Da quando Viktor Orbán è salito al potere nel 2010, il suo governo ha promosso i “valori tradizionali della famiglia”, introducendo una serie di misure volte ad incrementare la natalità in Ungheria.
Nonostante il governo ungherese avesse finanziato una campagna contro l’aborto, fino all’inizio di questo 2022 non aveva posto dei limiti all’attuale legge “sulla protezione fetale” del 1992.
L’interruzione volontaria di gravidanza presente in questa legge si applica nelle prime 12 settimane di gravidanza se:
– è giustificata da un grave rischio per la salute della gestante;
– è probabile che il feto soffra di una grave disabilità o di un’altra menomazione;
– la gravidanza è il risultato di un reato penale;
– in caso di grave crisi della gestante.
Nel caso in cui si superino le 12 settimane, vi sono tre possibilità per interrompere la gravidanza:
1) Entro la 18sima settimana se: la gestante è di capacità limitata o incapace; non è stato riconosciuto lo stato interessante in tempo a causa di un motivo di salute che è sfuggito al controllo della donna, di un errore medico e/o della negligenza di una struttura sanitaria o di un’autorità.
2) Tra la 20sima settimana e (al massimo) la 24ima settimana qualora la procedura diagnostica è stata ritardata e se la probabilità di danno genetico o teratologico per il feto raggiunge il 50%.
3) Indipendentemente dalla sua durata se: mette in pericolo la vita della gestante; esiste un’anomalia nel feto incompatibile con la vita post-natale.
Oltre a queste applicazioni, la donna, secondo questa legge, per poter abortire ha bisogno di una lettera del ginecologo che confermi la gravidanza e deve recarsi due volte, a distanza di almeno tre giorni l’una dall’altra, presso i servizi per la famiglia, dove riceverà una consulenza sull’adozione e sui sussidi statali per le madri.
Solo a quel punto può ottenere un rinvio per un aborto ospedaliero.
Le restrizioni e le lungaggini burocratiche della legge del 1992, insieme alla deriva conservatrice e reazionaria del governo, hanno portato progressivamente ad una limitazione dei diritti alla salute sessuale e riproduttiva delle donne.
La nuova legislazione sul “battito cardiaco fetale” rientra in questo frangente, confermando come il governo ungherese restringa le libertà personali verso quelle persone marginalizzate e fragili (prima i migranti, poi la comunità LGBTQIA+ e adesso le donne).
Con i tempi che corrono tra il ribaltamento di “Roe v Wade” della Corte Suprema degli Stati Uniti e le dichiarazioni deliranti di Giorgia Meloni (estimatrice di Orbán) sull’aborto, appare chiaro come le derive anti-abortiste stiano soffiando sempre più all’interno dei singoli Stati.
L’articolo che presentiamo è stato scritto da Rita Antoni, una femminista ungherese attiva nella difesa delle donne e all’interno del mondo LGBTQIA+.
Seppur da parte dell’autrice si richiede un cambiamento di rotta da parte dello Stato – lo stesso che controlla i corpi umani e non umani con mezzi violenti e regolamentati -, il quadro delineato è lucido e, al tempo stesso, agghiacciante: alle limitazioni sull’educazione sessuale e l’omofobia divenuta legge, vi è una pesante discriminazione verso le donne come lavoratrici e come esseri umani.
L’emancipazione della donna e i diritti LGBTQIA+, per il governo a guida Fidesz e i suoi alleati borghesi, sono un qualcosa da osteggiare ad oltranza; la difesa dei diritti economici e sociali per questi signori sono sacri e possono passare sopra qualsiasi persona.
Traduzione dell’articolo di Rita Antoni, A nők is emberek, és ez nagyon zavarja a kormányt
Rita Antoni è laureata in inglese e filosofia all’Università di Szeged, con specializzazione in studi di genere. Nel 2009 ha co-fondato il sito web femminista Nőkért.hu (www.nokert.hu) e nel 2013 l’Associazione Nőkért, che si propone di far conoscere la storia del femminismo e delle donne emarginate che hanno raggiunto traguardi significativi e di combattere il sessismo e la violenza contro le donne (in particolare nel campo della sensibilizzazione). Nel 2014 ha creato Nővértékát (http://noverteka.v-comp.ch/noverteka/home.htm), sito dell’Associazione ungherese per la difesa delle donne, in cui vi sono articoli relativi al mondo LGBTQIA+
“Il femminismo è l’idea radicale che le donne siano persone”.
Quando ho sentito per la prima volta questa definizione (coniata dalla scrittrice americana Mary Shear negli anni ’80), mi è sembrata quasi ridicola. Ma oggi siamo arrivati al punto in cui è necessario spiegarlo di nuovo.
C’era da aspettarselo che la guerra del governo [contro] l’ “ideologia gender” prendesse di mira le conquiste più basilari del femminismo: l’istruzione superiore, i diritti riproduttivi; sono curiosa [di sapere] quando sarà il turno del diritto al voto delle donne.
A differenza del femminismo che ha una tradizione [nella società] ungherese, la guerra “anti-gender” è un termine importato che ne ha sostituito un altro: l’ “anti-migrantismo”, affievolitosi e diventato irrilevante dal 2016-17.
Il motivo delle virgolette nell’ “anti-gender” è che [il governo] sta combattendo un nemico creato ad arte, attribuendo significati e scopi al termine gender completamente mistificatori.
Le vittime [di questa guerra governativa] sono state: il master autonomo in studi sociali di genere, la Convenzione di Istanbul che protegge le donne dalle violenze di coppia, i diritti normativi di cambiamento di genere e di nome delle persone transgender e (ad esclusione delle coppie omosessuali) l’adozione di bambini da parte delle persone single. Poi è arrivata l’ignobile confusione tra gay e pedofili, e la quasi totale impossibilità di fare educazione sessuale nelle scuole: gli esperti civili non sono ammessi nelle scuole, molti insegnanti non osano parlare di argomenti correlati (anche in un contesto eterosessuale).
Era ovvio che una volta che fosse stata spinta fuori la comunità LGBTQ, sarebbe stato il turno delle donne.
Anche se è una violazione dei diritti fondamentali, se lo Stato non protegge il diritto alla vita e l’incolumità della donna – rendendola vulnerabile al suo abusatore -, la maggior parte delle donne è facilmente indotta a credere di non essere coinvolta nella violenza relazionale.
[…]
Il governo sta ora cercando di capire fino a che punto può spingersi nel limitare i diritti delle donne, qual è il livello che la società può tollerare. Ecco perché è stato possibile preparare lo studio dell’Ufficio statale di revisione contabile sulla presunta “educazione rosa”, seguito, prima ancora che ce ne rendessimo conto, dall’accorata dichiarazione di Sándor Pintér. Entrambi puntano nella stessa direzione: le donne non devono mostrare alcuna ambizione o volontà propria, ma devono solo stare zitte e partorire.
4,5%. [È] la maggioranza delle donne nell’istruzione superiore a far suonare un campanello d’allarme verso un ente pubblico che teme per l’uguaglianza di genere sancita dalla Costituzione. [Risulta] ironico come lo squilibrio di genere sia molto più marcato in Parlamento, ad esempio, con solo il 14% di donne deputate. Questo dato perdura da molti anni e non ha preoccupato le autorità pubbliche. A nessuno della loro parte mancavano le pari opportunità, e chi cercava soluzioni veniva messo al rogo come un malvagio ingegnere sociale.
Cosa succede ora? C’è un “vantaggio” femminile del 4,5% nell’istruzione superiore e un “vantaggio” del 10% tra i laureati (le virgolette sono usate perché non vi sono vantaggi per il mercato del lavoro), e un ente statale si precipita ad abbracciare questa palese ingiustizia – nonostante non sia la sua funzione.
La Corte dei Conti teme che i ragazzi e gli uomini non siano in grado di sviluppare i loro talenti e le loro capacità specifiche, nonostante la situazione di genere nel mercato del lavoro, nel management e così via, dimostri l’esatto contrario.
Quando ci preoccupiamo, a livello statale, che le donne non siano in grado di sviluppare i loro talenti, le loro capacità specifiche a causa di pregiudizi sessisti, delle sanzioni del mercato del lavoro (derivanti dalla maternità) e delle molestie sessuali sul posto di lavoro che restano impunite?
Naturalmente non sono obbligati a farlo: Katalin Novák, in qualità di ministro, ci ha insegnato a non “competere con gli uomini” (perché, dopo tutto, l’ambizione delle donne non può che ruotare intorno agli uomini, come tutto il resto del mondo). Questo è ovviamente il motivo per cui la maggior parte delle insegnanti donne deve sopportare una retribuzione bassa: se ascoltassero gli scioperanti e aumentassero i loro stipendi, il problema della “femminilizzazione” che la Corte dei Conti condanna, scomparirebbe.
Purtroppo, però, le donne non hanno solo ambizioni personali e competenze specifiche, ma anche una volontà propria. Questo fa sì che vogliano decidere da sole sulla loro vita personale, e questo include non solo i loro studi, ma anche il loro corpo, la loro sessualità e la loro fertilità.
Vogliono decidere da sole cosa fare in caso di gravidanza indesiderata e il loro diritto a farlo (forse perché l’era Ratko ha lasciato un segno troppo profondo nella memoria sociale) è ampiamente sostenuto.
[Questa autodeterminazione è] una tradizione pluridecennale che, a differenza della Polonia, ad esempio, non è nemmeno controbilanciata da un cattolicesimo diffuso: la percentuale di persone che praticano la propria religione è molto bassa in Polonia (si veda l’esempio delle donne che protestano nelle chiese polacche durante la messa) e nemmeno loro sono sicuri di essere d’accordo con ogni singolo dogma della Chiesa. La contraccezione, ad esempio, è utilizzata da una percentuale significativa di fedeli cattolici, nonostante il divieto.
Proprio come le consultazioni obbligatorie con un’ostetrica, presumibilmente l’ordinanza sul battito cardiaco non avrà alcun effetto significativo sul mantenimento delle gravidanze indesiderate.
Sono pochissime le donne che cambiano idea tra le due consultazioni in corso, e non ci sono prove che lo abbiano fatto a causa di una di queste.
L’obbligo di ascoltare il battito cardiaco non servirà a nulla se non a fare pressione psicologica e a punire – al massimo si incoraggeranno le donne ad abortire in un Paese vicino dove, in cambio di soldi, saranno trattate come esseri umani. E chi non può permetterselo troverà un modo per farlo a casa – i ferri da maglia potrebbero ritornare se continuiamo così.
Un impatto nel ridurre ulteriormente il numero degli aborti (i quali da tempo sono in calo) sono il finanziamento della contraccezione e l’educazione sessuale completa nelle scuole. Nessuno dei governi precedenti ha mosso un dito per portare avanti la contraccezione; l’educazione sessuale, invece, è stata appena uccisa da Fidesz sulla scia della legge pro-omofobia.
Eppure sono queste le direzioni in cui dovremmo andare, perché se lo Stato vuole prevenire gravidanze indesiderate deve rispettare i desideri (anche se difficili) delle donne.
Nelle circostanze attuali, quindi, l’idea che le donne siano esseri umani è davvero radicale. È un essere umano: con capacità, desideri, ambizioni, personalità e volontà individuali. Per quanto il governo cerchi di farle tornare indietro di almeno cento anni, le donne non vogliono essere un utero ambulante. Anche lei ha una sola vita e non vuole sacrificarla per un “principio”. Anche se raramente si definisce femminista, [la donna] vuole essere se stessa, indipendentemente dal fatto che la maternità faccia parte della sua vita. Anche se lo fosse, vuole decidere da sola quando e in quali circostanze.
Una donna vuole essere se stessa, non un’anonima lavoratrice di sfondo senza voce e senza volto, un mezzo tra le generazioni di uomini che si susseguono liberamente. Sarà bene che nel XXI secolo questo venga finalmente riconosciuto.