (che confermava la cifra di 6.500 morti, in base alle indagini svolte intorno alle ambasciate dei Paesi di origine dei lavoratori), il Qatar e la Fifa si sono presi la briga di insabbiare questi fatti e di rilasciare dichiarazioni assurde, come quella dove non tutti i morti sono attribuibili alla costruzione delle infrastrutture per i Mondiali. Considerando la lentezza dei lavori di costruzione e la necessità per gli organizzatori di accelerare i tempi, nei 17 mesi trascorsi dal rapporto di questa tragica cifra, [i morti] saranno aumentati notevolmente. Nonostante il fatto che ci stiamo avvicinando sempre più all’evento, non sono state condotte nuove indagini.
Questa situazione non è eccezionale, ma fa parte di una pratica diffusa in tutto il Golfo Arabico nota come sistema “kafala”: una forma sinistra di super-sfruttamento in cui i lavoratori migranti vengono pagati con un salario di sussistenza, che in ultima analisi non consente loro di inviare denaro a casa, e dove allo stesso tempo vengono trattenuti i loro passaporti e documenti. In Qatar questo sistema assume dimensioni pazzesche, dato che solo il 20% dei 2,6 milioni di abitanti è cittadino, cioè qatarino, mentre il resto è costituito da lavoratori migranti.
Questo sistema “kafala” o “di sponsorizzazione” è considerato una semi-schiavitù per le sue condizioni [– il tutto all’interno dello schema del Capitale.] Il sistema prevede che i lavoratori non qualificati abbiano uno sponsor (da cui il nome), di solito il loro datore di lavoro, che è responsabile del loro visto e del loro status giuridico. È necessario il permesso del datore di lavoro per cambiare lavoro, lasciare il Paese, ottenere la patente di guida, affittare una casa o aprire un conto bancario.
Dall’altra parte, lo sfruttamento sessuale è comune in ognuno di questi mega-eventi. In questo caso, le reti di trafficanti porteranno un gran numero di donne povere dal Sud-Est asiatico.
Nonostante tutto, la Coppa del Mondo continuerà ad essere un evento seguito e desiderato da miliardi di persone. Continuerà ad alimentare la competizione, l’idolatria dei milionari e il nazionalismo. Proprio nelle ultime settimane abbiamo visto il fervore di grandi e piccini per le figurine della Coppa del Mondo.
Non sorprende, anche se intristisce, vedere come in questa regione (l’Argentina, ndt) – dove il legame tra sport e genocidio ha raggiunto una delle sue pietre miliari storiche nel ‘78 e sembrerebbe che questo fatto faccia ancora parte della nostra memoria collettiva -, si faccia finta di niente di fronte ai genocidi “lontani”.
Tuttavia, possiamo dire che non è che lo sport sia usato a beneficio dei potenti: è proprio questo lo spirito stesso dello sport.
Lo abbiamo sottolineato in occasione della precedente Coppa del Mondo in Brasile, a seguito delle massicce proteste che hanno avuto luogo in quella regione.(2)
Il problema non è la professionalizzazione dello sport – come se si trattasse della perversione economica e dell’utilizzo politico di una pratica “sana” -, ma è lo sport stesso come sottomissione e sconvolgimento del gioco, di certe pratiche ludiche, alle necessità e alla stessa logica della valorizzazione del Capitale.
Lo sport è un riflesso fedele della competizione capitalistica e ha progressivamente assunto un ruolo importante al suo interno. Per questo motivo riteniamo che la sua critica non sia una questione secondaria o marginale.
“Lo sport non è solo una valvola di sfogo e un meccanismo di controllo sociale, ma anche un’ideologia di competizione, selezione biogenetica, successo sociale e partecipazione virtuale. Lungi dal limitarsi a riprodurre in forma di spettacolo le caratteristiche principali dell’organizzazione industriale moderna (regolamentazione, specializzazione, competitività e massimizzazione del rendimento), [lo sport] assolve anche ad una missione ideologica di trascendenza universale: incanalare e contenere le tensioni sociali generate dalla modernità capitalista” (Federico Corriente, Jorge Montero, Citius, altius, ortius, “El libro negro del deporte”. Lazo Ediciones, 2013)
Note
(1) Vedere Dakar, nocividad y progreso, La Oveja Negra nro. 11 (diciembre de 2013)
(2) Vedere Não vai ter copa!, La Oveja Negra nro. 17 (junio 2014)